3 - Epistemica del Nulla
Epistemica del nulla
Il problema epistemologico della singolarità
Alessandro
Ceci
“la vita ha orrore della assoluta esattezza”
Thomas
Mann
Poco prima di morire, con il corpo putrefatto da vesciche ed ulcere provocate forse da una nube di gas sparata contro l’esercito tedesco di cui era tenente, “con gli occhi iniettati di sangue”[1], disteso su una barella, sotto piaghe e croste che, con il dolore, con il bruciore, nascondevano il pensiero, Karl Schwarzschild, il grande matematico e astronomo che risolse l’equazione della relatività generale di Einstein scoprendo matematicamente la singolarità planetaria in cui lo spazio e il tempo si accartocciano e le leggi della matematica e della fisica non contano più nulla, ciò che noi oggi volgarmente chiamiamo “buco nero”, si rivolse al giovane matematico Richard Courant, anche lui ferito in guerra, occasionalmente nello stesso ospedale militare, e chiese se la mostruosità della materia che inghiotte se stessa in un vuoto infinito potesse verificarsi anche nella mente e nella socialità umana, se una totale omologazione di menti o anche lo spazio psichico di un solo individuo potesse generare, in un momento improvviso e incalcolabile, una singolarità identica e altrettanto mostruosa.
Sembra che Courant, forse pietoso vendendolo in fin di vita, cercò di rassicurarlo.
Tuttavia “Schwarzschild era inconsolabile. Farfugliava qualcosa circa un sole nero che si affacciava all’orizzonte e che, un giorno, avrebbe potuto ingoiare il mondo intero, lamentandosi che ormai non c’era niente da fare. Perché la singolarità non dava segnali d’allerta. Il punto di non ritorno – il limite oltre il quale non si poteva andare senza rimanere intrappolati – non era indicato in alcun modo. Chiunque l’avesse varcato non avrebbe avuto speranza, il suo destino sarebbe stato segnato, qualunque percorso l’avrebbe condotto dritto alla singolarità.”[2]
Oggi ne abbiamo perfetta
consapevolezza: esiste infatti una fisica del nulla[3], pur
non esistendo il nulla. Si tratta di un paradosso valido anche sul piano della
logica: il nulla è definibile come il luogo in cui non esiste alcun qualcosa,
ma, nel denominarlo “nulla”,
stabiliamo che sia esso stesso qualcosa. E che la negazione di qualsiasi cosa
sia già un qualcosa, è già un bell’equivoco.
Lo intuiva soltanto perché Schwarzschild era condizionato da un paradigma consolidato e allora indubitabile. L’esistenza del nulla in fisica aveva una sua copiosa e documentata letteratura. Infatti, l’idea che lo spazio vuoto sia “escluso dalle leggi della fisica”[4] è un’acquisizione relativamente recente.
Newton, ad esempio, “mirava a sviluppare una fisica delle cose:
dagli oggetti di uso comune, come un tavolo o una sedia, ai pianeti e alle
stelle. Prima, però, doveva dire come sarebbe stato il mondo se non ci fosse
stato nulla. Doveva descrivere la struttura geometrica dello spazio vuoto”[5]. Il
vuoto o il nulla, che non è proprio la stessa cosa, era considerato eccome in
tutta la lunga epoca del paradigma newtoniano fino al ‘900. Soltanto con la fisica quantistica dei campi
abbiamo avuto la consapevolezza che “il
nulla, così come lo immaginiamo abitualmente, è impossibile”[6].
In realtà, fu propria Einstein, il
grande innovatore della fisica moderna, a svelare, diversamente dal paradigma
netwoniano, con le sue teorie della relatività generale e della relatività
ristretta, che “lo spazio vuoto immaginato
da Netwon è fisicamente impossibile”[7]. Per
la teoria della relatività e per la successiva teoria quantistica dei campi, “lo spazio vuoto non è semplicemente un
palcoscenico su cui va in scena la fisica della materia, ma una entità dotata
di una struttura propria, interessante e complessa quanto la struttura della
materia stessa”[8].
La teoria einsteniana ci restituisce
un concetto di nulla, per quanto paradossale, che supera qualsiasi
rappresentazione geometrica. Si parte dalla constatazione che “qualsiasi cosa – una stella, un libro, una
balenottera azzurra – alteri la geometria dello spazio e del tempo”[9]. E
conclude con il consentire “allo spazio e
al tempo di incurvarsi anche in presenza di nulla, in qualsiasi punto o in
qualsiasi istante”[10]. E
questo è possibile soltanto perché un vuoto quantistico conserva “alcune sue proprietà così sorprendenti da
far sfumare ulteriormente una distinzione un tempo nettissima: quella tra il
«qualcosa» e il «nulla»”[11].
Il vuoto, dunque, è pieno. E il
significato di nulla passa dalla impossibilità hegeliana ad assorbimento.
Un passaggio interpretativo che ci permette di sviluppare una innovazione
fisica del nulla, in grado di mettere “a
nudo la sostanza di queste teorie, il nucleo della loro struttura concettuale”[12]. In questo modo è sciolto il paradosso: la
fisica del nulla ci permette di conoscere qualcosa che non esiste (il nulla)
che, proprio per la sua inesistenza, è qualcosa che dobbiamo conoscere.
