4 - Epistemica della Intelligenza Artificiale

 

maggio duemilaveniquattro

 

Non credo che Jean Piaget, quando sostenne che “l’intelligenza organizza il mondo organizzando sé stessa[1], pensasse all’intelligenza artificiale.

L’affermazione sintetizza molto bene il complessivo elaborato della sua epistemologia e, difatti, comparve in un testo, per noi, del 1979, pochi anni prima della sua morte; avvenuta ad 84 anni il 16 settembre del 1980. In quel periodo, come tutti Piaget, cercava una sintesi conclusiva del suo lavoro. Inutilmente, perché una sintesi conclusiva non c’è mai, per nessuno. In ogni caso, egli intendeva sostenere che siamo noi i fenomeni, costantemente in simbiosi, più o meno pervasiva, con il nostro habitat.

Secondo l'epistemologo Ernst con Glasersfeld, Piaget, assieme a molti altri autori, da Eraclito a Dewey, è un significativo esponente del “costruttivo radicale”; di quel paradigma teorico che, in estrema sintesi, sostiene la fondante azione umana nella fondamentale cognizione della realtà. In altri termini il problema è: siamo noi a costruire la realtà o è la realtà a formare noi? Il “costruttivo radicale” attribuisce a noi la responsabilità (o addirittura la esclusiva possibilità) di conoscere e generare - generare perché lo si conosce - l’esistente noto. Siamo noi che costruiamo ciò che sappiamo.


Un po’ meno certo di essere un costruttore del conosciuto e, peggio ancora, del conoscibile, ho preferito utilizzare il concetto di “simbiosi” proposto alla letteratura scientifica da Lynn Margulis. Viviamo, cioè, in reciproca connessione, noi, il nostro habitat e l’ambiente. Noi siamo un coacervo di esperienza e conoscenza, psiche, logica e fisicità, la dialettica irrefrenabile tra desiderio e godimento, come diceva Lacan. Il nostro habitat è, invece, la multifunzionale integrazione tra azione, relazione, organizzazione e tecnologia che nella storia ha assunto di volta in volta la forma idealtipica di comunità, società, sistemi e network. L’ambiente è tutto il resto, la fisica di ogni fenomenologia nella sua dimensione caotica, complessa o semplice.

Però, non aveva torto Jean Piaget a collegare irreversibilmente la costruzione della nostra intelligenza alla organizzazione della nostra esistenza. Solo che lui non considerava assolutamente l’intelligenza come un artificio, non artefatto, non artificiosa e non artificiale, ma naturale, nella sua insostituibile dimensione biologica e sociale.

Da qualche anno sappiamo che è proprio così.

Circa dieci anni fa, gli scienziati del King’s College di Londra, in una ricerca denominata “Molecular Psychiatry”, hanno sostenuto di aver identificato uno dei cosiddetti “Geni dell’intelligenza”. In realtà, non è proprio così e gli stessi ricercatori hanno subito indotto alla cautela. Loro hanno scoperto soltanto una porzione del codice genetico che ancora giustifica le dimensioni, in termini di spessore e di estensione, del cervello; ma la quantità della materia grigia non corrisponde automaticamente al livello della nostra intelligenza. La nostra intelligenza in realtà è la risultante della triangolazione di molteplici fattori genetici, di habitat e ambientali.

La stessa scoperta, forse epistemologicamente più giustificata, è stata realizzata dagli scienziati americani della Yale School of Medicine che, dopo aver compiuto diverse analisi genetiche, hanno individuato una lieve variazione di appena due lettere di un singolo gene LAMC3 negli oltre tre milioni dell’alfabeto genetico umano. LAMC3 consentirebbe lo sviluppo dell’intelligenza potenziale del cervello umano, in qualità di primarie connotazioni come, ad esempio, il ragionamento razionale e astratto, la memoria, l’attenzione e lo stato vigile, il pensiero, il linguaggio e la coscienza. LAMC3 avrebbe dovuto, con evidenza clinica, con simili variazioni riscontrate in altri pazienti nella medesima condizione clinica, risolvere il mistero della genesi e della evoluzione (o della involuzione nella malattia) dell’intelligenza umana. Non lo ha fatto.

Da allora ad oggi, ciclicamente spunta qualche scienziato che, con intollerabile atteggiamento lombrosiano, ha scoperto il gene dell’intelligenza, della timidezza, dell’arte, dell’autismo, dell’omosessualità, della criminalità, della predisposizione a quella o quell’altra malattia. Non basta, infatti, uno sperimentale screening genetico per conoscere l’essenza della nostra esistenza. Non basta la clinica e, principalmente, non si può lobotomizzare la vita per comprendere la vita. Il fenomeno è come appare[2]. Se lo scompongo non è più lo stesso fenomeno; decostruendo le parti si rischia di perdere le connessioni formative che determinano la complessità fenomenologia dell’esistenza.

