SU JUNG


La pietra che sono io sulla pietra

L’orma e l’ombra di Carl Gustav Jung
Rende 2019

Premessa

Carl Gustav Jung si sentiva una pietra. Non una pietra qualsiasi, ma proprio quella pietra del suo giardino particolarmente grande da sembrare un masso. Era una pietra sporgente, su cui ci si poteva sedere, per affrontare comodi se stessi. Racconta che dopo essersi accomodati sul sasso “cominciava allora un gioco fantastico pressappoco di questo genere: “sono io quello che è seduto sulla pietra o io sono la pietra sulla quale egli siede?

Che cosa significa per Carl Gustav Jung sentirsi una pietra?

Il suo amico, maestro e nemico Sigmund Freud aveva indagato la psiche con la logica. Lui invece sapeva, inizialmente soltanto intuiva, che c’erano elementi irrazionali nei pensieri reconditi e nelle immagini ricorrenti ed emergenti all’improvviso. 

Quella pietra, così fredda e scomodo, forse inopportuna, sarebbe diventata, nello sviluppo del suo pensiero scientifico, un presupposto archetipico: quella pietra era l’icona di “immagini originarie” che portiamo nella bisaccia delle relazioni collettive, negli archetipi. Gli archetipi possono essere considerati come contenuti inconsci collettivi che generano e razionalizzano rappresentazioni.

È sbagliato considerarlo innato. È sbagliato considerarlo acquisito, Jung non lo poteva sapere, ma la nostra ipotesi, in sintonia con la moderna interpretazione epigenetica, è che gli archetipi e le sue immagini originarie siano trasmissibili, celate negli habitat eu-sociali in cui l’umano evolve, trasportate e assorbite di generazione in generazione tramite la tipicità dei comportamenti abitudinari e quotidiani, tramite narrazioni e insegnamenti, tramite la tradizione e le innovazioni, tramite il linguaggio, tramite la cultura. Jung lo intuiva però e, affermava: “ Non nutrivo dubbi che la pietra fosse in qualche oscuro rapporto con me e potevo starci seduto per ore affascinato dal suo enigma.
In ogni caso quel masso, su cui forse era usuale fin dalle antiche epoche sedersi e che si era ancorato in modo ancestrale da sempre nell’inconscio collettivo, aveva definitivamente assunto il ruolo del simbolo mitologico: “La pietra non ha incertezze, non ha bisogno di esprimersi ed è eterna, vive per millenni, pensavo, mentre io sono solo un fenomeno passeggero che si consuma in emozioni di ogni genere come una fiamma che divampa rapidamente e poi si spegne. Io ero solo la somma delle mie emozioni e qualcosa d’altro, in me, era la pietra senza tempo”.


E come in un gioco dell’archetipo nell’archetipo, dell’innovazione nell’innovazione, della interpretazione nella interpretazione, della intelligenza individuale contenuta nella coscienza collettiva, oltre il tempo e lo spazio, Jung già anticipa, con la descrizione della sua personalità e delle sue emozioni, esprime con estrema precisione il suo pensiero scientifico. Pensando a se stesso e alle sue meditazioni infantili, Jung snoda i contenuti fondamentali del suo pensiero. La pietra è il simbolo enorme dell’assoluta indissolubilità delle cose. Fantasie infantili compongono immagini tratte da una incomprensibile profondità. Non sono immaginazioni. Sono piuttosto visioni mescolate con la cognizione culturale dei secoli, spiegate da raffigurazioni archeologiche e naturalistiche, che tanto più si trasmettono, altrettanto si spiegano e si strutturano.

Da quel masso conviene iniziare.


1 - La biografia
Kesswil è un piccolo paese che il 26 luglio 1875, quando nacque Jung da un pastore protestante e teologo (Paul Achilles Jung, 1842-1896) e da una casalinga e timorata di Dio (Emilie Preiswerk 1848 - 1922), era veramente un rifugio di poche anime. Lo psichiatra, lo psicoanalista, l’antropologo, fors’anche filosofo, comunque accademico svizzero, affermava di avere “un miglior rapporto con mio padre, un uomo prevedibile …”. Non solo perché quel padre “era un curato di campagna” divenuto rettore della pieve e cappellano del manicomio della città di Sciaffusa in Basilea; ma anche perché era “molto tollerante e comprensivo”.

Il rapporto preferenziale con il padre offusca quello con la madre, di cui si sa veramente poco. Sembra che fosse una donna difficile, con un carattere talvolta arcigno, talvolta affettuoso; probabilmente con una doppia personalità. Alternava stati di estrema sensibilità ad affermazioni di banalità disarmante e piena di luoghi comuni. Oggi, che conosciamo il problema dei ritirati sociali, nella doppia versione dei NEET o degli Hikikomori, possiamo ben comprendere la evoluzione psicopedagogica di un bambino solo e solitario, figlio unico fino a nove anni (quando nacque improvvisamente la sorellina Johanna Gertrud), chiuso, concentrato nei suoi giochi e nei suoi pensieri, introverso, solito parlare con se stesso e riluttante ai rapporti interpersonali, estraneo alle relazioni sociali ed estromesso dai momenti conviviali, descritto dal suo amico di una vita come “un mostro di asocialità”, possiamo ben comprendere che considerasse la madre come “qualcosa di molto problematico”. Il ragazzo si rintanò in se stesso quando “mi accorsi anche di avere paura di mia madre, ma non durante il giorno; di giorno mi era nota, era prevedibile ma, di notte, avevo paura di mia madre!”.

È emblematico che, per Jung, il crinale di distinzione del positivo dal negativo, per non dire del bene dal male, fosse il concetto di prevedibilità.

Il padre era positivo perché era un uomo prevedibile.

La madre era positiva di giorno perché era prevedibile e negativa di notte perché imprevedibile.

Assumere come principio di demarcazione tra il positivo e il negativo il concetto di prevedibilità significa essere travolti e trasportati da una primordiale e irrefrenabile paura. La psiche del giovane Carl Gustav era dominata dalla paura e, quindi, dal controllo del comportamento degli altri. La paura era, probabilmente, il dominus e il movente dell’atteggiamento di rifiuto aggressivo degli altri. 

Allora, per un ragazzo che sta lì, in una casa isolata in campagna, muto e ipnotizzato da se stesso, la scuola può essere anche una ottima soluzione. Così Carl Gustav decise di tentare la via della istruzione. Con qualche sforzo, in realtà. Si sa, il carcerato è restio ad abbandonare le mura che, come diceva il poeta “aiutano a sopportare il sequestro”[1]. Le mura di Jung erano immateriali: una casa appartata in campagna, una vita solitaria senza fratelli e sorelle, concentrato sul suo posizionamento nel mondo e il controllo permanente della affidabilità, o meglio, della prevedibilità dei genitori. Le mura di Jung era la totale assenza di coetanei. Quindi inizialmente fu costretto alla frequentazione di quelle stanze con mura materiali e spesse, piene di coetanei invadenti. Una rivoluzione copernicana del suo habitat che somma, a causa della destabilizzazione che procura, paura a paura. L’idea di prime amicizie lo atterriva e lo affascinava. Era in qualche modo una prova: lo atterriva perché lo affascinava e lo affascinava perché lo atterriva. Possiamo benissimo immaginare il coacervo di contraddizioni di un adolescente che si tenta alla complessità del mondo. Ogni prossimo passo è una prova definitiva e pericolosa. I corpi dei compagni che lo circondavano, erano le nuove strade, le piazze, le città, i continenti che avrebbe potuto frequentare se avesse voluto. Una opportunità insuperabile nell’infinito gioco della conoscenza.

Non volle, però.

Quella scuola era rurale. I suoi coetanei, banali. I temi trattati semplici, noiosi, insulsi. Gli insegnanti ostruttivi e pieni di pregiudizi, convinti che Lui, Carl Gustav Jung, che sarebbe diventato il più importante rappresentante della psicoanalisi moderna, non fosse in grado di scrivere un semplice saggio. Erano ridicoli. Più avanti negli anni Jung racconterà di un docente stolto, che si fregiava della sua approssimativa competenza umiliando gli studenti; che, cioè, era solito correggere gli elaborati assegnati agli studenti partendo da quelli che giudicava migliori. Accade un giorno che alla fine della parata delle abilità, il testo di Jung non venisse proposto all’aula. Il suo momento non arrivava mai. Carl Gustav fu atterrito dal giudizio: “insomma, non è possibile – si disse - che il mio sia così brutto!”. La voce del professore interruppe l’inizio della sindrome dei pensieri autodistruttivi: “c'è ancora un compito, quello di Jung”, affermò con voce perentoria. “Sarebbe di gran lunga il migliore se non fosse che l’ha copiato. L’ha copiato da qualche parte ... l’ha rubato, Lei è un ladro, Jung! E se solo sapessi da dove l’ha preso, la farei espellere immediatamente!”. Quel professore fece quanto di peggio è possibile fare: trasformò una possibile insufficienza in una clamorosa ingiustizia.