A noi resta, inalterato il suo
interrogativo: esiste una singolarità, un vuoto assorbente, un buco nero, nella
società e nella psiche degli esseri umani? Esiste, dentro e fuori di noi, il
nulla?
La singolarità prima di noi (filosofia)
Il nulla è l’altra faccia della «singolarità di Schwarzschild».
Agli esordi della filosofia, in quel mix cognitivo in cui le discipline e le specializzazioni non si distinguono l’una dalle altre, i greci avevano risolto facilmente il problema del nulla: il nulla è il non essere. E in quanto a non essere, il nulla è indefinibile. Almeno per Parmenide. Basta però un banale gioco logico per permettere a Platone di giungere ad una definizione leggermente diversa: se l’essere è ciò che siamo, il nulla è ciò che non siamo, la nostra alterità. In questo modo, non si può più affermare che il nulla, pur essendo il non essente, non esista[13]. Se esistiamo noi, infatti, deve esistere la nostra alterità. Se esiste un’affermazione, deve esistere anche la sua negazione: “risulta che c’è un essere dal non-essere, così per il movimento come per tutti i generi, giacché in tutti i generi l’alterità, che rende ciascuno di essi altro da sé, fa un non–essere dell’essere di ciascuno: sicché correttamente diremo che tutte le cose non sono ed insieme sono e partecipano dell’essere”[14].
La modernità, tramite Hegel, introduce una terza concezione del nulla, oltre l’inesistenza ed oltre l’alterità. Il nulla diventa impossibilità; per dirla con Heidegger, che spiega Hegel, il nulla è “la negazione radicale della totalità dell’esistente”[15]. Fino a Sartre che ci conduce direttamente nel problema posto da Schwarzschild e dalla sua singolarità: una singolarità che vale sia per l’individuo che per il soggetto, sia per il singolo che per la collettività, sia per la persona che per la società. Sartre lo fa introducendo il concetto di coscienza. Per Sartre il nulla dentro e intorno a noi, nella psiche e nella società, è la negazione di sé (dell’essere per sé). Per Sartre la coscienza è costituita da possibilità e per questo motivo è sempre protesa verso il nulla. Non verso il nulla che ci sarà, ma verso il nulla che c’è stato, verso le possibilità a cui abbiamo rinunciato, verso le cose che non abbiamo mai avuto perché non le abbiamo volute o perché non abbiamo saputo averle. In questo senso il nulla è la negazione della nostra coscienza in quanto negazione delle nostre possibilità. Pertanto, il nulla non è davanti a noi. Il nulla è dietro di noi, in ciò che avremmo voluto e non abbiamo avuto, in ciò che abbiamo rifiutato. “Il nulla non è, il nulla è stato annientato. Resta dunque che deve esistere un essere – che non potrebbe essere l’in sé – che ha per proprietà di annullare il nulla, di reggerlo col suo essere, di sostenerlo perpetuamente con la sua esistenza: un essere per il quale il nulla viene alle cose”[16].
Anzi, proprio perché il nulla è
dietro di noi, nella vita che non abbiamo vissuto, possiamo dire che
continuamente l’uomo rinuncia alle sue possibilità per far “apparire il nulla nel mondo”. Ogni
nostra rinuncia è definitiva ed esistenziale, “si investe del non essere”; e lo fa “a questo scopo” (I,5), cioè proprio per scoprire il nulla nel
mondo.
E il ruolo della coscienza?
La coscienza è lo strumento della
nostra libertà di scegliere a quali possibilità rinunciare. La coscienza offre
a ciascuno di noi la consapevolezza della negazione di essere, della scelta di
non essere. E poiché non possiamo realizzare ogni chance di vita che abbiamo di
fronte, la scelta di una per l’altra e, di più, la coscienza di questa scelta,
segna inequivocabilmente la nostra parzialità, l’impossibilità di essere Dio,
di avere tutto e il suo contrario sempre e contemporaneamente, la riduzione di
ciò che siamo a come possiamo esistere; giacché ciò che siamo è soltanto come
possiamo esistere.
La nostra vita è così
contraddittoria, oscillante, ambigua, proprio per il fatto che in ogni istante,
ogni “possibilità resta sempre aperta”,
ma che ha in se stessa la probabilità che la possibilità a cui abbiamo
rinunciato “si riveli come un nulla”.
Un nulla che ci isola alla sola esistenza, cioè alla possibilità che abbiamo
coscientemente scelto per esistere e che si riduce a quella unica, esclusiva ed
escludente vita. “Ma dal fatto stesso che
si prospetti che un esistente possa sempre risolversi come nulla, ogni
questione suppone che si realizzi un arretramento nientificatore, in rapporto al
dato, e diviene una semplice prestazione, oscillante tra l’essere e il nulla.”[17]
In fin dei conti, la sostanza del
discorso che ancora ci riguarda, anzi, di più ci riguarda in una logica
quantistica, è tutta intera in questa possibilità che è l’uomo; non in quella
che ha (sempre ridotta) ma in quella che è. In questo caso, soltanto in questo
caso, soltanto cioè essendo la possibilità, il nulla dell’uomo si mostra nelle
dimensioni della vita non avuta, nelle possibilità che non si sono realizzate
sia perché non sono state scelte, sia perché non sono potute avvenire. Il
nulla, ciò che non abbiamo avuto, segna la nostra identità, ci rinchiude nella
limitazione nostra esistenza, ma è pur sempre una libertà, poiché “l’uomo non è affatto prima, per essere
libero dopo, non c’è differenza fra l’essere uomo e il suo essere-libero”.