La genetica non riesce spiegare da sola la nostra intelligenza[3].

Figurarsi se può farlo la tecnologia.

La nostra intelligenza in realtà è la risultante della triangolazione di molteplici fattori genetici, di habitat e ambientali.

Chiara Valerio racconta[4] che Lev Davidovič Landau, premio Nobel per la fisica nel 1962 e Medaglia Max Planck nel 1959, affermava che non importa cosa sia che muove le cose. Egli “definisce forza ciò che fa cambiare” lo stato delle cose. E Lei conclude: “La forza è la causa ma noi viviamo immersi negli effetti”. Quanto è distante questa interpretazione dalla affermazione di Piaget del 1979 in cui si considera la intelligenza che cambia le cose e riorganizza il mondo per riprodurre sé stessa in modo sempre più ampio e pervasivo.  

Quanta distanza c’è tra questa percezione di una fenomenologia strutturata sul rapporto causa/effetto e invece la percezione di Piaget che ci ha trasmesso l’immagine di una intelligenza che ci avvolge. E ci coinvolge. Non una quantità che sta dentro di noi, conteggiabile in un qualsiasi test, ma una qualità che sta intorno a noi. Siamo tutti dentro l’intelligenza del mondo. E invece noi, contrariamente abbiamo sempre pensato e ancora pensiamo che l’intelligenza sia contenuta in una scatola, sia essa cranica o metallica. Abbiamo sempre pensato che l’intelligenza fosse, talvolta anche oltre il connotato fisico, organico, un modo di interpretare le cose, una azione cognitiva verso le cose. 

Secondo Luciano Floridi, l’Intelligenza Artificiale “è una nuova forma di agire [5]. Personalmente preferisco sostenere che sia un nuovo modo di re-agire. La differenza sembra piccola, fors’anche banale, ma non lo è affatto. Si tratta di una classica biforcazione: più procediamo verso una migliore comprensione e più percepiamo le distanze. 

Secondo Luciano Floridi, l’Intelligenza Artificiale “è una nuova forma di agire [6]. Personalmente preferisco sostenere che sia un nuovo modo di re-agire. La differenza sembra piccola, fors’anche banale, ma non lo è affatto. Si tratta di una classica biforcazione: più procediamo verso una migliore comprensione e più percepiamo le distanze.

Secondo Luciano Floridi, inoltre: “Una maggiore potenza di calcolo e una maggiore quantità di dati hanno reso possibile il passaggio dalla logica alla statistica. Le reti neurali che erano interessanti da un punto di vista teorico [...] sono diventati strumenti ordinari nell'ambito dell'apprendimento automatico. La vecchia IA era per lo più simbolica e poteva essere interpretata come una branca della logica matematica, ma la nuova IA è principalmente connessionista e potrebbe essere interpretata come una branca della statistica. Il principale cavallo di battaglia dell'IA non è più la deduzione logica ma l’inferenza è la correlazione statistica.”[7].

Ora, siamo sicuri che: apprendimento automatico, connessione, inferenza e perfino correlazione siano “una branca della statistica”?

Forse no.

Certamente non siamo più soltanto nella logica matematica, e non più nemmeno soltanto nella logica computazionale. Oggi siamo anche, se non principalmente, nella logica quantistica e questo è, come diceva Marcel Mauss, “un fatto sociale totale[8] della nostra epoca e non la tecnologia. Se questo è corretto, come ovviamente credo, tutto, anche l'IA, deve essere considerata, non una semplice azione[9], ma una relazione[10]

Riflettiamo.

Agire è una spinta, un moto proprio, autonomo anche solitario.

Re-agire presuppone una relazione, una risposta, un feed-back, un rapporto almeno tra due.   

È la stessa differenza che c’è tra informazione e comunicazione. L’informazione è un’azione, un flusso anche indipendente da chi ascolta, una press ione che tenta di omologare e talvolta anche asservire l’audience a sé, di trasformare il cittadino in utente, come fa la televisione. La comunicazione, invece, è un feed-back, presuppone una relazione, la risposta dell’altro, definisce un network di scambi semantici sebbene spesso su una comune sintattica, su una reciproca piattaforma di confronto, come accade per i social.

È una differenza che fa tutta la differenza.

La conoscenza, per come l’abbiamo considerata finora, nelle scuole e nei media, è pura informazione, la nostra possibilità di agire, il nostro andare verso le cose in modo unidirezionale.  Infatti, Edmund Husserl consigliava una epistemologia che si riferisse alle cose stesse, così come sono, come le percepiamo.


