3 - Epistemica del Nulla

 

Epistemica del nulla

Il problema epistemologico della singolarità

 

 

Alessandro Ceci

 

 

“la vita ha orrore della assoluta esattezza”

Thomas Mann



   Poco prima di morire, con il corpo putrefatto da vesciche ed ulcere provocate forse da una nube di  gas sparata contro l’esercito tedesco di cui era tenente, “con gli occhi iniettati di sangue[1], disteso su una barella, sotto piaghe e croste che, con il dolore, con il bruciore, nascondevano il pensiero, Karl Schwarzschild, il grande matematico e astronomo che risolse l’equazione della relatività generale di Einstein scoprendo matematicamente la singolarità planetaria in cui lo spazio e il tempo si accartocciano e le leggi della matematica e della fisica non contano più nulla, ciò che noi oggi volgarmente chiamiamo “buco nero”, si rivolse al giovane matematico Richard Courant, anche lui ferito in guerra, occasionalmente nello stesso ospedale militare, e chiese se la mostruosità della materia che inghiotte se stessa in un vuoto infinito potesse verificarsi anche nella mente e nella socialità umana, se una totale omologazione di menti o anche lo spazio psichico di un solo individuo potesse generare, in un momento improvviso e incalcolabile, una singolarità identica e altrettanto mostruosa. 

    Sembra che Courant, forse pietoso vendendolo in fin di vita, cercò di rassicurarlo.

   Tuttavia “Schwarzschild era inconsolabile. Farfugliava qualcosa circa un sole nero che si affacciava all’orizzonte e che, un giorno, avrebbe potuto ingoiare il mondo intero, lamentandosi che ormai non c’era niente da fare. Perché la singolarità non dava segnali d’allerta. Il punto di non ritorno – il limite oltre il quale non si poteva andare senza rimanere intrappolati – non era indicato in alcun modo. Chiunque l’avesse varcato non avrebbe avuto speranza, il suo destino sarebbe stato segnato, qualunque percorso l’avrebbe condotto dritto alla singolarità.[2]

     Schwarzschild intuiva che in fisica il nulla è un paradosso.

   Oggi ne abbiamo perfetta consapevolezza: esiste infatti una fisica del nulla[3], pur non esistendo il nulla. Si tratta di un paradosso valido anche sul piano della logica: il nulla è definibile come il luogo in cui non esiste alcun qualcosa, ma, nel denominarlo “nulla”, stabiliamo che sia esso stesso qualcosa. E che la negazione di qualsiasi cosa sia già un qualcosa, è già un bell’equivoco.

    Lo intuiva soltanto perché Schwarzschild era condizionato da un paradigma consolidato e allora indubitabile. L’esistenza del nulla in fisica aveva una sua copiosa e documentata letteratura. Infatti, l’idea che lo spazio vuoto sia “escluso dalle leggi della fisica[4] è un’acquisizione relativamente recente.

     Newton, ad esempio, “mirava a sviluppare una fisica delle cose: dagli oggetti di uso comune, come un tavolo o una sedia, ai pianeti e alle stelle. Prima, però, doveva dire come sarebbe stato il mondo se non ci fosse stato nulla. Doveva descrivere la struttura geometrica dello spazio vuoto[5]. Il vuoto o il nulla, che non è proprio la stessa cosa, era considerato eccome in tutta la lunga epoca del paradigma newtoniano fino al ‘900.   Soltanto con la fisica quantistica dei campi abbiamo avuto la consapevolezza che “il nulla, così come lo immaginiamo abitualmente, è impossibile[6].

     In realtà, fu propria Einstein, il grande innovatore della fisica moderna, a svelare, diversamente dal paradigma netwoniano, con le sue teorie della relatività generale e della relatività ristretta, che “lo spazio vuoto immaginato da Netwon è fisicamente impossibile[7]. Per la teoria della relatività e per la successiva teoria quantistica dei campi, “lo spazio vuoto non è semplicemente un palcoscenico su cui va in scena la fisica della materia, ma una entità dotata di una struttura propria, interessante e complessa quanto la struttura della materia stessa[8].

    La teoria einsteniana ci restituisce un concetto di nulla, per quanto paradossale, che supera qualsiasi rappresentazione geometrica. Si parte dalla constatazione che “qualsiasi cosa – una stella, un libro, una balenottera azzurra – alteri la geometria dello spazio e del tempo[9]. E conclude con il consentire “allo spazio e al tempo di incurvarsi anche in presenza di nulla, in qualsiasi punto o in qualsiasi istante[10]. E questo è possibile soltanto perché un vuoto quantistico conserva “alcune sue proprietà così sorprendenti da far sfumare ulteriormente una distinzione un tempo nettissima: quella tra il «qualcosa» e il «nulla»[11]. 

   Il vuoto, dunque, è pieno. E il significato di nulla passa dalla impossibilità hegeliana ad assorbimento. Un passaggio interpretativo che ci permette di sviluppare una innovazione fisica del nulla, in grado di mettere “a nudo la sostanza di queste teorie, il nucleo della loro struttura concettuale[12].  In questo modo è sciolto il paradosso: la fisica del nulla ci permette di conoscere qualcosa che non esiste (il nulla) che, proprio per la sua inesistenza, è qualcosa che dobbiamo conoscere.

      Schwarzschild morì.

      A noi resta, inalterato il suo interrogativo: esiste una singolarità, un vuoto assorbente, un buco nero, nella società e nella psiche degli esseri umani? Esiste, dentro e fuori di noi, il nulla?

 



La singolarità prima di noi (filosofia)

    Il nulla è l’altra faccia della «singolarità di Schwarzschild».