Come se volesse raccogliere la domanda pre-mortem di Schwarzschild, Sartre sceglie la sintesi filosofica per rispondere congiuntamente a due aspetti che appaiono distinti: quello della psiche, il nulla dentro di noi, e quello della società, il nulla fuori di noi. Il nulla che ci resta filosoficamente è quello della nostra essenza, ogni volta che si realizza la nostra irreversibile esistenza.
La singolarità dentro di noi
(psicologia)
Noi ci autorappresentiamo
quotidianamente. Ogni nostro gesto, ogni comportamento, le parole con cui
cerchiamo di riconoscerci negli altri, espressioni, gesti, emozioni, azioni e
relazioni sono gli strumenti con cui costruiamo il nostro sé[18],
l’espressione di ciò che crediamo di essere nel dominio della rappresentazione
sociale. Ci autorappresentiamo istintivamente. Quando scivoliamo nella
singolarità di Schwarzschild questa auto rappresentazione diventa un peso
insostenibile da cui sfuggiamo o che rifiutiamo (che è il modo migliore per
sfuggire). Restiamo li, nella liminalità, dove tutto è accartocciato, nella
solitudine dell’assenza di sé, con la voglia di restare lì, senza uscire, senza
uscirne, perché la permanenza nel dolore dell’assenza di sé è pur sempre un
modo di sentirsi e di sopravvivere.
La singolarità di Schwarzschild
dentro di noi non è nemmeno un vuoto esistenziale. Non è nichilismo soltanto. È
un modo per proteggersi in sospensione quando si crede di non poterne uscire
perché tutto attorno a noi è accartocciato dalla mano invisibile del non
essere.
Può essere considerata una
singolarità?
Questo rifiuto di sé che l’ombra
comunque rappresenta, questo inconscio che non vuole e non riesce emergere, può
essere una singolarità in cui ciascuno può finire?
“La figura dell'Ombra personifica
tutto ciò che il soggetto non riconosce e che pur tuttavia, in maniera diretta
o indiretta, instancabilmente lo perseguita: per esempio tratti del carattere
poco apprezzabili o altre tendenze incompatibili”[19].
Come nella singolarità di Schwarzschild,
anche nell’ombra di Jung tutto si accartoccia senza spazio né tempo: ciò che
avremmo voluto essere e non siamo, l’altro e l’altrove, me e il diverso da me,
ciò che ci sembra osceno e la morale collettiva, il mito e il rito, ciò che non
viviamo e ciò che non vediamo. E, nella totalità, questa ombra è la singolarità
in cui si mischiano indistinguibili il conscio e l’inconscio.
La psicologia contemporanea ha
interpretato questa ombra, letteralmente, come “alter ego”, l’altro oltre la vita vissuta, l’alterità sconosciuta,
o meglio ignota, talvolta volutamente ignorata, che destabilizza l’individuo e
la sua coscienza e che può essere interpretata in ambito terapeutio o in
termini di ricomposizione dei sogni, di ricostruzione del proprio onirico. Non
per Jung, però. Per Jung noi dobbiamo passare dentro la singolarità, dentro
l’ombra. È in questo luogo in cui tutto si scompone e si sovrappone. Passando
dentro questa singolarità psichica ciascuno ha la propria enorme possibilità di
incontrare se stessi: “L'incontro con sé stessi è una delle
esperienze più sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è
negativo sul mondo circostante. Chi è in condizione di vedere la propria Ombra
e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito”[20]. Se
fossimo in una singolarità quantistica, senza meta livelli di riferimento, il
nostro problema principale sarebbe quello del posizionamento. Jung ripete
istintivamente lo schema che ignorava e, considerando l’ombra una singolarità,
pone il problema di risoluzione fondamentale nella individuazione, che consiste
in un cluster, cioè nell’integrazione delle parti scisse della nostra psiche. Nell’ombra
non si distinguono i confini e nemmeno le forme, non si distinguono le cose.