Naturalmente al giovane Jung salì violentemente una scossa di ira. Eruttò la lava della giustificazione e della rivalsa. Disse che quel compito era l’unico che lo aveva interessato, l’unico che meritava la sua applicazione, a differenza della insignificanza degli altri. “Lei è un bugiardo! – insistette il potere pubblico istituito - E se potremo provare che l’ha copiato la sbatteremo fuori da questa scuola”. 

L’ingiustizia è molto più incisiva. L’ingiustizia è scolpita nel cuore e nella mente degli uomini, specie in coloro che nel solitario ed esclusivo confrontarsi con se stessi, enfatizzano la dimensione degli eventi. Il loro silenzio è popolato dai mostri della incomprensione e dell’insulto. Dopo molti anni, Jung ancora ricordava, intatto, il grave risentimento. Egli aveva soltanto il suo pensiero e quel pensiero non poteva essergli sottratto dalla incompetenza con una ingiustificata e inopportuna denigrazione pubblica. Odiò quell’insegnante e sviluppò istinti omicidi da consumarsi nel buio di qualche anfratto paesano. Nel corridoio d un vicolo oscuro avrebbe lui definitivamente oscurato l’ignoranza. Quel vicolo sarebbe stato il più clamoroso, la sfida definitiva sul terreno del nemico: il campo di battaglia della ricerca scientifica. Così noi dobbiamo ringraziare la stupidità di quell’ignoto insegnate. L’intelligenza ha insospettabili occasioni per dimostrarsi.


Jung avrebbe voluto scegliere l’archeologia, diventare assirologo, egittologo, se avesse avuto la possibilità economica di sostenersi in studi così selettivi e poco applicabili. La seconda opzione avrebbe potuto essere quella delle scienze naturali, della zoologia, a cui si iscrisse e che allora restava inserita nella facoltà di Filosofia, non essendosi ancora opportunamente differenziata. Soltanto che le scienze naturali offrivano l’unica prospettiva professionale dell’insegnamento e Jung tutto avrebbe voluto, tranne che fare il maestro in una scuola di campagna. Allora scelse, anche nel ricordo mitizzato del nonno, di essere medico. Studiò medicina, in qualche modo comprensiva di scienze naturali.

Al liceo incontrò altri amici, più vecchi e molto più prevedibili. Tramite il suo nuovo insegnante, Jacob Burckhardt, conobbe e si appassionò alla filosofia, alla letteratura, alla religione, allo spiritualismo. Conobbe, tramite i libri, Goethe, Nietzsche, Bachofen, Mörike, Schopenhauer, Kant, Eckermann, Swedenborg e molti altri nuovi amici. Nell’anno 1895 si iscrisse alla università di Basilea, facoltà di Medicina e Chirurgia. Si laureò nel 1900 con una tesi dal titolo Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti, analisi relativa ad una esperienza vissuta da Helly, la cugina Hélène Preiswerk, avvezza a convivere con fenomeni paranormali.

La medicina, dunque, fu il conduttore verso gli studi psichiatria. Era la strada seguita da molti ma a Jung parve una coincidenza. Quella di un manuale di psichiatria sbirciato per caso.

Più tardi quelle coincidenze diventeranno argomento di studio che oggi esercita in noi un fascino enorme. Si tratta del tema della “sincronicità” che preannuncia, non si sa ancora quali, ma nuovi orizzonti nello studio della mente e perfino della logica.
Vedremo.

I 7 anni successivi della vita di Carl Gustav Jung procedettero con una certa rapidità. Gli avvenimenti si accavallarono: lavorò al Burghölzli, il famoso ospedale psichiatrico di Zurigo, allora diretto da Eugen Bleuler; dal 1902 al 1903, fu a Parigi per seguire le lezioni di Pierre Janet; nel 1903 sposò Emma Rauschenbach, che favorì e tranquillizzò i suoi studi con la sua ricchezza e che lo sostenne fino alla morte; pubblicò la tesi Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti (1902), alcuni studi sul test di associazione verbale e Psicologia della dementia praecox (1907); divenne libero docente presso l’Università di Zurigo. Gli avvenimenti si rincorsero.

Il suo evento invece accadde nel 1907, quando incontrò Sigmund Freud a Vienna. Parlarono a lungo e per molti anni. Ancora parlano per noi, con noi. E si scrissero a lungo. La cospicua corrispondenza scientifica sfociò perfino in un loro libro.

Fu una amicizia stimolante e turbolente, dove l’uno cercava il più possibile di tollerare l’altro. Una amicizia durò solo sette anni. Lo scontro avvenne su una nave che li trasportava, assieme, negli Stati Uniti. Quel viaggio fu colpevole. Jung mal sopportava la pretesa di Freud di considerarsi il padre della psicoanalisi. Mal sopportava una autorità che, per Lui, non corrispondeva ad una autorevolezza. Per occupare il tempo e testare la loro disciplina decisero di interpretare reciprocamente i propri sogni. Jung si prestò con entusiasmo e sincerità. Freud fu reticente, sospettando che la confessione minasse in qualche modo il suo prestigio: “non poteva mettere a repentaglio la sua autorità”. Per Jung fu un’onta. Forse tornò nel suo immaginario psichico il volto arcigno dell’ingiusto maestro che lo aveva tradito. Forse sentì gli stessi impulsi omicidi per una rinnovata ingiustizia. Sta di fatto che Jung incrinò, fino ad interrompere, la relazione con Freud. Non poteva sopportare di tornare il bambino punito l’unica volta che si era sinceramente disposto al confronto. I due scienziati della psiche si separarono. In particolare, nel 1912, quando Jung pubblicò “Trasformazioni e simboli della libido”, il rapporto tra Jung e Freud si concluse definitivamente. 

Libero dal vincolo disciplinare, lo scienziato dette libero sfogo ai suoi interessi e girovagò antropologicamente dentro gli usi, i miti, i rituali e i costumi di tante diverse popolazioni. Comparando le loro caratteristiche logiche ed epistemologiche, Jung si convinse dell’esistenza di un unico denominatore multiplo di ogni inconscio individuale, un inconscio collettivo comune a tutti gli esseri umani come prodotto delle esperienze di ogni tempo. Erano proprio le credenze religiose e le immagini, i racconti simbolici e i miti che identiche in popoli e culture diverse, in diverse epoche storiche e in diversi luoghi che convinse Jung che tutte quelle rappresentazioni erano la espressione di un’anima collettiva comune, una rete cognitiva di base che univa tutti gli umani. Fu allora che si decise a pubblicare il saggio “Tipi Psicologici”. Era il 1921.

È inutile, qui, ora, descrivere dettagliatamente la vita quasi meccanica e quasi indifferente che è proseguita per Carl Gustav Jung, come se fosse un film, distinto e distante dalla sua esperienza quotidiana, come una verità priva di realtà. Fu nominato Presidente Onorario della Società Tedesca di Psicoterapia; lavorò con tutti alla elaborazione della psicologia analitica, in una intensa attività terapeutica intorno a Zurigo, fino alla istituzione dell’istituto Carl Gustav Jung Institut dove si insegna prevalentemente teoria e metodi della “psicologia analitica” e per questo fu dedicato al suo nome.

Per quanto riguarda la nostra biografia intellettuale, è opportuno fermarsi al 1922, l’anno della morte di sua madre. Quella morte iniziò un viaggio di ritorno, l’ingresso di Jung in una liminalità senza tempo e senza spazio. Una liminalità con un solo fondamento, unico, primigenio, insuperabile: i sassi.  

Il padre era già morto molti anni prima. Senza la madre Jung restò solo. “Sono un orfano, solo; tuttavia sono stato trovato ovunque. Io sono uno, ma sono contrario a me stesso. Io sono gioventù e vecchio allo stesso tempo. Non ho conosciuto né padre né madre, perché ho dovuto essere estratto dal profondo come un pesce, o caduto come una pietra bianca dal cielo. Nei boschi e nelle montagne vagabondo, ma sono nascosto nell'anima più intima dell'uomo. Sono mortale per tutti, ma non sono toccato dal ciclo degli eoni”. Tornò il bambino impegnato a parlare di sé con sé, tra i giochi nel prato, seduto su un masso. Sul lago di Zurigo, a Bollingen, comprò nel 1923 una torre di due piani. Una torre di sassi. Anzi, il masso, quel masso, quel luogo di protezione e intimità, il posto del pensiero e della solitaria meditazione. Per superare la sua ancestrale paura, il bambino, il fanciullo, il ragazzo e l’uomo aveva sempre bisogno di simboli. E più di tutto il simbolo della fermezza e della robustezza, il simbolo di ogni fondamento: la pietra. Quella torre era ancora quel simbolo e al tempo stesso l’enigma di ogni eternità. Non c’era nessun altro posto in cui Jung, da solo, avrebbe potuto vivere. Da un certo momento in poi, però, con la morte della madre, quel silenzio poteva essere governato, l’eternità che si incasella e s’incastra nell’archetipo, può essere gestita, nonostante il suo tempo infinito, nonostante l’effimera esperienza di vita di ciascuno di noi, nonostante il “passaggio in ombra”, comunque in ombra delle nostre precarie esistenze. 