L’Intelligenza Artificiale oggi offre agli umani di tornare alla loro competenza comunicativa, ci offre la possibilità di re-agire nella crescente complessità dell’esistente. Una complessità, nonostante i molteplici nostri irrefrenabili tentativi, inafferrabile nella sua interezza, ma che ci avvolge, ci circonda

E, dunque, ci consente di reagire, cioè di entrare inevitabilmente in una relazione multidimensionale e sempre biunivoca con il nuovo mondo, perché l’Artificio Tecnologico simula l’Intelligenza solo quando, come noi, entra in relazione con l’uomo, con il suo habitat e con l’ambiente. Altrimenti resta un sofisticato contenitore di dati. Per questo motivo non possiamo identificare l’IA con una macchina, con un robot, o con uno o più algoritmi. L’IA si definisce e si evidenzia, piuttosto, in modo diffuso, in una serie di connessioni tra poli, e di vuoti entro cui può sprofondare la nostra solitaria individualità se non addirittura la nostra intera civiltà. L’IA è un network a morfologia variabile, come dico io, che viene di volta in volta ri-clusterizzato e ri-assemblato, in funzione delle nostre esigenze problematiche. L’IA non si restringe a un processore. Si diffonde nell’ovunque, è la nostra stessa intelligenza ri-organizzata, non una intelligenza-altra, esterna ed estranea a noi; come scrive Francesco Parisi[10], le nuove tecnologie dell’IA siamo noi che ci avvaliamo di una serie di strumenti utili alla governance della nostra complessità. Perché il vero artificio del mondo che conosciamo è la nostra intelligenza, non quella delle macchine.    Ciò che non sappiamo fare, tutte le nostre paure, non derivano dalla invadenza o dalla invasione di macchine incontrollabili, ma dalla nostra incapacità di vivere con una intelligenza che ci avvolge. E inevitabilmente ci coinvolge. La nostra conoscenza non deve riferirsi alle cose stesse per una migliore oggettivazione, deve sapersi connettere imparare a vivere nelle cose stesse per una più opportuna giustificazione. Il fatto sociale totale della società della comunicazione in cui siamo ormai definitivamente immersi non è la IA, ma l’acquisizione della logica quantistica la quarta dimensione cognitiva dell’umano.

Essere nelle cose stesse significa essere in simbiosi con i fenomeni della nostra esistenza passata, presente e futura. La logica quantistica è il connotato di questa nuova epoca e si mostra e si dimostra anche nella Intelligenza Artificiale. Ciò che davvero temiamo è la capacità di acquisire e fronteggiare questa nuova dimensione dell’umano e trasferiamo nelle macchine, il simbolo e il simulacro della nostra impotenza. Noi non agiamo ma re-agiamo perché siamo, siamo sempre stati, in simbiosi con i fenomeni che ci travolgono, la complessità che ci preoccupa è vivere nelle cose stesse. Non c’è niente distante da noi. Noi siamo dentro il divenire del mondo, dentro la sua complessità e temiamo, profondamente temiamo, che ci travolga. Denunciamo, con la preoccupazione degli strumenti, la paura della nostra profonda inadeguatezza.  La logica quantistica ci induce a capire che, per esistere (e a maggior ragione per resistere), dobbiamo saper essere nelle cose stesse. In simbiosi con il mondo[13].


Per prima Lynn Margulis ha indicato nella simbiosi del mondo (e non la simmetria con il mondo) l’elemento centrale della evoluzione di tutte le specie viventi note. L’ha denominata endosimbiosi. Ha contestato il paradigma darwiniano basato sul processo di adattamento come rapporto singolare individuo/natura. Per Lynn Margulis l’evoluzione è il prodotto di generali interconnessioni, l’endosimbiosi è una condizione sociale rafforzata dalla interazione cooperativa interna al gruppo dei pari, una “dipendenza mutuale”. “La vita – afferma – non colonizzò il mondo attraverso il combattimento, ma per mezzo della interconnessione[14]. È questo già un primo approccio di logica quantistica, che interpreta i fenomeni che percepiamo, non sulla base delle regole deterministiche della simmetria, ma sulla base dei principi stocastici della simbiosi. “Noi viviamo insieme (dal greco symbiôun), tutti, in ogni dimensione del vivente e anche del non vivente. Nessu­no può sopravvivere senza l’altro, senza l’habitat, senza l’ambience, senza l’ambiente. Siamo obbligati da una relazione tra simbionti, siamo immersi in una simbiosi universale.[15]

Se il mondo cambia il mondo cambiamo anche noi, in un equilibrio relativo raggiunto per caso e necessità, acquisiamo i connotati cognitivi e logici di “uno dei possibili equilibri raggiunti all’interno dell’intervallo simbiotico della vita[6].


Il mondo cambia e dal mio punto di vista è cambiato già 4 volte[17].

Intanto dobbiamo distinguere tra mutamento e mutazione.