Per Jung è la coscienza che distingue le cose uno dalle altre, è la coscienza
che divide gli opposti, il positivo dal negativo, il giusto dall’ingiusto, il buono
dal cattivo. Nell’ombra non c’è coscienza in grado di distinguere, è una
singolarità senza opposti “...Ciò
che il Dio sole dice è vita. Ciò che il demonio dice è morte. Ma Abraxas
pronuncia la parola santificata e maledetta che è vita e morte insieme...”[21]
Per Alain Ehrenberg, invece, la singolarità in cui viviamo è il prodotto dello uno status tipico della modernità, successiva alla modernizzazione degli anni ’60, il momento in cui l’uomo è rimasto davvero solo con se stesso. “È proprio il sisma dell’emancipazione ad aver sconvolto, a livello collettivo, l’intomità di ciascuno di noi: la modernità democratica – e questa è la sua grandezza – ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posti a poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento”[22]. La modernizzazione avrebbe individualizzato la persona che “non è più mossa da un ordine esterno (o da una conformità alla legge), ma occorre che faccia appello a risorse interne, a competenze mentali proprie” [23]. Questa transizione avrebbe destabilizzato e in qualche modo delegittimato le “istituzioni del sé”, lasciando la persona sola e singolare sotto il peso enorme della propria responsabilità. La singolarità di Schwarzschild, inizierebbe qui, dalla incapacità di reggere questo peso, e ha un nome preciso. Si chiama depressione: che “esprime l’impossibilità stessa del vivere, è lo fa con il linguaggio della tristezza, dell’astenia (la fatica), dell’inibizione e di quella particolare difficoltà a dare il via all’azione che gli psichiatri chiamano «rallentamento psicomotorio». Il depresso, incalzato da un tempo senza futuro, appare irrimediabilmente privo di energia, risucchiato dalla logica del «niente è possibile». Spossati e svuotati, agitati e violenti, in una parola, malati di nervi, scontiamo dentro i nostri stessi corpi il peso della sovranità individuale”. [24] La singolarità di Schwarzschild dentro di noi è perfettamente descritta. Non è detto però che sia corrispondente. Sostenere, nell’ottica di un liberalismo ripristinato[25], che le persone della modernità sono libere dal conformismo della legge e soli sotto la loro individuale responsabilità. Il conformismo a cui soggiace l’uomo della modernità è molto più omologante della legge. Denunciato in epoca non sospetta da David Reisman[26] (1950), decisamente sottovalutato dalle scienze sociali europee, il conformismo dell’uomo moderno è prodotto e indotto dall’eterodirezione, dalla direzione dall’esterno, dalla mano invisibile del gruppo dei pari. “Ciò che è comune a tutte le persone eterodirette è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l’individuo, quelli che conosce o quelli con cui ha relazione indirette attraverso gli amici e i mezzi di comunicazione di massa. Questa fonte è naturalmente «interiorizzata» nel senso che la dipendenza da essa come guida nella vita è radicata nel fanciullo molto presto.”[27] Dunque, l’individuo non si trova sotto il peso della responsabilità del proprio sé, ma si accomoda nella deresponsabilizzazione di sé condotta dalla omologazione dei comportamenti e dei pensieri dei contemporanei. Un metodo, quello della direzione dall’esterno, che non cambia anche quando dovessero, con una certa elasticità eccessivamente tollerante, cambiare i contenuti: “I fini verso i quali tende la persona eterodiretta si spostano con lo spostarsi della guida: è solo il processo di tendere a una meta e il processo di fare stretta attenzione ai segnali degli altri che rimangono inalterati per tutta la vita.”[28] E alla fine ciò che conta non è essere, ma appartenere, restare interconnessi nel dominio relazionale che ci eterodirige, essere omologati per essere riconosciuti, trasformando la responsabilità di sé in una irresponsabilità senza sé, rappresentata dalla anonima, indifferente, irriconoscibile, strumentale produzione di “like”. Un’adesione senza riconoscimento che tollera ogni rappresentazione per favorire l’omologazione. “Questo modo di tenersi in contatto con gli altri, permette una stretta conformità di comportamento, non attraverso l’esercizio di un dato comportamento, come nel carattere a direzione tradizionalistica, ma piuttosto attraverso una eccezionale sensibilità per le azioni e i desideri degli altri”[29].
Il vincolo che
lega ciascuno di noi al suo gruppo di pari è molto più stringente di qualsiasi
legge. Un vincolo che deresponsabilizza molto più di qualsiasi legge. Anzi, in
questa condizione di massificazione omologata, mediaticamente illusoria della
propria unicità, trovo molto più attinente l’ipotesi di una diffusione globale
della “insostenibile leggerezza
dell’essere”[30].
In ogni caso,
qualsiasi sia la motivazione della genesi, la depressione resta una delle forme
più evidenti della singolarità di Schwarzschild dentro di noi.
L’altra espressione della
singolarità di Schwarzschild dentro di noi, l’ultima in termini di tempo, non
si riferisce alla modificazione del legame con gli altri o con sé, ma
all’assenza di legame. Si tratta di un disagio che fonda sul nulla, sulla “atmosfera nichilista”, come dice
Galimberti, che avvolge principalmente i giovani di oggi i quali “non si
interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha
sempre fatto, ma […] sul significato stesso della loro esistenza, che non appare
loro priva di senso perché costellata di sofferenza, ma al contrario appare
insopportabile perché priva di senso”[31].
E, proprio per questo dunque la natura della singolarità di Schwarzschild
dentro di noi, “non è esistenziale, ma
culturale”; in un’epoca in cui “conosciamo
solo anime individuali, rese asfittiche dall’incapacità di correlare la loro
sofferenza quotidiana con il dolore del mondo”[32].