La pietra edifica monumenti alla immortalità e sotterra la degenerazione del corpo,il suo disfacimento dopo la morte. Sulla pietra, come sull’archetipo, sono segnate le venature della nostra presenza che restano inequivocabilmente iscritte.

Hic lapis exilis extat, pretio quoque vilis, spernitur a stultis, amatur plus ab edoctis”[1].

Per questo motivo Jung proseguì la sua vita lavorando la pietra, con sculture e incisioni, segnandola sua presenza nel mondo irrimediabilmente. Pietre appositamente posizionate nel giardino della torre, con un messaggio scolpito all’assoluto: “Ὁ Αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεττεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη» · Τελεσφόρος διελαύνων τοὺς σκοτεινοὺς τοῦ κόσμου τόπους, καὶ ὡς ἀστὴρ ἀναλάμπων ἐκ τοῦ βάθους, ὁδηγεῖ «παρ' Ἠελίοιο πύλας καὶ δῆμον ὀνείρων”[2].

La casa cresce a ritmo delle esperienze di vita, è una rappresentazione della propria storia. Ad una torre si aggiunge un’altra torre, edificate in anni successivi, nel 1927, nel 1931 e nel 1935, finchè non siano connesse tra loro in quattro parti. Ogni lato della casa rappresenta “un’estensione della coscienza raggiunta in età avanzata”.

Muore la madre, muore la moglie Emma (1955), muore Toni Wolf (1953), la sua amante di 40 anni che ha convissuto all’interno della famiglia, muore Sabina Spielrein (1942), la paziente e amante condivisa con Freud, muore perfino Sigmund Freud (1931), il complice e il rivale, l’avversario e il compagno, il referente e il riferimento. E ogni volta Jung estendeva il periodo di permanenza nella casa fatta di pietre, suggestiva e mistica, a Bollingen. Jung non cercava se stesso nella natura e nella pietra. 

Scolpiva sassi e scriveva libri.

Durante gli anni '40 si accorge che l’uomo espande la sua psiche collettiva ed estende i suoi miti all’universo. L’ufologia non è una moda. È una nuova narrazione, una espansione dell’immaginario o anche dell’immaginifico, cioè della composizione disarticolata delle metafore. Nell’universo si replica la metafora del viaggio infinito; e Jung incide una citazione dell’Odissea, quando Ermes, lo psicopompo cioè la funzione guida del viaggio dei defunti, affronta l’itinerario dell’eternità condotto dagli spiriti degli spasimanti morti: “Egli indica la strada alle porte del sole e nella terra dei sogni”. 

Scolpiva sassi e scriveva libri.

Un testo nel 1944, “Psicologia e alchimia”.

La morte si avvicinava, diventava una esperienza concreta, con i suoi inequivocabili avvisi: un incidente, una frattura, un infarto, un coma. Pian piano, con gli anni e con la violenza eloquente dei fatti, l’uomo vive la sua stessa pre-morte, ne fa esperienza concreta, fisica. Jung la descrive in un testo autobiografico “Ricordi, sogni e riflessioni”. E scolpisce su un sasso un frammento attribuito ad Eraclito: “Il tempo è un bambino che gioca, gioca d'azzardo, il figlio è la regina" è un frammento attribuito a Eraclito”. 

Fino alla fine Jung scolpiva sassi e scriveva libri.

Perfino nel 1952, dopo aver incontrato il premio nobel per il “principio di esclusione” Wolfgang Pauli, ha pubblicato importanti scritti sulla “teoria della sincronicità” che affronteremo meglio perché merita un approfondimento, perché fonde orizzonti di conoscenza con una affascinante coniugazione tra psicologia e fisica. Una specie di predizione del pensiero quantistico e delle dimensioni della logica note o probabilmente future.

Sincronicità e metafore, metafore che producono sincronismi cognitivi fino alla fine. La figlia ci ha riferito che quando Jung morì, dopo una breve malattia, il 6 giugno 1961 a Küsnacht, in Svizzera, un fulmine, a ciel sereno, incenerì l’albero nel giardino.

Quel che viene dopo la morte – Egli scrive – è qualcosa di uno splendore talmente indicibile, che la nostra immaginazione e la nostra sensibilità non potrebbe concepire nemmeno approssimativamente … Prima o poi, i morti diventeranno un tutt’uno con noi; ma nella realtà attuale sappiamo poco o nulla di quel modo d’essere. Cosa sapremo di questa terra, dopo la morte? La dissoluzione della nostra forma temporanea nell’eternità non comporta una perdita di significato: piuttosto, ci sentiremo tutti membri di un corpo unico”.


Ci restano le sue pietre, quelle fisiche e quelle cognitive. Entrambe simboli dell’eternità: il suo progetto di vita perché Jung è eterno!


2 - Il pensiero e il pensato di Carl Gustav Jung
Ma perché Jung si è fissato con le pietre: cioè, perché ha fissato il suo pensiero sulle pietre?

Perché il nucleo centrale del suo pensiero era la conservazione. 

Nella storia dell’umanità le cose più importanti, quelle a cui più ci leghiamo, anche in questa nostra epoca di “distruzione creatrice” come l’ha definiva Schumpeter, sono quelle che restano, che resistono, che si conservano. Non le cose che cambiano. Quelle che cambiano possono rapidamente svanire. Quelle che rimangono a nostra disposizione ed anche a nostra tutela, sono le cose più importanti, i nostri referenti e i nostri riferimenti. E in generale, proprio perché rimangono, proprio perché sono persistenti ad ogni epoca storica, queste conservazioni essenziali alla nostra sopravvivenza nel mondo, sono inintenzionali. Non le ha inventante nessuno, sono il prodotto di un costante uso e un miglioramento collettivo, tramandato nei secoli e aggiustato, migliorato, leggermente composto, secolo dopo secolo. Non le ha inventate nessuno, le abbiamo costruite tutti insieme, anno dopo anno. E ce le siamo tramandate, permanenti e abitudinari, ignorate perché totalmente acquisite alla nostra disponibilità, occultate dalla normalità e dal quotidiano utilizzo. Cose, oggetti, concetti, tradizioni iscritte nell’anima del mondo. 

Nell’archetipo. 

Le pietre sono l’emblema della permanenza evolutiva dell’archetipo. Restano sempre uguali nel tempo, ma cambiano leggermente a causa di piccoli intagli, corrosioni che il tempo e la natura lentamente e definitivamente compiono su di loro. Le pietre come l’archetipo sono il nostro DNA. Pietre, archetipo e DNA sono il nostro “relativo immutabile”. Certamente sono il nostro collettivo.

Sono la nostra autopoiesi: immagini che si ripetono riproducendo immagini simili; esseri umani che si accoppiano con esseri umano per generare esseri umani. L’umano è immutabile in sé, è un archetipo, ma, come avrebbe affermato successivamente Jacque Derrida, “chiunque altro è tutt’altro”. 

L’habitat è un altro archetipo. Tutti i viventi, per sopravvivere devono averne uno, ma ciascuno cerca il suo. Le varianti determinano variazioni adattative, che cambiano in relazioni alle singolari condizioni naturali, con aggiunte o eliminazioni soggettive in tutti i luoghi e in tutti i tempi, in tutte le culture, per preservare l’archetipo più importante: il posizionamento, cioè il proprio essere nel mondo. Così si forma e si conserva, integrando e assorbendo i piccoli mutamenti funzionai, l’archetipo. Così si forma e si conserva il DNA dei viventi. Così si formano e si conservano le pietre. 

In questa dinamica acquisitiva della propria identità, condotta dall’archetipo umano, il confine tra interno ed esterno è labile, quasi impercettibile. Il flusso delle immagini del mondo, ad esempio, sono un aspetto, non esaustivo, della complessità fenomenologica dell’esistenza. Quando le osserviamo, nel mondo esteriore, in realtà scrutiamo anche un aspetto del mondo interiore. D’altronde, per Jung, l’inconscio è un contenitore di immagini. Ogni sua fantasia è immaginazione in movimento. I sogni, l’arte, la religione, non sono che clusterizzazioni delle immagini contenute nella nostra bisaccia archetipica. Sono, per dirla con Lacan, separtizioni, cioè rappresentazioni simboliche di aggregazioni semantiche nella nostra psiche.




2.1) Possiamo pertanto evidenziare la prima grande innovazione prodotta da Jung.