    Agli esordi della filosofia, in quel mix cognitivo in cui le discipline e le specializzazioni non si distinguono l’una dalle altre, i greci avevano risolto facilmente il problema del nulla: il nulla è il non essere. E in quanto a non essere, il nulla è indefinibile. Almeno per Parmenide. Basta però un banale gioco logico per permettere a Platone di giungere ad una definizione leggermente diversa: se l’essere è ciò che siamo, il nulla è ciò che non siamo, la nostra alterità. In questo modo, non si può più affermare che il nulla, pur essendo il non essente, non esista[13]. Se esistiamo noi, infatti, deve esistere la nostra alterità. Se esiste un’affermazione, deve esistere anche la sua negazione: “risulta che c’è un essere dal non-essere, così per il movimento come per tutti i generi, giacché in tutti i generi l’alterità, che rende ciascuno di essi altro da sé, fa un non–essere dell’essere di ciascuno: sicché correttamente diremo che tutte le cose non sono ed insieme sono e partecipano dell’essere[14].

      La modernità, tramite Hegel, introduce una terza concezione del nulla, oltre l’inesistenza ed oltre l’alterità. Il nulla diventa impossibilità; per dirla con Heidegger, che spiega Hegel, il nulla è “la negazione radicale della totalità dell’esistente[15]. Fino a Sartre che ci conduce direttamente nel problema posto da Schwarzschild e dalla sua singolarità: una singolarità che vale sia per l’individuo che per il soggetto, sia per il singolo che per la collettività, sia per la persona che per la società. Sartre lo fa introducendo il concetto di coscienza. Per Sartre il nulla dentro e intorno a noi, nella psiche e nella società, è la negazione di sé (dell’essere per sé). Per Sartre la coscienza è costituita da possibilità e per questo motivo è sempre protesa verso il nulla. Non verso il nulla che ci sarà, ma verso il nulla che c’è stato, verso le possibilità a cui abbiamo rinunciato, verso le cose che non abbiamo mai avuto perché non le abbiamo volute o perché non abbiamo saputo averle. In questo senso il nulla è la negazione della nostra coscienza in quanto negazione delle nostre possibilità. Pertanto, il nulla non è davanti a noi. Il nulla è dietro di noi, in ciò che avremmo voluto e non abbiamo avuto, in ciò che abbiamo rifiutato. “Il nulla non è, il nulla è stato annientato. Resta dunque che deve esistere un essere – che non potrebbe essere l’in sé – che ha per proprietà di annullare il nulla, di reggerlo col suo essere, di sostenerlo perpetuamente con la sua esistenza: un essere per il quale il nulla viene alle cose[16].

      Anzi, proprio perché il nulla è dietro di noi, nella vita che non abbiamo vissuto, possiamo dire che continuamente l’uomo rinuncia alle sue possibilità per far “apparire il nulla nel mondo”. Ogni nostra rinuncia è definitiva ed esistenziale, “si investe del non essere”; e lo fa “a questo scopo” (I,5), cioè proprio per scoprire il nulla nel mondo.

      E il ruolo della coscienza?

   La coscienza è lo strumento della nostra libertà di scegliere a quali possibilità rinunciare. La coscienza offre a ciascuno di noi la consapevolezza della negazione di essere, della scelta di non essere. E poiché non possiamo realizzare ogni chance di vita che abbiamo di fronte, la scelta di una per l’altra e, di più, la coscienza di questa scelta, segna inequivocabilmente la nostra parzialità, l’impossibilità di essere Dio, di avere tutto e il suo contrario sempre e contemporaneamente, la riduzione di ciò che siamo a come possiamo esistere; giacché ciò che siamo è soltanto come possiamo esistere.

     La nostra vita è così contraddittoria, oscillante, ambigua, proprio per il fatto che in ogni istante, ogni “possibilità resta sempre aperta”, ma che ha in se stessa la probabilità che la possibilità a cui abbiamo rinunciato “si riveli come un nulla”. Un nulla che ci isola alla sola esistenza, cioè alla possibilità che abbiamo coscientemente scelto per esistere e che si riduce a quella unica, esclusiva ed escludente vita. “Ma dal fatto stesso che si prospetti che un esistente possa sempre risolversi come nulla, ogni questione suppone che si realizzi un arretramento nientificatore, in rapporto al dato, e diviene una semplice prestazione, oscillante tra l’essere e il nulla.[17]

    In fin dei conti, la sostanza del discorso che ancora ci riguarda, anzi, di più ci riguarda in una logica quantistica, è tutta intera in questa possibilità che è l’uomo; non in quella che ha (sempre ridotta) ma in quella che è. In questo caso, soltanto in questo caso, soltanto cioè essendo la possibilità, il nulla dell’uomo si mostra nelle dimensioni della vita non avuta, nelle possibilità che non si sono realizzate sia perché non sono state scelte, sia perché non sono potute avvenire. Il nulla, ciò che non abbiamo avuto, segna la nostra identità, ci rinchiude nella limitazione nostra esistenza, ma è pur sempre una libertà, poiché “l’uomo non è affatto prima, per essere libero dopo, non c’è differenza fra l’essere uomo e il suo essere-libero”.

    Come se volesse raccogliere la domanda pre-mortem di Schwarzschild, Sartre sceglie la sintesi filosofica per rispondere congiuntamente a due aspetti che appaiono distinti: quello della psiche, il nulla dentro di noi, e quello della società, il nulla fuori di noi. Il nulla che ci resta filosoficamente è quello della nostra essenza, ogni volta che si realizza la nostra irreversibile esistenza.