Per mutamento si intende un cambiamento del fenotipo sociale. Come e più dei singoli organismi le società hanno una serie di caratteri e di caratteristiche, come ad esempio l’aggregazione familiare, gli usi, i costumi e, in generale, i comportamenti personali e collettivi, che sono percepibili e osservabili. La sociobiologia contemporanea distingue questi caratteri in fenotipi negativi, quelli che cadono in desuetudine e tendono a scomparire nel corso degli anni, e i fenotipi adattativi, quelli che si riscontrano nell’habitat, si propagano rapidamente come moda, restano come background culturale e si solidificano in tradizioni. In ogni caso, il mutamento di una qualsiasi organizzazione è sempre un cambiamento fenotipico.

Per mutazione, invece, si intende un cambiamento del genotipo sociale. Infatti, il cambiamento del genotipo non modifica i caratteri di una determinata organizzazione, ma la sua connotazione. Si tratta di un cambiamento dei geni sociali, di una trasformazione strutturale del DNA di una determinata società. Ad esempio, il modello di vita degli umani passa da migrante a sedentario, da agricolo a industriale, da fisico a bionico. Una mutazione cambia dunque definitivamente il corredo genetico di un contesto politico o di una determinata società.

I gruppi similari sono quelli che hanno lo stesso genotipo, pur avendo diverso fenotipo. In sociobiologia, ad esempio, la democrazia francese ha lo stesso genotipo dalla democrazia americana, pur avendo un diverso fenotipo. L’epigenetica insegna che con il tempo (cioè con la consuetudine, che consiste nel depositare in modo ricorrente energia-informazione da una funzione – fenotipo – ad una struttura – genotipo) è possibile che il fenotipo modifichi il genotipo di un qualsiasi soggetto vivente (sia esso organismo, organizzazione, sistema o network), come essenziale processo di adattamento all’ambiente (epigenetica). Se il soggetto vivente non si adatta rischia l’estinzione. Possiamo sostenere, dunque, che a cicli ricorrenti (e, in termini sociali, in intervalli di tempo decrescenti) un soggetto vivente qualsiasi è sottoposto a mutazioni genotipiche per contenere il surplus di energia-informazione (entropia) che i mutamenti fenotipici (funzioni) trasmettono al corredo genetico (struttura), nella dinamica relazionale con l’habitat e l’ambiente, per adeguarsi al processo di adattamento e garantire la propria sopravvivenza. Un soggetto vivente qualsiasi; sia esso un organismo, una organizzazione, un sistema o un network.

Di mutazioni ne ho individuate solo quattro[18], e tutte scatenate sempre dallo stesso cromosoma, quello che porta più chiaramente di altri l’intera informazione genetica, l’unico in grado di governare, di equilibrare o squilibrare, il processo di adattamento: il potere. Con un linguaggio più evocativo le ho chiamate le quattro cosmogonie del potere, quelle mutazioni cioè che ridefiniscono interamente i rapporti con l’universo, il cosmo delle regole e delle regolazioni, la complessità delle relazioni fenomenologiche in cui siamo immersi:

1.     dalla conquista della posizione retta alle piramidi egiziane, l’avvento dell’ontopower, il potere ontologico della sopravvivenza, l’epoca della logica endofasica;

2.     da Narmer, primo faraone della prima dinastia egiziana, alle grandi rivoluzioni americana, francese, inglese (e, forse, quella più distante e reattiva russa), l’avvento dell’egopower, il potere egocentrico dell’autorappresentanza, l’epoca della logica formale;

3.     dalla rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino, in soli duecento anni profondissimi di storia, in cui siamo passati (per traumi sconvolgenti) dal cavallo al missile, l’avvento del biopower, il potere del controllo della vita, la cura, la tutela, la gestione dalla culla alla bara, l’epoca della logica computazionale;

4.      dal crollo del muro e delle torri a noi, l’avvento dell’epipower, il potere epistemologico dell’autorappresentazione, la verità che produce realtà e anche la realtà che induce verità, la società della comunicazione e l’intelligenza collettiva, l’ologramma della conoscenza e le minacce di omologazione, l’epoca della logica quantistica.

Quattro solo quattro mutazioni, in una dinamica del potere che è sempre la stessa: garantire la propria vita, dalla sopravvivenza (ontopower) alla cura (biopower), e governare l’ambiente, dalla rappresentanza (egopower) alla rappresentazione (epipower).



Il punto è che ogni mutazione trasmette a noi (o noi acquisiamo simbioticamente da essa) una dimensione logica. Dalla prima mutazione, quella della conquista della posizione alla formulazione di concettualizzazioni prescientifiche e del mito, abbiamo simbioticamente acquisito la logica endofasica, costruita interamente sulla analogia empirica, un pensiero pre-razionale che concepiva il mondo come un qualcosa di indifferenziato, totalmente privo del principio di non contraddizione aristotelico. Dalla seconda mutazione, quella della rivoluzione agricola e della formazione di strutture architettoniche e sociali di ordine gerarchico/piramidale, abbiamo simbioticamente assorbito una nuova dimensione logica, la logica formale, con l’acquisizione del principio aristotelico di non contraddizione, il primo pensiero razionale. Con l’avvento della Rivoluzione Industriale abbiamo assistito alla nascita dei computer, grazie ai principi della logica computazionale, inventata da Alan Touring. È la logica che giustifica i nostri computer e il loro linguaggio, cosiddetto Lambda calcolo, i cui una proposizione è determinatamente vera o determinatamente falsa, se corrisponde o meno alla realtà. 