Contrariamente al pensiero tradizionale, per questo osservatore silente (ma non silenzioso) della complessità dell’umano, la psiche non è energia. La fantasia, l’immaginazione è energia, perché è il prodotto dell’azione della psiche. Certo questa azione non può essere misurata, conteggiata, quantificata; ma è comunque una risposta psichica, una re-azione appunto, agli eventi della realtà, ai fatti e al loro manifestarsi. Viceversa, le piccole fantasie, queste energie della psiche, si trasformano in fatti che si esprimono in comportamenti e azioni (costruire qualcosa, fare violenza, etc…). È chiaro allora che, se le fantasie sono energia per trasformare il pensiero in pensato e il pensato in atto, la psiche è materia, corpo che rende possibile la emissione di questa energia. La materia, nostra ma forse per Jung tutta la materia, non è circoscritta soltanto alla fisicità visibile. C’è una materia altrettanto fisica ma non visibile, empiricamente non verificabile. Quando non potevamo vedere il nostro cuore e i nostri organi interni, per assenza di strumentazione tecnologica, potevamo tuttavia sapere con certezza della loro esistenza. Questo vale, sulla scorta dei positivisti ottocenteschi, o meglio degli organicisti, anche per la psiche. Per Jung la psiche è un elemento organico presente soltanto nella struttura fisica dei viventi, nei loro corpi, grazie alla materia che loro in gran parte sono. 

La psiche è un elemento della materia, della nostra materia, dentro di noi, percepibile per quanto non ancora visibile. Una materia che cresce e che, tanto più si espande con la identica lentezza delle pietre, tanto più produce energia fantasiosa e fantastica. Cresce con le esperienze percepite e interpretate dal mondo esterno, trasformate in concezioni tramite l’educazione e lo studio, sedimentate dalle influenze cognitive, culturali, morali ed etiche. La crescita della psiche fa da orientamento all’agire umano grazie all’energia che riesce a produrre. Ora, anche se questa impostazione è filosoficamente usuale, cioè riconducibile alla logica causa/effetto e al motore immobile di Aristotele (se c’è una effetto c’è una causa che lo ha determinato, e a sua volta quella causa è effetto di altra causa, perché nulla può generarsi da sé – se c’è energia nella forma della fantasia ci deve essere un corpo che l’ha generata e qualcuno che ha generato quel corpo, ecc…), tuttavia sul piano psicologico siamo alla prima formulazione del concetto di mente: una entità fisica che sta nel nostro corpo, nel cervello, che produce energia in grado di orientare la nostra esistenza nel mondo. 

Jung ha anticipato i tanti psicologi e filosofi che, dopo di lui, tratteranno l’ampio tema della ecologia della mente.



2.2) Lo schema logico, sempre di ordine aristotelico, della seconda grande innovazione di Jung è coerente e congruente con la scoperta della mente. 

Se le azioni sono generate dalla fantasia che è energia generata dalla fisicità della psiche, chi genera la psiche? 

Gli archetipi sono i produttori e i responsabili della psiche. 

Come i genitori sono causa responsabile del figlio, così gli archetipi sono causa responsabile della psiche. L’archetipo spezza il paradigma chiuso della psiche, lo apre verso il mondo immenso della trasmissione genetica ed epigenetica. Per Jung infatti, l’uomo non è solo al centro dell’universo. È piuttosto legato indissolubilmente al network della sua storia e alla rete della sua identità. Mischia il suo inconscio, come fondamento della psiche, nel deposito cognitivo dell’intera umanità, nella struttura immutabile del suo essere, in quel “magazzino di tracce latenti provenienti dal passato” che egli stesso implementa con il residuo psichico del proprio sviluppo evolutivo. 

Le cognizioni umane si accumulano in funzione all’espressione energetica della psiche tradotta in ripetute esperienze per innumerevoli generazioni. Una di queste, diremmo noi, strutture conservative di energia sociale è certamente il fatto gli esseri umani sono sempre generati almeno da una madre. Questo segno è iscritto nell’archetipo e, quindi, ogni bambino viene al mondo con l’attitudine innata a riconosce la madre e ad entrarne istintivamente in contatto. La madre è una struttura conservativa dell’archetipo. 

La psiche è la struttura conservativa del figlio. Il figlio sa di avere inequivocabilmente una madre, anche se può non conoscere chi è. E lo sa perché l’esperienza personale è sempre influenzata dall’inconscio collettivo che fonde ontogenesi e filogenesi. In questo inconscio collettivo sono presenti gli archetipi, quali forme universali di pensiero dotate di contenuto affettivo.

Gli archetipi, tramite le immagini o le visioni che generano, rafforzano il normale stato di vigilanza della vita cosciente. Possiamo generalmente distinguere: l’animus, cioè gli archetipi del maschile; l’anima, cioè gli archetipi del femminile. Le distinzioni però sono puramente accademiche, artifici logici per comprendere le articolazioni della vita. Nella realtà le variabili si compenetrano. Queste fusioni di orizzonti, come li ha definiti Gadamer, ci permettono di definire con maggior precisione la dinamica della psiche. Dobbiamo considerare, infatti, che l’animus, è l’archetipo maschile nella donna, mentre l’anima, è l’archetipo femminile nell’uomo. Anche il maschio ha una parte sensitiva, emozionale intuitiva. Anche il maschio ha un’anima. La nostra educazione tende, però, a rimuovere l’anima sensibile del maschio perché la considera non sufficientemente virile. In questo modo, l’anima, diventata una immagine archetipica, resta una connotazione esclusiva della femmina che permette al maschio di riconoscerla in quanto proiezione inconscia della propria femminilità. Lo stesso meccanismo entra si attiva nell’inconscio femminile con l’animus. Il condizionamento sociale rimuove dall’inconscio i caratteri non funzionali alla riproduzione e alla sopravvivenza della specie, quelli maschili della forza e del calcolo razionale che rappresentano i connotati dell’animus. Allo stesso modo, dunque, la femmina riconoscerà il tipo di individuo che interpreta la proiezione inconscia della propria mascolinità. 

È chiaro che, in questo modo, Jung contesta la vecchia idea di Locke della Tabula Rasa. C’è un innatismo in ogni bambino che eredita una concezione preformata nell’archetipo, quella di avere una madre, ad esempio. Tutte le cose che concepiamo come naturali, la madre appunto, sono soltanto cognizioni predeterminate e ogni nostra esperienza è il risultato finale di una predisposizione interna a percepire il mondo come la dialettica tra il format preordinato che ci è stato trasmesso e la reale natura che possiede la realtà in cui viviamo. 

L’archetipo è la sintesi prima e ultima del processo psichico individuale e di quello dell’intera specie umana: “… è la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura cerebrale”. 

L’archetipo è l’universale integrazione di ogni sintattica e di ogni semantica. Nell’archetipo sono depositati i connotati di ogni tipologia logica, psicologica e comportamentale, i caratteri personali, delle azioni e delle reazioni degli esseri viventi fin dai primordi. Infatti, proprio le immagini ancestrali collettive si dicono archetipi o categorie ereditarie, perché sono comuni e presenti, attraenti e accoglienti in quanto dotate di contenuto affettivo. Nevrosi e visioni, alterazioni e allucinazioni dello psicotico, si alimentano di queste immagini archetipiche. Le malattie psichiche, o anche solo i problemi, sono il prodotto della sconnessione tra esperienze del presente e concezioni del passato, tra la verità trasmessa e la realtà vissuta. Per questo motivo l’uomo non deve mai smarrire il rapporto con le sue radici. Noi siamo il contenuto e i contenitori di una storia sterminata, che trascende l’esperienza sensibile e la nostra cronaca individuale. Ogni uomo è il complesso e il complessivo della storia dell’uomo.


2.3) Il Sè (Selbst) o l’archetipo dell’individuazione. Il terzo aspetto, profondamente innovativo del pensiero di Jung è il Selbst, l’archetipo del Sé, il se stesso. Plessner l’avrebbe definito come la tipica eccentricità umana, una personalità distinta da quella animale per la inequivocabile capacità di superare la centralità dei propri bisogni. Eccentrica, appunto. Una personalità in grado di passare trasversalmente dentro tutti gli altri sistemi; che è in grado di mantenerli uniti ed integri rispetto ai valori. Si tratta di una personalità che garantisce equilibrio, stabilità e unione. Più di tutto però una personalità non descrivibile. 

A differenza di quanto fino ad allora si era ritenuto, confondendo e in parte mistificando i termini di Ego (psichico) e di Io (empirico), Jung considera il Sé, non come un elemento, ma come l’intera personalità che tenta di realizzare lo scopo della propria vita, impegnata a perseguire il fine per cui l'uomo lotta tenacemente, anche se di rado riesce a conquistare. Il Sé non è una parte, non è soltanto l’ “Io, me stesso” empirico. Non è nemmeno soltanto l’Ego di cui possiamo (o non possiamo) essere consapevoli. Il Sé è la personalità tutta intera, completa e talvolta completata. Una personalità, come aveva già descritto Freud con l’immagine simbolica dell’iceberg, che in parte emerge alla nostra coscienza e alla nostra consapevolezza. Una personalità cosciente che, pertanto, può essere descritta. C’è però anche una personalità inconscia che non può essere descritta, la parte sommersa dell’iceberg di cui siamo fondamentalmente incoscienti. Forse possiamo scorgerne soltanto pochi indizi, forse possiamo averne anche intuizioni, idee e avanzare congetture; ma tutte approssimative e imprecise. Nessuno è in grado circoscrivere l’umano, di richiuderlo in una cornice paradigmatica, perché nessuno può dire mai davvero dove comincia e finisce l’uomo. Non si sa fin dove sprofonda la parte sommersa dell’iceberg, quanto è profondo l’inconscio e fin dove può giungere l’uomo. 