 


La singolarità dentro di noi (psicologia)

     In nessun luogo, se non dentro di noi, la singolarità di Schwarzschild è uno squarcio. Si apre un vuoto chissà dove che assorbe tutto ciò che siamo, i nostri desideri, i nostri significati, la presenza degli altri e dei vincoli di appartenenza e di accoglienza. In nessun luogo, se non nella singolarità di Schwarzschild, siamo soli. Soli senza noi stessi. Ciò che credevamo di essere si accartoccia in una dimensione priva di meta livelli, senza spazio e senza tempo. La singolarità di Schwarzschild dentro di noi significa perdita totale e spesso definitiva di ogni posizionamento. Limina. Non abbiamo più un posto nel mondo e, dunque, ogni posto nel mondo è estraneo da noi. La vita non ha richiamo. La singolarità di Schwarzschild in noi, non è non-essere, come vorrebbe la filosofia, ma assenza dell’essere, mancanza di sé. Non si riconoscono le mani, non si riconoscono i corpi, si ignorano i problemi, anzi, i problemi si accartocciano talmente tanto su se stessi e sulla loro apparente impossibilità di risoluzione da trasformarsi in giustificazioni non plausibili dell’abbandono nel buco nero di ogni mancanza.

      Noi ci autorappresentiamo quotidianamente. Ogni nostro gesto, ogni comportamento, le parole con cui cerchiamo di riconoscerci negli altri, espressioni, gesti, emozioni, azioni e relazioni sono gli strumenti con cui costruiamo il nostro sé[18], l’espressione di ciò che crediamo di essere nel dominio della rappresentazione sociale. Ci autorappresentiamo istintivamente. Quando scivoliamo nella singolarità di Schwarzschild questa auto rappresentazione diventa un peso insostenibile da cui sfuggiamo o che rifiutiamo (che è il modo migliore per sfuggire). Restiamo li, nella liminalità, dove tutto è accartocciato, nella solitudine dell’assenza di sé, con la voglia di restare lì, senza uscire, senza uscirne, perché la permanenza nel dolore dell’assenza di sé è pur sempre un modo di sentirsi e di sopravvivere.

     La singolarità di Schwarzschild dentro di noi non è nemmeno un vuoto esistenziale. Non è nichilismo soltanto. È un modo per proteggersi in sospensione quando si crede di non poterne uscire perché tutto attorno a noi è accartocciato dalla mano invisibile del non essere.

     L’equivoco concettuale in cui Jung si è incastrato nel trattare il concetto di “ombra”, può essere considerato una singolarità di Schwarzschild? L’ombra, che si lega inscindibilmente al nostro passo ovunque noi siamo, per Jung, ha talvolta una connotazione psichica, quasi terapeutica, talvolta un connotato archetipico, ereditato, collettivo, un a-priori Kantiano che riemerge involontariamente in determinati momenti. In ogni caso, questa ombra legata a noi in un solo punto, tuttavia è sempre comunque una scissione, una frattura, una distinzione, comunque un vuoto in cui l’individuo può costantemente precipitare proprio perché ne rifiuta i caratteri e le sue conseguenze. Jung non specifica mai  quale delle due accezioni, quella terapeutica o quella culturale, interpreta l’ombra.

     Può essere considerata una singolarità?

     Questo rifiuto di sé che l’ombra comunque rappresenta, questo inconscio che non vuole e non riesce emergere, può essere una singolarità in cui ciascuno può finire?

     “La figura dell'Ombra personifica tutto ciò che il soggetto non riconosce e che pur tuttavia, in maniera diretta o indiretta, instancabilmente lo perseguita: per esempio tratti del carattere poco apprezzabili o altre tendenze incompatibili”[19].

      Come nella singolarità di Schwarzschild, anche nell’ombra di Jung tutto si accartoccia senza spazio né tempo: ciò che avremmo voluto essere e non siamo, l’altro e l’altrove, me e il diverso da me, ciò che ci sembra osceno e la morale collettiva, il mito e il rito, ciò che non viviamo e ciò che non vediamo. E, nella totalità, questa ombra è la singolarità in cui si mischiano indistinguibili il conscio e l’inconscio.

     La psicologia contemporanea ha interpretato questa ombra, letteralmente, come “alter ego”, l’altro oltre la vita vissuta, l’alterità sconosciuta, o meglio ignota, talvolta volutamente ignorata, che destabilizza l’individuo e la sua coscienza e che può essere interpretata in ambito terapeutio o in termini di ricomposizione dei sogni, di ricostruzione del proprio onirico. Non per Jung, però. Per Jung noi dobbiamo passare dentro la singolarità, dentro l’ombra. È in questo luogo in cui tutto si scompone e si sovrappone. Passando dentro questa singolarità psichica ciascuno ha la propria enorme possibilità di incontrare se stessi:  L'incontro con sé stessi è una delle esperienze più sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante. Chi è in condizione di vedere la propria Ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito[20]. Se fossimo in una singolarità quantistica, senza meta livelli di riferimento, il nostro problema principale sarebbe quello del posizionamento. Jung ripete istintivamente lo schema che ignorava e, considerando l’ombra una singolarità, pone il problema di risoluzione fondamentale nella individuazione, che consiste in un cluster, cioè nell’integrazione delle parti scisse della nostra psiche. Nell’ombra non si distinguono i confini e nemmeno le forme, non si distinguono le cose. Per Jung è la coscienza che distingue le cose uno dalle altre, è la coscienza che divide gli opposti, il positivo dal negativo, il giusto dall’ingiusto, il buono dal cattivo. Nell’ombra non c’è coscienza in grado di distinguere, è una singolarità senza opposti “...Ciò che il Dio sole dice è vita. Ciò che il demonio dice è morte. Ma Abraxas pronuncia la parola santificata e maledetta che è vita e morte insieme...”[21] 