La narrazione predominante è, tuttavia, impressionante. Di fronte alla quarta mutazione della storia intera dell'umanità, l'avvento della società della comunicazione, il cui “fatto sociale totale” è l'acquisizione della nuova dimensione della LOGICA QUANTISTICA (di cui scrivo inutilmente da anni), gli analisti del mondo si occupano e preoccupano di INTELLIGENZA ARTIFICIALE. Questi analisti andrebbero analizzati, perché occuparsi e preoccuparsi della nuova TECNOLOGIA piuttosto che della nuova LOGICA è l'esempio più emblematico ed evidente di stupidità naturale.

Spiego meglio.

Mauro Ceruti e Francesco Bellusci[19], mutuando in qualche modo la interpretazione dialettica di Aldo Gargani[20], rappresentano l’evoluzione della conoscenza umana (e forse della sua intelligenza) come lo scontro tra ragionevolezza e razionalità; cioè “periodizzazione della modernità” distinta in due momenti: “una «prima modernità», caratterizzata dall’umanesimo rinascimentale, e una «seconda modernità» segnata dall’egemonia del razionalismo seicentesco[21]. Insomma: da una parte, il ragionevole umanesimo; dall’altra, il razionale illuminismo. La sintesi proposta da Cerruti e Bellusci è il ritorno ad una sola Ragione, che unisca gli opposti in una nuova dimensione cognitiva, dentro una epistemologia che ci aiuti a pensare diversamente il futuro, dentro una lebenswelt, come reclamava Husserl[4], che ci permetta di “danzare con il pianeta vivente[22]; una conoscenza scientifica, cioè, che non destabilizzi l’umano, ma che anzi iscriva sé stesso “in una relazione di codefinizione, di cotrasformazione e di coemergenza con la natura[23].

Cerruti e Bellusci, alla fine, fanno ciò che ci sconsigliano di fare, attestano ciò che contestano; cioè una sintesi hegeliana banale in cui religiosamente scompare ogni limite, tutte le divergenze sanate, in una magica era della nuova conoscenza umana. Alla fine, dunque, Cerruti e Bellusci, teorici della complessità, semplificano banalmente.

Lasciamo stare: sia perché, come al solito, la dialettica hegeliana finisce nella illusa certezza di ogni religione; sia perché la sintesi trascendente è un mondo chiuso e soffocante. Ed io soffro di claustrofobia.

Le cose sono andate così. Come ci ha insegnato Jung, nonostante gli inequivocabili limiti, la storia dell’umanità è cumulativa non alternativa. O almeno è talvolta cumulativa, talvolta alternativa. Perfino il singolo e il singolare individuo, fin dalla sua nascita e tramite meccanismi ancora ignoti, è connesso ad un inconscio collettivo costituito da archetipi.  E questa connessione è il più grande contributo epistemologico che Jung ha dato alle chiusure paradigmatiche della psicologia, resa definitivamente interdisciplinare perché legata alla complessità dell’habitat della nostra esistenza. La nostra essenza, tramite le connessioni dell’inconscio collettivo, è la nostra esistenza; ciascuno di noi, pur nella sua unicità, è il precipitato storico di ciò che siamo stati come specie vivente, nella lebenswelt, nel pragmatico mondo della vita.

Dunque, la natura della umanità è principalmente cumulativa, meno, molto meno alternativa; acquisisce continuamente nuove dimensioni come prodotto della propria esistenza, l’esempio più evidente è rappresentato dall’esperimento pubblicato su “Le Scienze”.

Che tutti i bambini partecipati all’esperimento conoscessero la soluzione è il “dente di leone” della nostra storia. Noi non dobbiamo mai ricominciare da capo. Se scompare uno di noi, gli altri sanno comunque. Quel conscio collettivo diventa un archetipo e, con un meccanismo ancora ignoto, si deposita in un inconscio collettivo che, con un imprinting ancora ignoto, si trasmette alle future generazioni. Siamo gli unici che sanno fare. O meglio, siamo gli unici ad essere così specializzati a farlo. Ora si capisce cosa intendo dire quando insisto nel sostenere chela nostra essenza è la nostra esistenza. In ogni caso, le mutazioni che ci hanno fatto assurgere nuove dimensioni logiche, nella storia dell’umanità, sono state solo 4. Per ora. La differenza tra mutamento e mutazioni, nella dinamica dei cambiamenti è nota.