La personalità tende all’autorealizzazione. Per raggiungerla deve modificarsi. Per modificarsi deve differenziare le istanze psichiche e trasformarle gradualmente in modo che la personalità stessa possa ri-organizzarsi per tenersi intera ed integra in funzione dei propri obiettivi di vita. Dirà Piaget che l’intelligenza organizza il mondo organizzando se stessa. Per Jung, soltanto lasciando ad ogni istanza psichica la libertà di estrema differenziazione dalle altre, è possibile conquistare, sviluppare, addirittura progredire verso una personalità sana e completa. È il processo di individuazione che, grazie alla differenziazione funzionale della psiche, permette la rivelazione del Sé liberato dai sedimenti della persona e dalle proiezioni degli archetipi, permette cioè di realizzare quella che Jung ha denominato “la totalità”. 

Come abbiamo visto, la psiche è una mente che produce energia sottoforma di immagini. Naturalmente, il processo di differenziazione funzionale della psiche, la individuazione, determina la costituzione di alcune opposte polarità. 

Per Jung esiste una funzione trascendente che, con un suo proprio meccanismo di sublimazione, permette di trasferire l’energia prodotta dalla psiche, cioè le immagini, dai processi primitivi, istintivi e meno differenziati, ai processi più differenziati che sono quelli spirituali e culturali. Allora, nella psicoterapia, Jung utilizza queste immagini oniriche. Parte dalla interpretazione dei sogni e in particolare da quei sogni che rivelano lo sviluppo del Sé. Decodifica le immagini che il paziente deve necessariamente comprendere per analogia e comparazione con fiabe, leggende, miti, grandi icone di culture antiche e perfino formule dell’alchimia. Questa presa di coscienza, per non dire questa razionalizzazione, è la coscienza che fa presa sul Selbst, sul Sé.



2.4) In un bellissimo libro di qualche anno fa, Maria Teresa di Lascia ha descritto la sua vita e quella di tanti di noi, come “Passaggio in ombra”[1]. L’ombra è quella grigia e tenue delle infinite popolazioni di umani che ci passano affianco, nella cronaca quotidiana, senza fare storia, dimentichi e dimenticati solo pochi anni dopo la loro scomparsa, o anche durante la loro vita stessa. Anche noi siamo coloro che passano affianco, siamo per loro ciò che loro sono per noi, uomini che passano anonimi sullo sfondo del teatro della vita. In ombra, ma non al buio. Nella grigia penombra di un “meriggiare pallido e assorto”.

Donatella Di Cesare, invece, ci descrive un altro tipo di ombra. L’ombra del mondo in cui ciascuno poteva nascondere la sua intimità, in qualche modo proteggersi, l’ombra della notte in cui ritirarsi stanchi del fragore luminoso e delle lotte clamorose. L’ombra personale del sonno, in cui, come sentenziava Eraclito “ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare”, mentre la veglia del giorno è collettiva, “unico e comune è il mondo per coloro che son desti”. L’ombra che non c’è più: “Questo mondo ha già perso la sua ombra. È condannato all’imperativo del giorno, al torpore sfinito dell’allarme prolungato, all’inesausto dormiveglia della luce mai spenta, in una virtualità diurna che non conosce notte”[2].

Ben diversa è l’ombra di Jung. Schatten è l’istinto animalesco che l’uomo ha ereditato nella sua evoluzione, ovvero il lato animale della natura umana; qualcosa che resta in ombra perché oscurato dalle procedure di sradicamento e di convivenza. Con il generale processo di civilizzazione la psiche degli individui viene in qualche modo ridotta, separata dalla sua anarchica istintualità e collettivizzata dagli usi e i costumi di genere e di sesso. 

Il deposito occultato dell’ombra, invece, restituisce universalità a1la psiche, ricomponendo ciò che la limitazione sociale aveva scisso. Oggi sappiamo che queste limitazioni sono imprecise perché, come ci ha insegnato Wilson, l’uomo è un animale eu-sociale e la sua fitness evolutiva è stata assicurata e accelerata proprio, in quanto animale più debole, dalla identificazione con l’habitat. La società non è stata una limitazione, ma un accrescimento. La civilizzazione non è stata una separazione dall’animale ma una particolarissima ed unica evoluzione. Tuttavia, la concezione di ombra di Jung aiuta la fitness evolutiva anche nel paradigma della eu-socialità, perché incrementa la tolleranza dell’individuo per il proprio inconscio. Diciamolo con il linguaggio di oggi e, principalmente, nei termini del nostro paradigma scientifico. La dimensione della logica endofasica, cioè quella dimensione logica caratterizzata dalla presenza dell’analogia e della comparazione, permette agli individui di rilevare, a contrasto, e di eliminare sempre più gli elementi incoscienti, quelli animaleschi coperti dall’ombra ma non ancora soffocati. Enfatizza e spesso esalta l’ideale cosciente per proteggersi dal rischio e dalla minaccia, soprattutto nelle psicosi, dei sommersi contenuti non affini all’Io.

L’ombra è, pertanto, quella parte del Sé, che contraddice l’auto-identità cosciente del soggetto. Per ciascuno di noi l’ombra rappresenta cioè quello che riteniamo di non essere e che temiamo di essere.


2.5) la quinta fondamentale innovazione di Jung consiste nello schema proposto per i Tipi psicologici. Si tratta soltanto di uno strumento orientativo, ma molto importante ed utile sia per la interpretazione psicologica che per la cura psicoanalitica. Per Jung esistono due fattori (introversione ed estroversione) e quattro funzioni psichiche (il sentimento, il pensiero, la sensazione e l'intuizione). 

Queste quattro funzioni ci consentono di adattarci alla vita e al mondo interiore ed esteriore: il pensiero utilizza dei processi logici, il sentimento utilizza dei giudizi di valore, la sensazione percepisce i fatti e l’intuizione percepisce le possibilità presenti dietro i fatti. La sensazione ci dice che una determinata cosa esiste, è la funzione percettiva, apporta fatti o rappresentazioni concrete del mondo. Il pensiero ci dice che cosa è quella cosa. E’ intellettivo, con esso l'uomo cerca di comprendere la natura del mondo e sé stesso. Il sentimento ci dice se quella cosa sia accettabile o meno, è il valore delle cose in rapporto al soggetto. 

È importante ricordare che tra il 1907 1 il 1913 Bertrand Russell e Alfred Whitehead pubblicarono, prima in vari articoli e poi in un testo completo, i loro “Principia Mathematica”[1] con la teoria dei tipi logici. Per la prima volta, dopo tanti secoli, si superavano le categorie logiche e si entrava nell’universo delle tipologie. La teoria risponde alla esigenza di dare una fondazione logica alla matematica. Senza entrare ora nel dettaglio, possiamo legittimamente concordare che la logica dei tipi è stata sviluppata, essenzialmente da Russell, per evitare il problema delle antinomie nelle proposizioni, cioè quel particolare paradosso logico che si applica ad asserzioni che, se sono vere risultano essere false e, viceversa, quando sono false risultano vere (come il caso di Epimenide il cretese). Russell risolve il problema ponendo gli oggetti di una classe (o di una categoria) a diversi livelli logici (che noi oggi chiamiamo più correttamente dimensioni[2]). In questo senso è possibile evitare antinomie soltanto se i vari concetti espressi nelle asserzioni possono essere collocati in “tipi logici” di grado diverso (tipi individuali, tipi soggettivi, le proprietà, le connotazioni, ecc…).

Noi non sappiamo se Jung abbia per primo ripreso, in campo psicoanalitico, questa teoria di Russell e Whitehead. Egli potrebbe anche essere giunto alle stesse considerazioni da solo, sebbene, come mostra il suo incontro con Pauli, l’attenzione di Jung alla fisica fosse notevole. Si tratta di una tradizione psicologica che discende da Husserl (che aveva attraversato entrambi gli ambiti scientifici) e che è stata troppo poco evidenziata. 

In ogni caso i tipi psicologici di Jung rispondono alla identica impostazione di Russell, in cui appunto il pensiero, il sentimento, la sensazione e l’intuizione vengono collocati in gradi psicologici diversi (logica, percezione, constatazione e previsione).