      Per Alain Ehrenberg, invece, la singolarità in cui viviamo è il prodotto dello uno status tipico della modernità, successiva alla modernizzazione degli anni ’60, il momento in cui l’uomo è rimasto davvero solo con se stesso. “È proprio il sisma dell’emancipazione ad aver sconvolto, a livello collettivo, l’intomità di ciascuno di noi: la modernità democratica – e questa è la sua grandezza – ha fatto progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posti a poco a poco nella condizione di dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento[22].  La modernizzazione avrebbe individualizzato la persona che “non è più mossa da un ordine esterno (o da una conformità alla legge), ma occorre che faccia appello a risorse interne, a competenze mentali proprie [23]. Questa transizione avrebbe destabilizzato e in qualche modo delegittimato le “istituzioni del sé”, lasciando la persona sola e singolare sotto il peso enorme della propria responsabilità.  La singolarità di Schwarzschild, inizierebbe qui, dalla incapacità di reggere questo peso, e ha un nome preciso. Si chiama depressione: che “esprime l’impossibilità stessa del vivere, è lo fa con il linguaggio della tristezza, dell’astenia (la fatica), dell’inibizione e di quella particolare difficoltà a dare il via all’azione che gli psichiatri chiamano «rallentamento psicomotorio». Il depresso, incalzato da un tempo senza futuro, appare irrimediabilmente privo di energia, risucchiato dalla logica del «niente è possibile». Spossati e svuotati, agitati e violenti, in una parola, malati di nervi, scontiamo dentro i nostri stessi corpi il peso della sovranità individuale”. [24] La singolarità di Schwarzschild dentro di noi è perfettamente descritta. Non è detto però che sia corrispondente. Sostenere, nell’ottica di un liberalismo ripristinato[25], che le persone della modernità sono libere dal conformismo della legge e soli sotto la loro individuale responsabilità. Il conformismo a cui soggiace l’uomo della modernità è molto più omologante della legge. Denunciato in epoca non sospetta da David Reisman[26] (1950), decisamente sottovalutato dalle scienze sociali europee, il conformismo dell’uomo moderno è prodotto e indotto dall’eterodirezione, dalla direzione dall’esterno, dalla mano invisibile del gruppo dei pari. “Ciò che è comune a tutte le persone eterodirette è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l’individuo, quelli che conosce o quelli con cui ha relazione indirette attraverso gli amici e i mezzi di comunicazione di massa. Questa fonte è naturalmente «interiorizzata» nel senso che la dipendenza da essa come guida nella vita è radicata nel fanciullo molto presto.[27] Dunque, l’individuo non si trova sotto il peso della responsabilità del proprio sé, ma si accomoda nella deresponsabilizzazione di sé condotta dalla omologazione dei comportamenti e dei pensieri dei contemporanei. Un metodo, quello della direzione dall’esterno, che non cambia anche quando dovessero, con una certa elasticità eccessivamente tollerante, cambiare i contenuti: “I fini verso i quali tende la persona eterodiretta si spostano con lo spostarsi della guida: è solo il processo di tendere a una meta e il processo di fare stretta attenzione ai segnali degli altri che rimangono inalterati per tutta la vita.”[28] E alla fine ciò che conta non è essere, ma appartenere, restare interconnessi nel dominio relazionale che ci eterodirige, essere omologati per essere riconosciuti, trasformando la responsabilità di sé in una irresponsabilità senza sé, rappresentata dalla anonima, indifferente, irriconoscibile, strumentale produzione di “like”. Un’adesione senza riconoscimento che tollera ogni rappresentazione per favorire l’omologazione.  “Questo modo di tenersi in contatto con gli altri, permette una stretta conformità di comportamento, non attraverso l’esercizio di un dato comportamento, come nel carattere a direzione tradizionalistica, ma piuttosto attraverso una eccezionale sensibilità per le azioni e i desideri degli altri[29].

        Il vincolo che lega ciascuno di noi al suo gruppo di pari è molto più stringente di qualsiasi legge. Un vincolo che deresponsabilizza molto più di qualsiasi legge. Anzi, in questa condizione di massificazione omologata, mediaticamente illusoria della propria unicità, trovo molto più attinente l’ipotesi di una diffusione globale della “insostenibile leggerezza dell’essere[30].

        In ogni caso, qualsiasi sia la motivazione della genesi, la depressione resta una delle forme più evidenti della singolarità di Schwarzschild dentro di noi.

         L’altra espressione della singolarità di Schwarzschild dentro di noi, l’ultima in termini di tempo, non si riferisce alla modificazione del legame con gli altri o con sé, ma all’assenza di legame. Si tratta di un disagio che fonda sul nulla, sulla “atmosfera nichilista”, come dice Galimberti, che avvolge principalmente i giovani di oggi i quali  non si interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha sempre fatto, ma […] sul significato stesso della loro esistenza, che non appare loro priva di senso perché costellata di sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso[31]. E, proprio per questo dunque la natura della singolarità di Schwarzschild dentro di noi, “non è esistenziale, ma culturale”; in un’epoca in cui “conosciamo solo anime individuali, rese asfittiche dall’incapacità di correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo[32].