Ogni mutamento ci permette di acquisire una nuova condizione situazionale. Ogni mutazione ci permette di acquisire una nuova cognizione strutturale. Cumulative, mi raccomando, non alternative. Di mutazioni nella storia evolutiva dell’umanità, ne abbiamo avute solo 4.

Queste 4 mutazioni ci hanno fatto accumulare solo 4, per ora, dimensioni logiche. La logica endofasica, grazie alla funzione dell’analogia, ha fornito una ragione. La logica formale, grazie alla funzione del principio di non contraddizione, ha fornito di una razionalità. La logica computazionale, grazie alla funzione della falsificazione critica, ci ha fornito di procedure di controllo. La logica quantistica, grazie alla funzione del principio probabilistico, ci fornisce oggi di ragionevolezza. In questo senso intendo che la vera innovazione della nostra modernità, non è l’intelligenza artificiale, che è soltanto una tecnologia, ma è la logica quantistica, che è una nuova dimensione del pensiero.

La grande mutazione che stiamo vivendo, con l’avvento della società della comunicazione, consiste in una nuova cosmogonia, una nuova visione delle regole che governano, perché lo generano e perché lo gestiscono, l’universo della nostra vita quotidiana. Cambia per la quarta volta; e cambia ancora radicalmente. Con l’intelligenza artificiale, direi grazie alla intelligenza artificiale, il nostro cervello, la nostra endemica stupidità, entra definitivamente nella logica quantistica. È la quarta mutazione della storia dell’umanità, l’avvento della società della comunicazione che ci offre la insuperabile occasione di avere una nuova intelligenza complessiva. Che sia artificiale o no, l’intelligenza si contrappone o soggiace alla invisibile dirompenza del potere ologrammatico. Per far questo ha bisogno di una nuova logica, di una logica quantistica, e di una essenziale epistemologia di nuova dimensione, in grado di gestire la scissione simbiotica tra verità e realtà.

La logica quantistica, per quel che ne sappiamo, ancora non esplorata specie in merito alle scienze sociali (dove invece, a mio avviso, troverebbe maggior applicazione), si basa su alcune nuove e sconcertanti cognizioni.

·       In primo luogo, non si parla più di stati o di situazioni; ma di condizioni e dimensioni. Questo è il primo concetto di cui abbiamo bisogno: il concetto di sovrapposizione. Significa che un determinato soggetto può trovarsi contemporaneamente in due o più dimensioni diverse o addirittura opposte. Se facessimo una call conference con tutto il mondo sul problema della logica quantistica comodamente seduti sul divano di casa nostra, saremmo nella duplice dimensione globale e locale; ma globale e locale sono anche due dimensioni opposte.

·       Il secondo concetto che dobbiamo assolutamente tener presente nella logica quantistica sono le relazioni entanglement. In un network è possibile che due o più poli, pur essendo lontani, cioè reciprocamente distanti si colleghino o si connettano tra loro in modo che l’uno dipenda dall’altro, indipendentemente dalla loro distanza. Questa relazione entanglement viene definita e descritta come “azione spettrale a una distanza”. 

·       Il terzo concetto di cui non possiamo assolutamente prescindere sono i Qubit. Si tratta di un valore che ci permette di superare la logica computazionale in cui le alternative dialettiche di 0 (Falso) e 1 (Vero) costituiscono simboli reciprocamente escludenti. Il Qubit invece può rappresentare entrambi i valori contemporaneamente con un metodo interpretativo di ordine probabilistico. Il Qubit introduce definitivamente il concetto di intervallo in ogni punto del quale si conservano percentuali di elementi caratteristici dei poli opposti. Se, ad esempio, in un polo c’è la democrazia e nel polo opposto c’è l’autocrazia in ciascuno degli infiniti punti interni all’intervallo definito (cioè in ogni nostro momento) il regime politico è sia democratico che autocratico. Naturalmente si tratta di valori percentuali in relazione alla tipologia del regime e in relazioni ai tempi diversi del processo decisionale. I nuovi network politici, la loro natura, devono essere valutati e definiti in Qubit quantistici.

    Come si vede, sebbene la logica quantistica appaia controintuitiva, tuttavia ci offre una rappresentazione più realistica della fenomenologia esistente.