Ho molta titubanza ad affibbiare singolarità
di Schwarzschild soltanto ai giovani. Concordo con Galimberti, invece, che
questa singolarità dentro di noi non è riconducibile al dolore di questa epoca,
questo nostro dolore, Credo che gli uomini contemporanei abbiano, in qualche
modo perso, la loro storicità. Viviamo nel vuoto, freddo, indifferente riflesso
degli specchi, una illusione che ci trasmettiamo senza eccessivo clamore. Una
illusione di protagonismo che nasconde una realtà di solitudine, appunto, come
quando ci guardiamo in uno specchio, quando crediamo che gli altri ci vedano
così come ci riflettiamo, quando in realtà siamo soli, ciascuno di noi è solo, e
crede di essere la proiezione di sé, il riflesso fulmineo nello specchio dell’eterno
presente. Ogni generazione si proietta nella cronaca. La nostra non riesce a
trasformarsi in storia, non sa proiettarsi oltre se stessi, al di là del gruppo
contemporaneo dei pari. E questa solitudine rende tutto insignificante.
“Temo adesso che lo specchio
nasconda / Il vero volto dell’anima mia, / Oltraggiata da ombre e da colpe”[33],
scrive Borges. La nostra filosofia ha occultato lo specchio per evitare il
riflesso della proiezione. Anzi, si potrebbe affermare, come dice Mauro
Carbone, che la nostra filosofia “si è tradizionalmente identificata – che
ha trovato la sua identità – nella lotta contro gli schermi, assimilandoli alla
illusione, all’inganno, all’ostacolo che impedisce di contemplare la verità”[34],
come le ombre che si proiettano sul muro nella caverna di Platone. Solo che il
muro della caverna riflette le ombre. Oggi siamo noi le ombre riflesse dal muro
della caverna mediatica. Siamo noi il riflesso degli schermi, dei video, delle
immagini che ci vengono quotidianamente trasmessi.
Il nulla della singolarità di Schwarzschild
è dentro di noi, come riflesso indifferente della nostra insignificanza. E non
ci accorgiamo che quel riflesso ci fulmina nell’assenza di noi stessi. Qualsiasi
cosa guardiamo in uno schermo, sappiamo che in quello schermo si proietta la
nostra vita, che la vittima siamo noi, che il carnefice potremmo facilmente
essere noi, con indifferenza, dentro ogni assenza perché quello schermo è uno
specchio.
Ora il punto è: siamo ancora
convinti che singolarità di Schwarzschild, cioè le cause della distruttività,
aggressiva o regressiva, così come le ha indicate la letteratura scientifica,
siano riconducibili alla triforcazione pulsionale, culturale e sociale di
Freud, di Fromm e di Schumpeter? O è più vero, come sono incline a credere, che
la singolarità di Schwarzschild nel mondo contemporaneo, che induce a
multiformi comportamenti distruttivi non derivi piuttosto da un solitudine
quantistica; un silenzio cioè che, in ogni suo momento e in ogni sua
espressione comportamentale, rappresenti l’insignificanza, l’assenza totale
della complessità delle infinite motivazioni, ignoranza accomodante e
giustificatoria di cause e motivazioni banali, occasionali, utili a tollerare
con insopportabile leggerezza la propria condizione contemporaneamente locale,
globale, glocale, essenziale ed esistenziale, individuale e collettiva,
emozionale e culturale? Che non si tratti piuttosto di un silenzio discontinuo
e minimale, non percepibile dagli strumenti di individuazione classici perché
attribuibile a momenti discreti, misurati, indeterminati e complementari; una
vacuità collettiva e pure di ciascun individuo, le cui proprietà pertanto non è
possibile definire univocamente perché dipende dai tipi di interazione che la
generano. Una vacuità ologrammatica, cioè, come scrisse una volta Edgar Morin, che
“è un’immagine fisica le cui qualità … dipendono dal fatto che ogni suo
punto contiene quasi tutta l’informazione dell’insieme che l’immagine
rappresenta”[35], un silenzio
da posizionamento di cui “possiamo dire non soltanto che la parte è nel
tutto, ma anche che il tutto è nella parte”[36]?
Nel mio libro,
mai pubblicato eppure profetico nel titolo, “Discorsi ad un pubblico assente”,
osai per la prima volta le mie eterne ripetizioni: “La forma. Talvolta
deforma. Talvolta trasforma: come in qualche brano di musica rock, per chi è
abituato ad ascoltarne, come in Lizard, la lucertola che cambia pelle ma non
natura”[37]. Sulla
lucertola scoprii più tardi, nel 1993, una raccolta di racconti scritti da
Banana Yoshimoto[38]. Sia
per i brani musicali che per i racconti “la trama non soltanto un tracciato,
è anche una forma, una forma che pian piano si scompone, perde la sua
raffigurazione, si decompone, lascia note sole, in libertà, squillanti e
confuse, che si confondono, perdute in un ambiente spesso indistinto di suoni e sensazioni”[39].
Lo specchio,
invece, ci riflette e noi siamo, anche noi siamo, la solitudine di ogni
generazione. Ortega y Gasset sosteneva che ogni nostra epoca porta con sé la
sua norma e la sua enormità, il suo decalogo e la sua falsificazione[40].
Alla fine, la singolarità di Schwarzschild dentro di noi è l’alterazione che
trasforma la norma in enormità e il decalogo in falsificazione.
La singolarità fuori di noi (scienze
sociali)
Abbiamo anche un’altra forma della «singolarità di Schwarzschild».