        Ho molta titubanza ad affibbiare singolarità di Schwarzschild soltanto ai giovani. Concordo con Galimberti, invece, che questa singolarità dentro di noi non è riconducibile al dolore di questa epoca, questo nostro dolore, Credo che gli uomini contemporanei abbiano, in qualche modo perso, la loro storicità. Viviamo nel vuoto, freddo, indifferente riflesso degli specchi, una illusione che ci trasmettiamo senza eccessivo clamore. Una illusione di protagonismo che nasconde una realtà di solitudine, appunto, come quando ci guardiamo in uno specchio, quando crediamo che gli altri ci vedano così come ci riflettiamo, quando in realtà siamo soli, ciascuno di noi è solo, e crede di essere la proiezione di sé, il riflesso fulmineo nello specchio dell’eterno presente. Ogni generazione si proietta nella cronaca. La nostra non riesce a trasformarsi in storia, non sa proiettarsi oltre se stessi, al di là del gruppo contemporaneo dei pari. E questa solitudine rende tutto insignificante.

         Temo adesso che lo specchio nasconda / Il vero volto dell’anima mia, / Oltraggiata da ombre e da colpe[33], scrive Borges. La nostra filosofia ha occultato lo specchio per evitare il riflesso della proiezione. Anzi, si potrebbe affermare, come dice Mauro Carbone, che la nostra filosofia “si è tradizionalmente identificata – che ha trovato la sua identità – nella lotta contro gli schermi, assimilandoli alla illusione, all’inganno, all’ostacolo che impedisce di contemplare la verità[34], come le ombre che si proiettano sul muro nella caverna di Platone. Solo che il muro della caverna riflette le ombre. Oggi siamo noi le ombre riflesse dal muro della caverna mediatica. Siamo noi il riflesso degli schermi, dei video, delle immagini che ci vengono quotidianamente trasmessi.

          Il nulla della singolarità di Schwarzschild è dentro di noi, come riflesso indifferente della nostra insignificanza. E non ci accorgiamo che quel riflesso ci fulmina nell’assenza di noi stessi. Qualsiasi cosa guardiamo in uno schermo, sappiamo che in quello schermo si proietta la nostra vita, che la vittima siamo noi, che il carnefice potremmo facilmente essere noi, con indifferenza, dentro ogni assenza perché quello schermo è uno specchio.

         Ora il punto è: siamo ancora convinti che singolarità di Schwarzschild, cioè le cause della distruttività, aggressiva o regressiva, così come le ha indicate la letteratura scientifica, siano riconducibili alla triforcazione pulsionale, culturale e sociale di Freud, di Fromm e di Schumpeter? O è più vero, come sono incline a credere, che la singolarità di Schwarzschild nel mondo contemporaneo, che induce a multiformi comportamenti distruttivi non derivi piuttosto da un solitudine quantistica; un silenzio cioè che, in ogni suo momento e in ogni sua espressione comportamentale, rappresenti l’insignificanza, l’assenza totale della complessità delle infinite motivazioni, ignoranza accomodante e giustificatoria di cause e motivazioni banali, occasionali, utili a tollerare con insopportabile leggerezza la propria condizione contemporaneamente locale, globale, glocale, essenziale ed esistenziale, individuale e collettiva, emozionale e culturale? Che non si tratti piuttosto di un silenzio discontinuo e minimale, non percepibile dagli strumenti di individuazione classici perché attribuibile a momenti discreti, misurati, indeterminati e complementari; una vacuità collettiva e pure di ciascun individuo, le cui proprietà pertanto non è possibile definire univocamente perché dipende dai tipi di interazione che la generano. Una vacuità ologrammatica, cioè, come scrisse una volta Edgar Morin, che “è un’immagine fisica le cui qualità … dipendono dal fatto che ogni suo punto contiene quasi tutta l’informazione dell’insieme che l’immagine rappresenta[35], un silenzio da posizionamento di cui “possiamo dire non soltanto che la parte è nel tutto, ma anche che il tutto è nella parte[36]? 

        Nel mio libro, mai pubblicato eppure profetico nel titolo, “Discorsi ad un pubblico assente”, osai per la prima volta le mie eterne ripetizioni: “La forma. Talvolta deforma. Talvolta trasforma: come in qualche brano di musica rock, per chi è abituato ad ascoltarne, come in Lizard, la lucertola che cambia pelle ma non natura[37]. Sulla lucertola scoprii più tardi, nel 1993, una raccolta di racconti scritti da Banana Yoshimoto[38]. Sia per i brani musicali che per i racconti “la trama non soltanto un tracciato, è anche una forma, una forma che pian piano si scompone, perde la sua raffigurazione, si decompone, lascia note sole, in libertà, squillanti e confuse, che si confondono, perdute in un ambiente spesso indistinto  di suoni e sensazioni[39]. 

        Lo specchio, invece, ci riflette e noi siamo, anche noi siamo, la solitudine di ogni generazione. Ortega y Gasset sosteneva che ogni nostra epoca porta con sé la sua norma e la sua enormità, il suo decalogo e la sua falsificazione[40]. Alla fine, la singolarità di Schwarzschild dentro di noi è l’alterazione che trasforma la norma in enormità e il decalogo in falsificazione.


La singolarità fuori di noi (scienze sociali)

        Abbiamo anche un’altra forma della «singolarità di Schwarzschild».