Una particolare menzione proponiamo rispetto alla alta complessità del problema dell’intuizione, la cui genesi e modalità operativa – come detto – è ignota. Tuttavia il tipo psicologico della intuizione è particolarmente significativo perché con esso Jung anticipa, in qualche modo, il connessionismo. Infatti, l’intuizione consiste nella connessione, appunto, di una serie di nessi intermedi in una catena associativa occulta poiché utilizza mezzi e modalità dell’inconscio. Per Jung si tratta di una funzione antropologica essenziale perché permette di superare il rischio e la minaccia ignorata razionalmente e di evitare pericolosi imprevisti. L’uomo intuitivo percepisce oltre l’evidenza dei fatti in una dimensione comunicativa superiore (o inferiore nel senso di primitiva) per la elaborazione di diversi e nuovi modelli di realtà. In termini di tipologie allora possiamo collocare il pensiero e il sentimento nella dimensione razionale delle funzioni, mentre la sensazione e l’intuizione in quelle irrazionali. Tutte queste dimensioni integrate (o meglio connesse perché, pur essendo reciprocamente influenzanti, restano tra loro poli o sistemi separati), sono le istanze psichiche che formano la struttura di personalità.


2.6) – la sesta innovazione di Jung consiste nella concezione psicodinamica.

La psicologia di Jung è dinamica perché alla base del percorso psichico si colloca un intervallo circoscritto da i due concetti estremi, opposti e complementari, di: progressione, quando l’Io si adatta all’ambiente esterno e ai bisogni dell’inconscio; regressione, quando gli eventi frustranti sospendono il movimento progressivo e la libido regredisce verso l’inconscio, unendosi a qualità introverse, perché non può più essere orientata in valori estroversi, aperti al mondo. In questo senso allora lo spostamento regressivo non deve essere considerato come un processo negativo, né come costantemente sfavorevole. Anzi! Sia le ipotesi teoriche che la sperimentazione pratica che la valutazione di verifica mostrano che la regressione sostiene l’Io e lo aiuta affinché possa trovare un sistema per eludere le difficoltà e riattivare il suo percorso. 

Oggi noi possiamo riqualificare la teorizzazione di Jung introducendo il nostro concetto di intervallo di sostenibilità psichico. 

La dinamica psicologica si sviluppa all’interno di un intervallo che rende sostenibile all’individuo la sua condizione esistenziale sulla base di due principi fondamentali già individuati da Jung (ancora un volta fortemente presenti nella fisica moderna): il principio di entropia e il principio di equivalenza. 

Secondo il principio di entropia, la distribuzione di energia nell’intervallo di sostenibilità della psiche tende sempre a una concordanza, ad un equilibrio, anche se non necessariamente ad una stabilità. Per distribuzione s’intende il passaggio di energia, fra due valori di diversa forza, dal più forte al più debole; in modo tale che la tendenza generale dell’intervallo proceda costantemente verso il dominio o, preferibilmente, l’intorno del punto di equilibrio. Quando questo non accade e l’entropia cresce o decresce eccessivamente, l’intervallo di sostenibilità psichica esplode o implode e l’individuo passa velocemente alla vera e propria malattia o al disagio depressivo. 

Il principio di equivalenza riguarda invece la sostituzione dei valori, cioè i mutamenti all’interno dell’intervallo di sostenibilità psichico. Quando un valore implode perché si indebolisce troppo o addirittura scompare, la quantità di energia che lo sosteneva non andrà perduta per la psiche, resta nella psiche. Se resta libera, incrementa l’entropia complessiva o il caos cerebrale che induce la psicosi o si scarica in ossessioni; comunque produce un problema psicologico la cui dimensione è relativa alla energia liberata. Non si determina un problema psicologico, o perlomeno una condizione psichica facilmente governabile, quando alla scomparsa di un valore corrisponde la formazione di un altro valore. Per evitare il disagio o la malattia la sostituzione al fine di mantenere l’equivalenza energetica è necessaria, diremmo indispensabile: la conclusione di un'esperienza, in genere, lascia spazio ad un'altra esperienza. 

Come Jung noi crediamo che ogni personalità possieda una sua energia psichica all’interno del proprio intervallo di sostenibilità. A differenza di Jung non crediamo che questa energia possa essere divisa in strutturale, quella che viene concretamente utilizzata per i due obiettivi istintivi del mantenimento della vita e della propagazione della specie, e sovrastrutturale, quella in eccedenza che invece viene utilizzata per obiettivi spirituali e culturali.

La nostra ipotesi è che, sulla base della tendenza alla soddisfazione dei bisogni di Maslow, l’intervallo di sostenibilità sia governato, per mantenere il proprio equilibrio, da strutture conservative di energia; strutture cioè che siano in grado di ridurre il caos individuale conservando, con meccanismi ricorsivi (procedure e procedimenti ricorrenti e acquisiti), energia. La ricorsività abitudinaria di comportamenti, azioni, scelte e decisioni, compiuti senza alcuno sforzo, permette infatti di tendere all’equilibrio perché contiene gran parte di energia prodotta dalla psiche e lascia in dispersione soltanto quella indispensabile per le innovazioni e la trasformazione dei valori.


Le prevalenti strutture conservative di energia all’interno dell’intervallo di sostenibilità psichico sono già state individuate da Jung:
  • Il Mito: “Oggi noi pensiamo di poter nascere e vivere senza il mito, senza la storia, tuttavia è solo un morbo, è assolutamente innaturale perché l’uomo non nasce tutti i giorni, nasce una volta sola e in uno specifico contesto storico con qualità storiche specifiche, di conseguenza è completo solo se instaura una relazione con questi elementi, altrimenti è come nascere senza occhi ed orecchie quando si cresce senza conservare alcun contatto con il passato”. Il mito è una struttura conservativa di energia perché è il fondamento psichico dell’anima inconscia. L’anima si fonda sul mito e non sulla religione proprio perché il mito è in condizione di conservare energia mentre la religione non necessariamente. L’anima attraversa il mito. L’uomo conserva energia psichica e tende all’equilibrio quando è in connessione con il mito; quando rinforza cioè le strutture conservative della energia psichica riconnettendosi alle sue radici ancestrali, presenti e vive da sempre nell’inconscio collettivo. Il meccanismo ricorsivo che trasferisce energia psichica nella struttura conservativa del mito è il fantasticare, tipico della mitologia, dunque passivo, associativo e immaginifico. Jung ha postulato l’esistenza, all’interno dell’inconscio, di uno strato filogenetico, presente in ciascun essere umano, costituito proprio dalle immagini mitologiche che ha denominato immagini primordiali. Questo strado filogenetico, questa traduzione del mito in archetipo e dell’archetipo in mito è possibile soltanto perché il mito è una struttura conservativa di energia. Soltanto così è possibile considerare la manifestazione psichica della rivelazione dell’essenza dell’anima, al tempo stesso, unica e propria del tempo e del luogo che la crea, eppure mai del tutto soggettiva, giacché influenzata dall’innatismo di elementi universali. Questo è possibile soltanto perché l’energia conservata nella struttura del mito è sia quella trasmessa dall’archetipo sia quella acquisita dal posizionamento e dall’esperienza. Per questo motivo Jung poteva pensare che l’archetipo fosse in grado di produrre novità nell’inconscio, oltre che configurarsi come fondamento originario della mitologia. Nell’esprimere e nell’interpretare il bisogno tutto umano di vivere la propria mitologia., andando alla ricerca del proprio mito per diventarne consapevole, Jung aveva intuito una concezione psichica che soltanto oggi noi possiamo giustificare epistemologicamente con il concetto generale di intervallo di sostenibilità. Se per Freud il disagio psichico è riconducibile al mito, in Jung la logica deterministica di quest’ultimo arretra dinanzi alla sua tendenza finalistica. La concezione del mito nel maestro e nell’allievo ha assunto pertanto la connotazione propria di un famoso racconto secondo il quale, al viandante in cui si è imbattuto, il freudiano domanda: “da dove vieni?”, mentre lo junghiano: “dove vai?” “Così, nel modo più naturale, nacque in me il proposito di fare la conoscenza del mio mito e considerai ciò come mio compito precipuo, giacché – mi dicevo – come potevo di fronte ai miei pazienti fare il debito conto del mio fattore personale, della mia equazione personale, pur tanto necessario per la conoscenza degli altri, se io stesso non ne ero consapevole?” (C. G. Jung).

  • Il Rito. Una seconda struttura conservativa, individuata da Jung, è il Rito che conferisce un’alta tonalità affettiva di sacralità al gesto, al luogo e alle persone; a condizione di una grande fede in una causa divina, magica o spirituale. “Non posso tornare alla chiesa cattolica, non posso sperimentare il miracolo della messa; so troppo al riguardo. So che è la verità, ma la verità in una forma che non posso più accettare” (C. G. Jung). Il rito rappresenta una sorta di dramma esistenziale in forma ridotta. Al suo interno non c’è alcun concetto di tempo. È una condizione senza tempo in cui l’inizio, la fase mediana e la conclusione sono la stessa cosa, sono tutte comprese in una singola unità. L’uomo nasce con uno specifico modello operativo, una specifica modalità operativa, uno specifico modello di comportamento che si esprime mediante immagini o forme archetipiche.