Il tema è stato intuito, molti anni
fa, da Ralf Dahrendorf. In un testo pubblicato per le edizioni Laterza nel
1985, Dahrendorf individua la «singolarità
di Schwarzschild» nella “disintegrazione
del contratto sociale e quindi soprattutto negli antichi legami che tenevano
insieme gli uomini”[41]. In
vari ambiti e per diverse motivazioni:
- perché “la
società ufficiale continua a girare intorno al lavoro, a considerare la
vita come determinata dalla professione”[42];
- perché “la
tecnologizzazione porta, fra l’altro, ad un’estrema qualificazione del
lavoro. Questo fatto però, non solo riduce i posti di lavoro disponibili,
ma soprattutto fa sì che a restare per la strada siano coloro che sono
privi di una qualificazione superiore per mancanza di occasioni o anche di
talento”[43];
- perché “ le
società moderne hanno prima di tutto ampliato enormemente quel periodo di
vita che noi chiamiamo «gioventù»”[44];
- perché “oggi
immigrati, profughi, lavoratori stranieri e gruppi assimilabili vivono in
uno spazio sociale intermedio, non garantito, con esigenze che non vengono
soddisfatte, peso indesiderato ed ineliminabile per gli altri, i quali non
sanno più esattamente cosa significhi stare a casa propria, senza
addossare ai sopraggiunti tutta quella paura indeterminata”[45];
- perché la scuola “si è trasformata in una scuola residuale” e “la scolarità segna dunque la cesura fra
coloro che hanno almeno un piede sulla scala mobile e quelli per i quali
anche il gradino più basso è irraggiungibile”[46];
- perché infine “nel concreto destino del singolo c’è una specie di isolamento, di
particolare” e quindi “per
tirarsi fuori dalla sottoclasse, quando lo si voglia, non si richiede un
comportamento collettivo, ma uno sforzo individuale”[47].
Per tutte queste motivazioni, ed
altre che “hanno fatalmente la tendenza a
sovrapporsi”[48], “chi oggi cade, non cade nelle braccia della famiglia, nelle mani
soccorritrici della sua comunità, della sua chiesa, ma scivola attraverso tutti
loro nel vuoto”[49].
Siamo in piena logica dei network.
La “ritessitura” riguarda naturalmente le connessioni, la rete di
protezione degli individui che rischiano di cadere in un vuoto culturale e
politico da cui non si può più riemergere. Evidentemente Giddens ha piena
consapevolezza della presenza di una singolarità sociale che inghiotte i
bisogni dei cittadini e, spesso, la loro stessa fisicità. Ritessere significa
recuperare e restituire la protezione tradizionale dei cittadini, in istituti
governamentali (la casa, la famiglia, la scuola, gli ospedali, il sindacato, il
partito…) che, non essendo più in grado (o per incapacità o per esclusione) di
gestire la governance, cadono in obsolescenza e lasciano ciascuno di noi solo
con se stesso, spesso contro se stesso, più frequentemente senza se stesso. Questo
vuoto politico, di cui l’Italia ha fatto ampia esperienza e che ha permesso la
nascita e la proliferazione delle organizzazioni criminali, è la singolarità
più forte che abbiamo nei network sociali moderni; a maggior ragione in
un’epoca di mutazione generale dei nostri tempi.
Per evitare la «singolarità di Schwarzschild», dunque, non abbiamo bisogno di
anelar privilegi, di rincorrere “la
diuturna fatica dell’ambizione personale”[53].
Abbiamo bisogno di riformare e, talvolta, di riformulare istituti e istituzioni
per incrementare l’offerta di possibilità di autorealizzazione; giacché in
questo consiste la democrazia oggi: offrire ai cittadini, sia come soggetti che
come individui, le maggiori e migliori chances
di vita possibili. Estendere le possibilità dei cittadini per una vita fruita,
questa è una prospettiva democratica, politica e sociale all’altezza dei tempi.
E il modo migliore per annullare il vuoto sociale e psichico, relazionale e
cognitivo che ci attanaglia.
Occorre una funzione politica
indispensabile.
Ho più volte indicato[54] che,
per evitare il vuoto sociale e psichico, la politica deve rimodulare i 3
fattori che determinano la morfologia dei network moderni: i soldi (il fattore
fiscale), gli uomini (il fattore elettorale) e le idee (il fattore culturale –
comunicativo/educativo).
Lo ripeto qui.
La singolarità oltre noi (scienze umane)
Esiste una forma del nulla?
Nelle “Città Invisibili” di Italo Calvino, la città di Fedora, “metropoli di pietra grigia”, contiene “le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo”: “In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro”. Queste sono le forme del nulla nel network delle relazioni sociali: ciò che avremmo potuto ottenere e non abbiamo ottenuto, ciò che avremmo potuto realizzare e non abbiamo realizzato, ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Ciò che non abbiamo ottenuto, ciò che non abbiamo realizzato, ciò che non è stato, che avrebbe potuto esistere e semplicemente non è esistito. Questo è il nulla.
Il nulla è fuori e dentro di noi.
L’argomentazione è semplice.