      Il tema è stato intuito, molti anni fa, da Ralf Dahrendorf. In un testo pubblicato per le edizioni Laterza nel 1985, Dahrendorf individua la «singolarità di Schwarzschild» nella “disintegrazione del contratto sociale e quindi soprattutto negli antichi legami che tenevano insieme gli uomini[41]. In vari ambiti e per diverse motivazioni:

  • perché “la società ufficiale continua a girare intorno al lavoro, a considerare la vita come determinata dalla professione[42];
  • perché “la tecnologizzazione porta, fra l’altro, ad un’estrema qualificazione del lavoro. Questo fatto però, non solo riduce i posti di lavoro disponibili, ma soprattutto fa sì che a restare per la strada siano coloro che sono privi di una qualificazione superiore per mancanza di occasioni o anche di talento[43];
  • perché “ le società moderne hanno prima di tutto ampliato enormemente quel periodo di vita che noi chiamiamo «gioventù»[44];
  • perché “oggi immigrati, profughi, lavoratori stranieri e gruppi assimilabili vivono in uno spazio sociale intermedio, non garantito, con esigenze che non vengono soddisfatte, peso indesiderato ed ineliminabile per gli altri, i quali non sanno più esattamente cosa significhi stare a casa propria, senza addossare ai sopraggiunti tutta quella paura indeterminata[45];
  • perché la scuola “si è trasformata in una scuola residuale” e “la scolarità segna dunque la cesura fra coloro che hanno almeno un piede sulla scala mobile e quelli per i quali anche il gradino più basso è irraggiungibile[46];
  • perché infine “nel concreto destino del singolo c’è una specie di isolamento, di particolare” e quindi “per tirarsi fuori dalla sottoclasse, quando lo si voglia, non si richiede un comportamento collettivo, ma uno sforzo individuale[47].

         

      Per tutte queste motivazioni, ed altre che “hanno fatalmente la tendenza a sovrapporsi[48], “chi oggi cade, non cade nelle braccia della famiglia, nelle mani soccorritrici della sua comunità, della sua chiesa, ma scivola attraverso tutti loro nel vuoto[49].

       La prima delle 6 variabili proposte da Anthony Giddens per una politica radicale ricostruita per corrispondere alle nuove esigenze della società della comunicazione riguarda la “ritessitura della solidarietà spezzate” che implica “la conservazione selettiva, o forse anche la reinvenzione, della tradizione”. Una ritessitura che dovrebbe essere applicata “a tutte le relazioni attivate dalle azioni degli individui, qualunque ne sia il livello: non solo a quelle che legano il singolo a gruppi o allo stato, ma anche a quelle che coinvolgono sistemi  di dimensioni globali[50].

         Siamo in piena logica dei network.

      La “ritessitura” riguarda naturalmente le connessioni, la rete di protezione degli individui che rischiano di cadere in un vuoto culturale e politico da cui non si può più riemergere. Evidentemente Giddens ha piena consapevolezza della presenza di una singolarità sociale che inghiotte i bisogni dei cittadini e, spesso, la loro stessa fisicità. Ritessere significa recuperare e restituire la protezione tradizionale dei cittadini, in istituti governamentali (la casa, la famiglia, la scuola, gli ospedali, il sindacato, il partito…) che, non essendo più in grado (o per incapacità o per esclusione) di gestire la governance, cadono in obsolescenza e lasciano ciascuno di noi solo con se stesso, spesso contro se stesso, più frequentemente senza se stesso. Questo vuoto politico, di cui l’Italia ha fatto ampia esperienza e che ha permesso la nascita e la proliferazione delle organizzazioni criminali, è la singolarità più forte che abbiamo nei network sociali moderni; a maggior ragione in un’epoca di mutazione generale dei nostri tempi.

        Questa è la «singolarità di Schwarzschild» nelle relazioni sociali: un vuoto relazionale e cognitivo che ci vive affianco in ogni momento e che assume talvolta le forme dell’alcolismo, della droga, della ludopatia e comunque di ogni dipendenza che è l’espressione assoluta della totale insignificanza. Un vuoto che ci assorbe e che, per essere evitato, non è necessario ambire a passare dalla cronaca alla storia, magari con l’infantile eroismo di una pretenziosa immortalità. Si può pure passare in ombra[51]. Per evitare la «singolarità di Schwarzschild», il vuoto delle relazioni individuali e collettive, il buco nero della nostra esistenza, è indispensabile fruire della propria vita senza consumarla, senza “disperderla in ciance ed inutili commerci con la gente”, senza svilirla “a furia di recarla / così sovente in giro,senza esporla  “alla dissennatezza quotidiana / di commerci e rapporti, / affinché divenga per te una nemica uggiosa[52].

         Per evitare la «singolarità di Schwarzschild», dunque, non abbiamo bisogno di anelar privilegi, di rincorrere “la diuturna fatica dell’ambizione personale[53]. Abbiamo bisogno di riformare e, talvolta, di riformulare istituti e istituzioni per incrementare l’offerta di possibilità di autorealizzazione; giacché in questo consiste la democrazia oggi: offrire ai cittadini, sia come soggetti che come individui, le maggiori e migliori chances di vita possibili. Estendere le possibilità dei cittadini per una vita fruita, questa è una prospettiva democratica, politica e sociale all’altezza dei tempi. E il modo migliore per annullare il vuoto sociale e psichico, relazionale e cognitivo che ci attanaglia.

         Occorre una funzione politica indispensabile.

         Ho più volte indicato[54] che, per evitare il vuoto sociale e psichico, la politica deve rimodulare i 3 fattori che determinano la morfologia dei network moderni: i soldi (il fattore fiscale), gli uomini (il fattore elettorale) e le idee (il fattore culturale – comunicativo/educativo).

         Lo ripeto qui.

 

 

La singolarità oltre noi (scienze umane)

         La forma del nulla.

         Esiste una forma del nulla?

        Nelle “Città Invisibili” di Italo Calvino, la città di Fedora, “metropoli di pietra grigia”, contiene “le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo”: “In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro”. Queste sono le forme del nulla nel network delle relazioni sociali: ciò che avremmo potuto ottenere e non abbiamo ottenuto, ciò che avremmo potuto realizzare e non abbiamo realizzato, ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Ciò che non abbiamo ottenuto, ciò che non abbiamo realizzato, ciò che non è stato, che avrebbe potuto esistere e semplicemente non è esistito.      Questo è il nulla.

         Il nulla è fuori e dentro di noi.