  • L'Archetipo è forse la più importante struttura conservativa di energia dell’intervallo di sostenibilità psichica. Un archetipo descrive la condotta che un uomo dovrebbe seguire. Alcuni suoi meccanismi ricorsivi sono costituiti dalle storie raccontate dai primitivi. Altri sono rappresentati dall’istruzione, che pure viene impartita mediante la narrazione di storie. Altri meccanismi ricorsivi sono ancora i racconti mitologici oggi addirittura mediatici e non più soltanto riferiti al passato, ma anche al futuro e principalmente alla mitologia del presente che la comunicazione di massa comunque produce.. Nei miti troviamo i modelli di uomini distinti, di eroi leggendari e di valore i quali ci insegnano come comportarci: sono archetipi, archetipi di comportamento. Solo quando si è vissuti in condizioni estreme, primitive, moderne o future, nella foresta primordiale, nella giungla urbana o negli spazi intergalattici oscuri, tra le popolazioni ignote e persone minacciose, si è catturati da una specie di incantesimo e si agisce in maniera inaspettata. L’archetipo è una potenza, ha una sua autonomia e può impadronirsi di noi all’improvviso. È come una crisi epilettica, come ad esempio, innamorarsi a prima vista: si ha una certa immagine di se stessi e la si proietta, senza saperlo, in una donna in particolare. Dove è contenuta quella immagine inattesa di sé, quell’anima che si proietta su di Lei? In una struttura conservativa di energia, nell’archetipo. Improvvisamente compare quella donna che è la proiezione femminile del nostro Sé e all’improvviso si perde la testa, finché poi non si scopre che è stato soltanto un grave errore di prospettiva. La struttura conservativa in cui è conservata l’energia che ha determinato la proiezione e permesso il rapimento è l’archetipo dell’anima. L’archetipo, come ogni struttura conservativa, ha sempre rappresentato la sedimentazione, la cristallizzazione della energia trasmessa dalle esperienze degli avi. È sempre stata di natura ereditaria. Oggi quella stessa energia è senza tempo, prodotta mediaticamente in un presente infinito. Ora come allora questa energia che conserviamo in strutture interne, non è l’esperienza in sé che ci viene trasmessa, ma le categorie logiche, aprioristiche, che rendono possibili le esperienze individuali. “Io concepisco come archetipo ... una qualità strutturale o condizione che è caratteristica della psiche legata in qualche modo con il cervello”. L'equilibrio nell’intervallo di sostenibilità è il presupposto della salute psichica, ed è garantito dalla funzione regolativa delle strutture conservative psichiche, che Jung chiama “compensazione”. Quando nell’organizzazione della psiche saltano le strutture conservative l’energia liberata incrementa l’entropia e un elemento prevale sull’altro (un eccesso di razionalità, di introversione, di estroversione, ecc.). In questo caso è tramite l’analisi dei sogni, specie se contrastanti, o ansiogeni o sintomi neurotici o, infine, episodi psicotici, che possiamo ricostruire le strutture conservative che hanno la funzione di ristabilire l’equilibrio all’interno dell’intervallo di sostenibilità psichico.
  • La Sincronicità (o il quarto escluso oltre il tempo, lo spazio e la causalità) è la struttura conservativa che si riferisce alla relatività spazio/tempo. Nel 1952 Carl Gustav Jung introdusse il concetto di sincronicità, studiato e discusso insieme al fisico Wolfgang Pauli, premio nobel per il “principio di esclusione”. L’influenza della fisica teorica in questo caso è dichiarata. Alcune “coincidenze” significative (fenomeni psichici e fatti reali) avevano incuriosito Jung. Egli aveva notato che alcuni eventi identici possono accadere nello stesso tempo in spazi diversi o nello stesso spazio in tempi diversi, senza che ci fosse una ragione spiegabile per la loro esistenza. Pensò che fosse possibile l’esistenza di una situazione al di fuori dello spazio e del tempo noti, in cui gli eventi accadevano senza un nesso di causalità. E senza il nesso di casualità. Uno spazio/tempo, non vuoto, ma collocato in un altrove indefinito. “La sincronicità è un tentativo di porre i termini del problema in modo che, se non tutti, almeno molti dei suoi aspetti e rapporti diventino visibili e, almeno spero, si apra una strada verso una regione ancora oscura, ma di grande importanza per quanto riguarda la nostra concezione del mondo”. Nei suoi scritti sulla “Teoria della Sincronicità” Jung collega il concetto di sincronicità richiama due argomenti psicologicamente rilevanti. In primo luogo, il tempo soggettivo, che ci permette di comprendere gli eventi sia su categorie logico-razionali della coscienza costruite in uno spazio-temporale coerente e precisi nessi causali, sia fuori dal tempo e dallo spazio, senza logica formale e senza principio di non contraddizione, secondo le leggi dell’inconscio, nelle modalità simboliche, affettive e non razionali di funzionamento della mente umana. In secondo luogo, i paradigmi costruttivisti, o come diremmo oggi la logica della complessità, che rifiuta la linearità causa-effetto, per il quale gli eventi sono percepiti gestalticamente, privi di oggettività epistemologica ma oggettivabili sulla base del confronto critico tra punti di osservazione diversi della realtà. La nostra percezione gestaltica sostituisce il nesso causa/effetto con il nesso interiorità/esteriorità, lo stato psicologico con il fatto reale. La semantica di un evento, cioè il significato “extrasensoriale” attribuibile, è comunque frutto della coloritura emotiva con cui lo viviamo, cioè dei significati attribuiti soggettivamente e inconsapevolmente. Nel nostro mondo ormai mente e corpo sono solo artificiosamente separate[1]. Poiché l’osservatore è sempre interno e influente rispetto all’oggetto osservato, noi non possiamo mai stabilire, come vorrebbe davvero Popper, un principio di demarcazione tra fatti oggettivi ed eventi vissuti. Possiamo soltanto avere, nella complessità cognitiva del mondo moderno, “sistemi osservanti”[2], nella consapevolezza di essere irriducibilmente interni all’oggetto osservato e soggetti che inevitabilmente contribuiscono a definirlo. Non esiste, dunque, una “coloritura neutra”, ma sempre e soltanto “vissuti soggettivi”, un personale sistema di significati. Pertanto ciò che ci accade racconta inevitabilmente qualcosa di noi stessi e di ciò che stiamo vivendo. “Il tempo è un fanciullo ― che gioca a dadi ― il regno (è) del fanciullo. Questi è Telesforo, che vaga per le oscure regioni del cosmo, e dal profondo risplende come una stella. ― Indica la via alle porte del sole e alla terra dei sogni”. Alla fine, la sincronicità di Jung è una struttura conservativa di energia oltre il tempo e la ragione, oltre ogni causalità. Il rapporto tempo/causalità è interrotto dal fatto che il presente non è soltanto una funzione del passato, ma anche del futuro (teleologia). Una logica lineare di ordine causale è senza futuro e conduce l’uomo alla disperazione. In una logica causale l’uomo è irrimediabilmente imprigionato nel passato. Il finalismo teleologico, invece, offre all’uomo una speranza eduno scopo per vivere. “Quanto più domina la ragione critica, tanto più la vita si impoverisce; ma quanto più dell'inconscio e del mito siamo capaci di portare alla coscienza, tanto più rendiamo completa la nostra vita”. L’ipotesi di Jung sulla sincronicità è plausibile. Tuttavia è altrettanto plausibile considerare che la sincronicità come una meta-comunicazione. Per Watzlawick[3] esiste una ridondanza comunicativa che noi percepiamo molto parzialmente. Alcuni animali hanno percezioni comunicativa a frequenze molto superiori e più alte delle nostre. È altrettanto plausibile dunque ritenere che nella evoluzione della sua logica, l’uomo possa raggiungere una nuova dimensione. Finora siamo passati da una logica endofasia, basata sulla analogia, alla dimensione logica formale, basata sul principio di non contraddizione, alla logica computazionale, basata sulla relazione vero/falso, alla logica quantistica, basata sugli intervalli cognitivi[4]. Potrebbe esserci una quinta dimensione logica, ancora a noi ignota che consenta una meta-comunicazione a frequenze superiori che assuma la forma della sincronicità. Anche questo approccio è plausibile. O sono plausibili, più di tutti, entrambi gli approcci integrati. Un lavoro ancora da fare.


Conclusione
Il sottile filo di ragno che evita al mondo di sprofondare nella catastrofe è, per Jung, la psiche umana. Per molti anni e ancora oggi siamo stati minacciati da diverse forme di catastrofi naturali, allora belliche, oggi terroristiche. Al fondo, per Jung, c’è sempre l’uomo e la sua psiche. Tutto deriva da lì perché l’essere umano è una realtà in sé e non nasce come tabula rasa. 