Il primo passo chiarisce subito che
esiste un circolo infinito di cose: “l’«esistenza»
che non è mai incominciata e non avrà mai fine è divenire infinito della
natura, la «natura ognor verde». A differenza degli universi che, nonostante il
loro ringiovanire a primavera «continuamente invecchiano» fino a perire, la
natura è sempre verde, non c’è mai per essa un’ultima primavera. La «natura» è
il circolo infinito dei circoli finiti in cui ogni universo o mondo consiste”[55].
Nel secondo passo sostiene che il nulla è il relativo personale, il
tutto è l’assoluto universale: “Se questo
processo è il divenire di uno degli infiniti universi, il «circuito» in cui
esso consiste è «perpetuo» sino a che esso stesso, invecchiando, perisce; se
tale processo è invece il divenire della Natura stessa, il «circuito» in cui
esso consiste è allora assolutamente «perpetuo», ed è «l’esistenza che mai non
è incominciata [e che] non avrà mai fine”[56].
Per Severino, il nulla non è l’umano,
categoria generale universale. Il nulla è circoscritto all’individuo, alla sua
singola e singolare vita, alla sua personale esistenza. Nel suo divenire, ogni
cosa è una fenomenologia permanente. Il tutto, nulla compreso, è Dio, la “«materia prima» aristotelica, che differisce
da tutte le determinazioni del mondo e che peraltro le costituisce e le
sorregge: la phýsis è l’«essere» … «che permane al di sotto». Sempre salva dal
niente, a differenza delle determinazioni del mondo, che vengono tutte prodotte
e distrutte”[57].
E alla fine Leopardi, nel sostenere
che tutto è nulla, in realtà intendeva che il nulla è nel tutto, nel divenire
perpetuo ed universale e, quindi, “Leopardi
non dice che la materia è divina, ma le attribuisce il tratto fondamentale del
divino – l’eternità”[58].
Un gioco oratorio insignificante per
dimostrare la validità e l’aderenza al proprio paradigma fideistico (anche se
non fondamentalista) pregiudiziale: il nulla non può esistere se esiste Dio. O,
se esiste il nulla, anche questo nulla è divino e risponde al disegno
universale di Dio, che prima era un fatto, ora si salva trasformandosi in un
processo. Assume una forma mutante in grado di raccogliere se stesso e il
contrario di sé. Appunto il tutto che ingloba il nulla e non il nulla che
inghiotte il tutto.
Il nulla è informe. Si disperde
lungo i giorni e le ore, attraverso le cose, con le persone che spariscono, con
la trasformazione delle azioni in ricordi, con la perdita della memoria, con
l’oblio di ciò che siamo stati e il muro d’impenetrabilità delle occasioni che
non sappiamo realizzare. In questo senso la nostra vita è un passaggio in
ombra. Non nel senso che non siamo i protagonisti di scena abbagliati dalle
luci della ribalta. Per quante forti e costanti siano le luci accese su ogni personale
vita, protagonista universale di se stessa, il nostro resta sempre e comunque
un “passaggio in ombra”[60], all’ombra
del non vissuto, del non vivente. La città di Fedora di Calvino è una “metropoli di pietra grigia”. L’ombra che
colora la città immaginaria è quella delle forme che avrebbe potuto prendere e
che non ha preso. L’ombra di una speranza perduta che si solidifica e si riduce
nella fissità museale dell’attimo, in una scultura o in una immagine, in una
teca o in un quadro, nell’universale del “senza
vita”; perché l’assoluto è sempre privo di vita, sempre una noiosa
ripetizione dell’uguale, sempre un rito di lamentazione e di sconfitta.
L’ombra in cui viviamo è quella del
nulla che non siamo stati capaci di evitare ed in cui sono depositate le nostre
ambizioni. C’è, però, anche un’ombra prodotta dall’attesa di ciò che non
saremo. La vita di ciascuno di noi resta comunque in ombra perché si perde
inevitabilmente nel nulla, in una morte che è insuperabilmente “perdizione e assenza del mondo”.
La «singolarità di Schwarzschild», nelle scienze umane e cioè nel “mondo della vita”[61], è
questa duplice dimensione di ciò che non siamo stati e di ciò che non potremo
mai essere. E dunque, quando cadremo nella «singolarità
di Schwarzschild», noi non andremo “via
di qua”[62] per raggiungere un
qualsiasi altrove. La nostra autenticità è in quello che stiamo facendo ora:
lasciare che resista il più possibile un’orma della nostra presenza nell’ombra
che frequentiamo in vita.
[1] LABATUT Benjamìn, Quando abbiamo smesso di capire il mondo,
Adelphi. Milano 2021, pag. 57
[2] LABATUT B., cit. 2021,
pag. 57
[3] WEATHERALL James Owen, La fisica del nulla, Le Scienze 2019
[4] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p. 15
[5] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p. 19
[6] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p.16
[7] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p.15
[8] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, pp. 15 - 16
[9] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p.14
[10] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p. 14
[11] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p.15
[12] WEATHERALL J. O.,
cit. Scienze 2019, p.15
[13] ABBAGNANO Nicola,
Dizionario di filosofia, voce Nulla, Utet, Torino 1971, pag.624.