       Il deludente Emanuele Severino, utilizza un artificio logico e l’immagine di Giacomo Leopardi, per riaffermare la logica parmenidea secondo cui il nulla, di fatto, non esiste.

         L’argomentazione è semplice.

         Il primo passo chiarisce subito che esiste un circolo infinito di cose: “l’«esistenza» che non è mai incominciata e non avrà mai fine è divenire infinito della natura, la «natura ognor verde». A differenza degli universi che, nonostante il loro ringiovanire a primavera «continuamente invecchiano» fino a perire, la natura è sempre verde, non c’è mai per essa un’ultima primavera. La «natura» è il circolo infinito dei circoli finiti in cui ogni universo o mondo consiste[55].

        Nel secondo passo sostiene  che il nulla è il relativo personale, il tutto è l’assoluto universale: “Se questo processo è il divenire di uno degli infiniti universi, il «circuito» in cui esso consiste è «perpetuo» sino a che esso stesso, invecchiando, perisce; se tale processo è invece il divenire della Natura stessa, il «circuito» in cui esso consiste è allora assolutamente «perpetuo», ed è «l’esistenza che mai non è incominciata [e che] non avrà mai fine[56].

    Per Severino, il nulla non è l’umano, categoria generale universale. Il nulla è circoscritto all’individuo, alla sua singola e singolare vita, alla sua personale esistenza. Nel suo divenire, ogni cosa è una fenomenologia permanente. Il tutto, nulla compreso, è Dio, la “«materia prima» aristotelica, che differisce da tutte le determinazioni del mondo e che peraltro le costituisce e le sorregge: la phýsis è l’«essere» … «che permane al di sotto». Sempre salva dal niente, a differenza delle determinazioni del mondo, che vengono tutte prodotte e distrutte[57].

       E alla fine Leopardi, nel sostenere che tutto è nulla, in realtà intendeva che il nulla è nel tutto, nel divenire perpetuo ed universale e, quindi, “Leopardi non dice che la materia è divina, ma le attribuisce il tratto fondamentale del divino – l’eternità[58].

     Un gioco oratorio insignificante per dimostrare la validità e l’aderenza al proprio paradigma fideistico (anche se non fondamentalista) pregiudiziale: il nulla non può esistere se esiste Dio. O, se esiste il nulla, anche questo nulla è divino e risponde al disegno universale di Dio, che prima era un fatto, ora si salva trasformandosi in un processo. Assume una forma mutante in grado di raccogliere se stesso e il contrario di sé. Appunto il tutto che ingloba il nulla e non il nulla che inghiotte il tutto.

        Poi però la gente muore, noi moriamo e la nostra esistenza si trasforma in nulla; come diceva Borges, che il morto non è un morto, ubiquamente estraneo, ma la morte[59]. Perché c’è un umano, anche in qualità di categoria generale universale, che è sprofondato nel nulla. Un umano di cui, nella maggior parte non abbiamo memoria. Inesistente. E che il suo divenire sia un permanente presente, non significa che non sia stato assorbito dal nulla, come l’universo che resiste nonostante che sia risucchiato, in parte, dai buchi neri. L’esistente vale solo per chi vive, quando vive. L’assenza del nulla è sostenuta solo da chi cerca l’essenza del tutto; ma l’esistenza, individuale e collettiva, statica o in divenire, globale o locale, sprofonda inevitabilmente nel nulla.

         Il nulla è informe. Si disperde lungo i giorni e le ore, attraverso le cose, con le persone che spariscono, con la trasformazione delle azioni in ricordi, con la perdita della memoria, con l’oblio di ciò che siamo stati e il muro d’impenetrabilità delle occasioni che non sappiamo realizzare. In questo senso la nostra vita è un passaggio in ombra. Non nel senso che non siamo i protagonisti di scena abbagliati dalle luci della ribalta. Per quante forti e costanti siano le luci accese su ogni personale vita, protagonista universale di se stessa, il nostro resta sempre e comunque un “passaggio in ombra[60], all’ombra del non vissuto, del non vivente. La città di Fedora di Calvino è una “metropoli di pietra grigia”. L’ombra che colora la città immaginaria è quella delle forme che avrebbe potuto prendere e che non ha preso. L’ombra di una speranza perduta che si solidifica e si riduce nella fissità museale dell’attimo, in una scultura o in una immagine, in una teca o in un quadro, nell’universale del “senza vita”; perché l’assoluto è sempre privo di vita, sempre una noiosa ripetizione dell’uguale, sempre un rito di lamentazione e di sconfitta.

           L’ombra in cui viviamo è quella del nulla che non siamo stati capaci di evitare ed in cui sono depositate le nostre ambizioni. C’è, però, anche un’ombra prodotta dall’attesa di ciò che non saremo. La vita di ciascuno di noi resta comunque in ombra perché si perde inevitabilmente nel nulla, in una morte che è insuperabilmente “perdizione e assenza del mondo”.

          La «singolarità di Schwarzschild», nelle scienze umane e cioè nel “mondo della vita[61], è questa duplice dimensione di ciò che non siamo stati e di ciò che non potremo mai essere. E dunque, quando cadremo nella «singolarità di Schwarzschild», noi non andremo “via di qua[62] per raggiungere un qualsiasi altrove. La nostra autenticità è in quello che stiamo facendo ora: lasciare che resista il più possibile un’orma della nostra presenza nell’ombra che frequentiamo in vita.