Qualche tempo fa mi è accaduto di partecipare ad una conferenza in una sala piena di gente, tutta interessata, che mi ha bombardato con domande estremamente intelligenti e talvolta sofisticate, che ha messo in dubbio e discusso alcune delle mie asserzione e addirittura intere congetture. Alla fine, tutti siamo rimasti contenti, ci siamo reciprocamente complimentati e applauditi, ma io non ero li. Apparivo a loro come se fossi presente, con i pantaloni e la camicia che effettivamente indossavo, con lo stesso tono di voce che ho sempre e la passione che mi caratterizza. Si vedeva perfino il sudore, ma io non ero li. Io ero a casa mia, in piedi, come se fossi di fronte a quella platea attenta, percepivo da casa mia il loro interesse e le loro emozioni. Loro mi vedevano per quello che effettivamente sono. Io, però, non ero li. C’era piuttosto il mio ologramma. Ero a casa mia, davanti a un proiettore particolare e navigavo ad una piattaforma specializzata in grado di favorire le rappresentazioni olografiche. I dati venivano immagazzinati ed elaborati in tempo reale per poter trasmettere la mia immagine olografica e farmi partecipare ad un meeting, a una conferenza, stando davanti ad un proiettore, a casa mia.

Il rapporto con l’intelligenza artificiale non è come il solito rapporto con la solita protesi tecnologica innovativa. Cambia totalmente l’intelligenza degli umani di cui quella artificiale è una parte, parziale e nemmeno la più importante. Il passaggio fondamentale dalla logica computazionale alla logica quantistica, che si esprime principalmente con il simbolico strumento della Intelligenza Artificiale, che in realtà non è uno strumento ma un nuovo diffuso habitat, comporta il passaggio, anche sul piano professionale e del lavoro, dal Know-how al Know-out, come ho già scritto più volte: “La conoscenza non è più in noi, è nel dominio relazionale in cui siamo immersi, nel campo cognitivo che ci supera e ci assorbe. Anche le nostre capabilities tecniche o specialistiche, addirittura il cervello, è ormai fuori dal corpo, dalla sua stessa fisicità, in un network che è al tempo stesso relazionale e cognitivo; che è cognitivo proprio perché è relazionale”.[24]

L’intelligenza artificiale richiede addestramento. La logica quantistica richiede formazione.

Per questo abbiamo ancora una volta, per la quarta volta, l’esigenza di retribalizzare l’umano: perché dobbiamo imparare una nuova dimensione dell’intelligenza e abbiamo bisogno di una nuova pedagogia. Se non fosse cumulativa, la scienza, la conoscenza, l’intelligenza, non avremmo mai una complessità cognitiva. La complessità, in generale, esiste in quanto la coscienza è cumulativa (p.48).

 La logica computazionale, grazie alla funzione della falsificazione critica, ci ha fornito di procedure di controllo. La logica quantistica, grazie al principio probabilistico, ci fornisce oggi di criteri di ragionevolezza. L’intelligenza artificiale richiede addestramento. La logica quantistica richiede formazione. L’Intelligenza Artificiale di cui parliamo non è in una macchina, o in un sistema, o in un qualsivoglia contenitore. Non è avulsa da noi o estranea a noi. È nella “fusione di orizzonti”, come li definiva Gadamer[1], con cui viviamo in simbiosi nella società. “Ci estendiamo sempre di più dentro concetti metodologici di pluri-problematicità e di multidisciplinarietà.[25] Acquisiamo nuove metodologie di conoscenza, oltre ogni incommensurabilità paradigmatica[26], oltre ogni ideologia. “Sempre più oggi possiamo integrare i nostri domini relazionali, gli insiemi dei nostri reciproci saperi, connetterci dentro intervalli cognitivi di ordine e dimensione quantistica, che rappresentano habitat di conoscenza più ampi: orizzonti di cognizione e competenza fusi.[27] Possiamo ancora restare in simbiosi con la vita, grazie alla nostra intelligenza, che sia artificiosa o artificiale. La conoscenza che rimpolpa la nostra intelligenza sta dentro la vita, nelle cose stesse, atti e fatti, fenomeni che ci formano e dentro cui ci riconosciamo, nella complessità logica e tecnologica della nostra esistenza. “Viviamo la quarta dimensione della logica quantistica. La scienza precedente alla nostra, quella che derivava dalla logica computazionale, reclamava una epistemologia del know-how, fatta di saperi individuali specializzati. Naturalmente non intendo dire che le competenze specialistiche non servono più. Le logiche non si escludono. Le dimensioni logiche si assemblano. In un mondo integrato, in cui la conoscenza è data dalla morfologia delle connessioni, in cui la pedagogia, la scienza dell’educazione, la didattica e perfino la docimologia è rappresentata da una mappa connettografica di ordine cognitivo, l’epistemologia diventa simbiotica della intera complessità della vita. [28]


L’Intelligenza Artificiale ci aiuta a restare dentro la fenomenologia della società della comunicazione, ci aiuta a “ri-orientare il posizionamento individuale dell’umano in funzione della sua condizione esistenziale”. Se c’è un rischio, quel rischio siamo noi. Il vero rischio è il rischio di sempre: il demone della sopraffazione e del sopruso, utilizzando gli strumenti, di volta in volta, disponibili.