[14] FRONTEROTTA F . (a cura
di), PLATONE, Sophista, 256 d, BUR,
Rizzoli, Milano.
[15] HEIDEGGER
Martin, Che cosa è la metafisica?, Adelphi, Milano 2001, pag. 27
[16] SARTRE Jean Paul, L’essere e il nulla, Il saggiatore,
Milano, p. 58
[17] SARTRE J.P., cit. p.59
[18] HARRÈ Rom, La singolarità del sé, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1999
[19] JUNG Carl Gustav, Coscienza, inconscio e individuazione, Bollati Boringhieri 1990.
[20] JUNG Carl Gustav, Gli archetipi dell’inconscio collettivo,
in Opere, vol.9/1, Boringhieri, 2008.
[21] JUNG Carl Gustav, Septem Sermones ad morto, Edizioni Arktos, 1989
[22] EHRENBERG Alain, La fatica di essere se stessi, Einaudi,
Torino 1999, p.8
[23] EHRENBERG A., cit. 1999,
p. 9
[24] EHRENBERG A., cit. 1999,
p. 11
[25] “L’individualismo democratico gode della singolarità di fondarsi su un
doppio ideale: essere una persona in sé e per sé – quindi un individuo – in un
gruppo umano che matura il sé il senso della propria esistenza – quindi una
società” . EHRENBERG A., cit. 1999, p. 11
[26] RIESMAN David, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna
2009
[27] RIESMAN D., cit. 2009, p.
29
[28] RIESMAN D., cit. 2009, p.
29
[29] RIESMAN D., cit. 2009, p.
30
[30] KUNDERA Milan, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano 1989
[31] GALIMBERTI Umberto, L’ospite inquietante, Feltrinelli,
Milano 2008, p. 13
[32] GALIMBERTI U., cit. 2008,
p. 23
[33] Borges J. Luis, LO
SPECCHIO, in STORIA DELLA NOTTE, in OPERE, vol.II, Mondadori, Milano 1985
[34] Carbone Mauro,
FILOSOFIA-SCHERMI, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016
[35] Morin Edgar, LE VIE DELLA
COMPLESSITA’, in Bocchi Gianluca e Ceruti Mauro (a cura di ), LA SFIDA DELLA
COMPLESSITA’, Feltrinelli, Milano 1985
[36] Morin E., cit. 1985
[37] Ceci Alessandro, DISCORSI
AD UN PUBBLICO ASSENTE, in DEL FUTURO ANTERIORE, Edizioni Horus, Terracina 1998
[38] Yoshimoto Banana,
LUCERTOLA, Feltrinelli, Milano 1993
[39] Ceci A., cit. 1998
[40] Ortega y Gasset José, LA
RIBELLIONE DELLE MASSE, in OPERE, Utet, Torino
[41] DAHRENDORF Ralf, Pensare
e fare politica, Laterza, Bari 1985, p.68
[42] DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.68
[43] DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.68
[44]DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.69
[45] DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.70
[46] DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.71
[47] DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.72
[48] DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.70
[49]DAHRENDORF R., cit. 1985,
p.68
[50] GIDDENS Anthony, Oltre la destra e la sinistra, Il
Mulino, Bologna 1997, p.20
[51] DI
LASCIA Maria Teresa, Passaggio in ombra,
Feltrinelli, Milano 1995
[52] KAVAFIS Kostantinos, Settantacinque
poesie, (a cura di) Nelo Risi e
Margherita Dalmati, Einaudi, Torino 1992: “Farla non puoi,
la vita, / come vorresti? Almeno questo tenta / quanto più puoi: non la svilire
troppo / nell’assiduo contatto della gente, / nell’assiduo gestire e nelle
ciance. / Non la svilire a furia di recarla / così sovente in giro, e con
l’esporla / alla dissennatezza quotidiana / di commerci e rapporti, / sin che
diventi una straniera uggiosa.”
[53] YOURCENAR Marguerite, Memorie di Adriano, Einaudi, Torino
2005
[55] SEVERINO Emanuele, Il nulla e la poesia, Rizzoli, Milano
1990, p. 31
[56] SEVERINO E., cit. 1990,
p. 33
[57] SEVERINO E., cit. 1990,
p. 33
[58] SEVERINO E., cit. 1990,
p. 34
[59]BORGES Jorge Luis, Rimorso
per qualsiasi morte, Libero dalla memoria
e dalla speranza / illimitato, astratto, quasi futuro, / il morto non è un
morto: è la morte. / Come il Dio dei mistici, / al Quale si devono rifiutare
tutti i predicati, / il morto ubiquamente estraneo / non è che la perdizione e
assenza del mondo. / Tutto gli abbiamo rubato, / non gli abbiamo lasciato né un
colore né una sillaba: / qui è il patio che non condividono più i suoi occhi, /
là il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza. / Perfino ciò che
pensiamo / potrebbe stare pensandolo anche lui; / ci siamo spartiti come due
ladroni / il capitale delle notti e dei
giorni”.
[60] DI LASCIA Maria Teresa, Passaggio in ombra, Feltrinelli, Milano
1995
[61] Husserl Edmund, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2015
[62] CURI Umberto, Via di qua. Imparare a morire, Bollati
Boringhieri, Torino 2011
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