 



[1] LABATUT Benjamìn, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi. Milano 2021, pag. 57

[2] LABATUT B., cit. 2021, pag. 57

[3] WEATHERALL James Owen, La fisica del nulla, Le Scienze 2019

[4] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p. 15

[5] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p. 19

[6] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p.16

[7] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p.15

[8] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, pp. 15 - 16

[9] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p.14

[10] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p. 14

[11] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p.15

[12] WEATHERALL J. O., cit.  Scienze 2019, p.15

[13] ABBAGNANO Nicola, Dizionario di filosofia, voce Nulla, Utet, Torino 1971, pag.624.

[14] FRONTEROTTA F . (a cura di), PLATONE, Sophista, 256 d, BUR, Rizzoli, Milano.

[15] HEIDEGGER Martin, Che cosa è la metafisica?, Adelphi, Milano 2001, pag. 27

 

[16] SARTRE Jean Paul, L’essere e il nulla, Il saggiatore, Milano, p. 58

[17] SARTRE J.P., cit. p.59

[18] HARRÈ Rom, La singolarità del sé, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999

[19] JUNG Carl Gustav, Coscienza, inconscio e individuazione, Bollati Boringhieri 1990.

[20] JUNG Carl Gustav, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Opere, vol.9/1, Boringhieri, 2008.

[21] JUNG Carl Gustav, Septem Sermones ad morto, Edizioni Arktos, 1989

[22] EHRENBERG Alain, La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 1999, p.8

[23] EHRENBERG A., cit. 1999, p. 9

[24] EHRENBERG A., cit. 1999, p. 11

[25]L’individualismo democratico gode della singolarità di fondarsi su un doppio ideale: essere una persona in sé e per sé – quindi un individuo – in un gruppo umano che matura il sé il senso della propria esistenza – quindi una società” . EHRENBERG A., cit. 1999, p. 11

[26] RIESMAN David, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 2009

[27] RIESMAN D., cit. 2009, p. 29

[28] RIESMAN D., cit. 2009, p. 29

[29] RIESMAN D., cit. 2009, p. 30

[30] KUNDERA Milan, L’insostenibile leggerezza dell’essere,  Adelphi, Milano 1989

[31] GALIMBERTI Umberto, L’ospite inquietante, Feltrinelli, Milano 2008, p. 13

[32] GALIMBERTI U., cit. 2008, p. 23

[33] Borges J. Luis, LO SPECCHIO, in STORIA DELLA NOTTE, in OPERE, vol.II, Mondadori, Milano 1985

[34] Carbone Mauro, FILOSOFIA-SCHERMI, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016

[35] Morin Edgar, LE VIE DELLA COMPLESSITA’, in Bocchi Gianluca e Ceruti Mauro (a cura di ), LA SFIDA DELLA COMPLESSITA’, Feltrinelli, Milano 1985

[36] Morin E., cit. 1985

[37] Ceci Alessandro, DISCORSI AD UN PUBBLICO ASSENTE, in DEL FUTURO ANTERIORE, Edizioni Horus, Terracina 1998

[38] Yoshimoto Banana, LUCERTOLA, Feltrinelli, Milano 1993

[39] Ceci A., cit. 1998

[40] Ortega y Gasset José, LA RIBELLIONE DELLE MASSE, in OPERE, Utet, Torino

[41] DAHRENDORF Ralf, Pensare e fare politica, Laterza, Bari 1985, p.68

[42] DAHRENDORF R., cit. 1985, p.68

[43] DAHRENDORF R., cit. 1985, p.68

[44]DAHRENDORF R., cit. 1985, p.69

[45] DAHRENDORF R., cit. 1985, p.70

[46] DAHRENDORF R., cit. 1985, p.71

[47] DAHRENDORF R., cit. 1985, p.72

[48] DAHRENDORF R., cit. 1985, p.70

[49]DAHRENDORF R., cit. 1985, p.68

[50] GIDDENS Anthony, Oltre la destra e la sinistra, Il Mulino, Bologna 1997, p.20

[51] DI LASCIA Maria Teresa, Passaggio in ombra, Feltrinelli, Milano 1995

[52] KAVAFIS Kostantinos,  Settantacinque poesie, (a cura di) Nelo Risi e Margherita Dalmati, Einaudi, Torino 1992:  Farla non puoi, la vita, / come vorresti? Almeno questo tenta / quanto più puoi: non la svilire troppo / nell’assiduo contatto della gente, / nell’assiduo gestire e nelle ciance. / Non la svilire a furia di recarla / così sovente in giro, e con l’esporla / alla dissennatezza quotidiana / di commerci e rapporti, / sin che diventi una straniera uggiosa.”

[53] YOURCENAR  Marguerite, Memorie di Adriano, Einaudi, Torino  2005

[55] SEVERINO Emanuele, Il nulla e la poesia, Rizzoli, Milano 1990, p. 31

[56] SEVERINO E., cit. 1990, p. 33

[57] SEVERINO E., cit. 1990, p. 33

[58] SEVERINO E., cit. 1990, p. 34

[59]BORGES Jorge Luis, Rimorso per qualsiasi morte, Libero dalla memoria e dalla speranza / illimitato, astratto, quasi futuro, / il morto non è un morto: è la morte. / Come il Dio dei mistici, / al Quale si devono rifiutare tutti i predicati, / il morto ubiquamente estraneo / non è che la perdizione e assenza del mondo. / Tutto gli abbiamo rubato, / non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba: / qui è il patio che non condividono più i suoi occhi, / là il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza. / Perfino ciò che pensiamo / potrebbe stare pensandolo anche lui; / ci siamo spartiti come due ladroni  / il capitale delle notti e dei giorni”.

[60] DI LASCIA Maria Teresa, Passaggio in ombra, Feltrinelli, Milano 1995

[61] Husserl Edmund, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano  2015

[62] CURI Umberto, Via di qua. Imparare a morire, Bollati Boringhieri, Torino 2011

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