La psiche e il suo inconscio; quell’inconscio che regola la vita dell’essere umano come dato originario, primordiale, antropologico, presente prima ancora della coscienza, più antico e dunque più determinante. L’inconscio plastico e dinamico, che ha una funzione pre-logica, logica e teleologica, cioè relativa al passato, al presente e al futuro. L’inconscio che genera la coscienza di ciascuno di noi e che, pertanto, è creativo, innovativo e pieno di presagi di futuro. L'inconscio personale che orienta le strutture mentali di ciascuno di noi, i cui contenuti non hanno spazio nella mente conscia; oppure sono incompatibili con la coscienza perché spiacevoli e quindi sono stati rimossi; oppure sono stati dimenticati perché collocati al di sotto della soglia della coscienza. 

La psiche e i suoi complessi; che, assieme alle esperienze rimosse (perché deboli, talmente fragili da non essere in grado di imprimere una traccia cosciente nella persona) indicano la tonalità affettiva comune di un attivo contesto psichico unificando i molteplici elementi, come ad esempio, i sentimenti, i pensieri, le percezioni, i ricordi. Infatti, nell’accezione scientifica di Jung i complessi sono insiemi strutturati di rappresentazioni, consce e inconsce, dotate di una carica affettiva. La psiche umana è un contenitore indeterminato e indeterminabile di complessi. Tra i tanti, l’unico che ha appannaggio della coscienza è lo stesso “Io”, considerato giustamente il complesso tra i complessi perché è inevitabilmente connesso con tutti gli altri. Quando la connessione è forte, l’Io dirige i nostri comportamenti e le nostre azioni bilanciando i complessi. Quando invece la connessione si indebolisce o si spezza, gli altri complessi si sentono liberi di scaricarsi sulla persona, diventano autonomi, inconsci, e condizionano le nostre azioni, producono dissociazione, anomia e disagio psichico. Non c’è qui, come per Freud, la dominanza del complesso edipico sugli altri. Per Jung esiste una molteplicità affiancata (anche se non paritario) di complessi. A ciascuno di essi può essere attribuito un simbolo che ha valenza trascendentale e che, proprio perché trascende la concreta realtà, diventa il presupposto di una progettualità creatività del soggetto. 

La psiche e i suoi simboli, i suoi segni e i suoi significati. Per Freud il simbolo era un segno, che precede il concetto. L’incapacità del bambino di concettualizzare lo induce a denominare le cose con i versi e con i suoni, magari con un verso che accomuna tutte le cose animate e inanimate. Il simbolo di Freud è allora una denominazione priva di concettualizzazione estesa a tutte le cose, compresi i genitali maschili e femminili. I simboli così definiti restano occulti, depositati nello strato infantile della psiche adulta. Quando successivamente si esprimeranno verranno decodificati per quel che rappresentavano prima di essere depositati. Quindi anche nell’adulto, ad esempio e riduttivamente: “torre” simboleggia per Freud infatti “fallo”, “cantina” significa “vagina”. Torre, fallo, cantina, vagina, sono simboli soggetti alla dinamica dei tempi e alle esperienze generazionali dell’inconscio delle persone. Per Jung, invece, poiché l’inconscio è spazio senza tempo, “torre" significa “orgoglio”, “isolamento”, “difesa verso l’esterno”; “cantina” significa “oscurità”, “maternità”. Concetti senza tempo. Per Jung il significato simbolico dell’oggetto è un estratto di qualità immanenti percepite: come ad esempio la sua spazialità, la sua funzione, etc.. Freud tende a restringere il “simbolo” alle sue premesse semantiche. Per Jung il “simbolo” non è l’abbreviazione semantica di un concetto. Il simbolo è la percezione estesa che estende, a sua volta, il significato del simbolo per comparazione, cioè osservando cioè immagini simili (es. di difesa, orgoglio, oscurità) che occupano la mente del paziente e del suo analista. Freud cerca la logica della psiche e la segmenta in componenti razionali (lobotomizzazione psichica). Per Jung i simboli sono i contenuti fondamentali della psiche umana e non possono essere interpretati come “segni” (sostituibili da formule razionali), ma soltanto come immagini dei grandi fenomeni dell’esistenza, (la maschilità, la paternità, la femminilità, la maternità, l'infanzia, la crescita, l'amore, la morte). Ciò che il pensiero rende in termini astratti, è raffigurato dall’Inconscio con immagini concrete. Il simbolo, per Jung, ha una certa plusvalenza, contiene sempre un valore di più di quanto non sia traducibile con la razionalità. Non si può dunque, freudianamente ridurre il simbolo al pensiero razionale. Bisogna estenderne l’immagine, amplificarla alle sue repliche nei miti e nelle religioni dei popoli. Il simbolo rappresenta una moltitudine di immagini che sono tutte l’espressione di un modo di essere, la cui interpretazione è tradita da ogni restrizione concettuale. Se Freud conduce il paziente, Jung lo segue dentro il percorso della sua vita, lungo le strade che portano a sé, al senso della propria esistenza. Le immagini sono energia e non un sintomo psichico di “meccanismi” genetici. I simboli di Jung sono “trasformatori di energia psichica”, mediatori cognitivi fra l'Inconscio personale e quello collettivo, da uno stato puramente energetico a uno formale o strutturale;. Essi permettono all’individuo di vivere la propria personalità, con tutte le sue varianti individuali, entro le situazioni tipiche dell’umano; impedendo la regressione, che “con la nascita del simbolo... si trasforma in progressione”. Lo sforzo della coscienza di comprendere il simbolo propone alternative interpretative di ordine dialettico che si sintetizzano (coincidentia oppositorum) in una soluzione da proporre al paziente per le sue scelte. “Se ciò non avviene”, spiega Jung, “allora il processo d'individuazione va avanti lo stesso, solo che noi ne diventiamo le vittime, veniamo trascinati dal destino verso quelle mete, che avremmo potuto raggiungere a statura eretta se avessimo avuto la pazienza e il tempo di comprendere i numina del cammino fatale”.

La psiche e la persona, la maschera con cui copriamo le nostre paure per relazionarci con la società. La personalità è acquisizione di ruolo, quello che ciascuno di noi svolge perché gli viene conferito dalla organizzazione sociale, sia essa comunità, società, sistema o network. La persona è pubblica, esterna ed esteriore, così come l’individuo si rivela al mondo, contro la personalità "familiare" o intima, raccolta dietro la facciata sociale. Le maschere dell’auto-identità, come le ha definite Jung, necessarie a nascondere all’individuo il suo vero Sé, ma, al tempo stesso, indicative degli elementi comuni che esistono tra tutti gli individui, ruoli e convenzioni imposte attraverso la società a tutti. Anche in questo caso il dominus è l’energia. La dinamica della personalità consuma energia in un sistema parzialmente chiuso che assorbe energia aggiuntiva dall’ambiente esterno, da fonti esterne (come ad esempio il mangiare). La personalità è il volto della estroversione. L’estroversione è la libido diretta prevalentemente verso l’esterno. Nella logica dialettica di Jung esiste anche una libido orientata verso l’interno. Non è il concetto di libido di Freud, un concetto collettivo relativo alle tendenze sessuali dell’uomo. Per Jung la libido è energia psichica che spinge l’individuo verso l’introversione o verso l’estroversione.

La psiche e la psiche, con se stessa, con il proprio linguaggio figurativo e mistico, con il proprio Io, con la propria mente cosciente, con il proprio inconscio e le sue resistenze, con la propria capacità di superare i problemi, di recuperare se stessi in toto alla scoperta della vita, che è la reale ricchezza della vita.





[1] Bukowski Charles,
[1] “Qui si trova la media, scomoda pietra del filosofo, di prezzo molto economica. Più è disprezzata dagli sciocchi, più amata dai saggi.”
[2] “Il tempo è un bambino - giocando come un bambino - giocando un gioco da tavolo - il regno del bambino. Questo è Telesforo, che percorre le regioni oscure di questo cosmo e si illumina come una stella fuori dalle profondità. Lui punta la strada alle porte del sole e alla terra dei sogni”.
[1] DI LASCIA Maria Teresa, Pssaggio in ombra, Feltrinelli, Milano
[2]DI CESARE Donatella, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pag. 16
[1] RUSSELL Bertrand e WHITEHEAD Alfred, Principia Mathematica, Newton Compton, Milano 2008
[2] CECI Elvio, Quattro dimensioni logiche del fenomeno, PDF, https://www.academia.edu/5059227/Quattro_dimensioni_logiche_del_fenomeno
[1] Luigi Solano, Tra Corpo e mente, 2001
[2] Umberta Telfener, Apprendere i contesti, 2011
[3] Watzlawick Paul, Beavin Janet Helmick, Jackson D. Don, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971
[4] CECI Elvio, cit. 2018

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