Non per l’Intelligenza Artificiale, ma nella società della comunicazione, il potere ologrammatico ci atterrisce, per il suo anonimato, per la sua altissima competenza nel mimetizzarsi dentro gli interstizi della società. In questa quarta mutazione della turbolenta storia dell’umanità, il demone non è la tecnologia, ma le enormi e incontrollate potenzialità del potere ologrammatico che trasforma i cittadini in anonimi utenti, per la sua capacità di controllo, di decervellamento collettivo e per il costante tentativo di costituire, senza istituire, un nuovo regime autocratico.

Non siamo noi i portatori di un luddismo di nuova maniera.

L’intelligenza artificiale non ci spaventa, perché la paura e il dolore esistenziale dell’umano è sempre lo stesso.

Le scienze sociali inglobano l’intelligenza artificiale in una nuova dimensione della società, pur consapevoli che, con la logica quantistica, il potere ologrammatico, la sua invisibile dirompenza, è molto pericoloso.

Oggi più che mai credo abbia ragione Bertrand Russell nel sostenere che il potere sta alle scienze sociali come l’energia alla fisica. Con l’energia in fisica possiamo produrre il buio del terrore atomico o la luce della civiltà e del benessere. Il rischio, che vedo concreto difronte a me ogni giorno che passa proprio qui in Italia, è la scissione tra verità e realtà che minaccia la nostra democrazia. L’artificio può restare dentro le nostre verità e i fatti possono restare dentro la realtà.

Noi non siamo coloro, come canta Vasco Rossi, che confondono quello che siamo con quello che usiamo. Noi no. Anche quando usiamo una Intelligenza artificiale, non la confondiamo mai con ciò che siamo.

La variabile è la nostra etica.

Se il potere ologrammatico della società della comunicazione genera autocrazia o democrazia dipende esclusivamente dalla nostra competenza etica.  Il rischio del potere ologrammatico nella logica quantistica è la produzione della verità, cioè che i fatti sono interpretati da verità precostitituite e fideistiche e l’artificio si deposita nella nostra conoscenza e nella nostra consapevolezza al posto della realtà. Questo è il pericolo determinante, il passo decisivo verso l’autocrazia. L’etica ci impone una scelta politica tra la democrazia dell’artificio o la autocrazia dell’artefatto.






NOTE

[1] PIAGET J., Lo sviluppo della nozione di tempo nel bambino, La Nuova Italia, Firenze 1979

[2] SARTRE J.P., L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2023

[3] in BARBUJANI G. e VOZZA L.  Il gene riluttante, Zanichelli, Milano 2016, si mostrano molti luoghi comuni

[4] VALERIO C., La tecnologia è religione, Einaudi, Torino 2023, 10

[5] FLORIDI L., Etica dell’intelligenza artificiale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022. 91

[6] FLORIDI L. Etica dell'Intelligenza Artificiale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022, 25

[7] Marcel Mauss riteneva che “un fatto sociale totale” fosse un evento globale che aveva una potenza in grado di condizionare l’insieme della società e dei suoi meccanismi di funzionamento. MAUSS M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche., Einaudi, Torino 1965

[8] FLORIDI L., cit. 2023

[9] Secondo Hannah Arendt, "la politica nasce nell'infra e si afferma come relazione". ARENDT H:, Che cosa è la politica, Einaudi,Torino 1965, 47.

[10] PARISI F., La tecnologia che siamo, Codice edizioni, Torino 2019

[11] Vedi CECI A., Epistemica della simbiosi, in RISE -n.1, volume VII, anno 2021 • issn 2421-583X

[12] MARGULIS L. and SAGAN D., Microcosmos: Four Billion Years of Evolution from Our Microbial Ancestors, Summit Books, New York, 1986.

[13] CECI A., cit. 2021.

[14] CECI A., cit. 2021.

[15] Per tutte valga CECI A., La relazione Responsiva: l’intelligence nella società della comunicazione, Europarole, Roma 2020.

[1] [16] CERUTI M. e BELLUSCI F., Umanizzare la modernità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, 39-66

[17] GARGANI A (a cura di), La crisi della ragione, Einaudi, Torino 1975, 11

[18] CERUTI M. e BELLUSCI F., cit. 2023, 39-66

[19] GADAMER H G., Verità e metodo, Bompiani, Milano 2001

[21] CECI A., cit. 2020

[22] KUHN T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1962

[24] CECI A., cit. 2020

[25] CECI A., cit. 2020. Per il concetto di connettografia vedi: KHANNA  P., Connectography, Fazi Editore, Milano 2016

[26] HUSSERL E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano

[27] CERUTI M. e BELLUSCI F., cit. 2023, 39-66

[28] CERUTI M. e BELLUSCI F., cit. 2023, 39-66




Commenti

Post popolari in questo blog

SU JUNG

TEOCRATICA O TEOCENTRICA? Le forme del potere religioso

POSTPENSIERO 156 - NOI: IL CAMBIAMENTO