LA CONOSCENZA DISPONIBILE: discorsi ad un pubblico assente

 


3 – Conoscenza: etica di una coscienza collettiva


 Per re-tribalizzare l’umano alla intelligenza wetware una nuova lebenswelt, in un mondo della vita sempre nuovo, infine, è indispensabile la conoscenza che è l’etica della coscienza collettiva.



            Che cosa contengono le città?
    Se volessimo scrivere una Storia Universale, dove  guarderemmo oggi, che metteremmo nelle città, dove poseremmo il nostro sguardo per capire come sono andate le cose?
            La Teoria della Complessità, a partire da Ilya Prigogine[1], si è concentrata prevalentemente sulla dispersione entropica, sulla energia in eccedenza e quella in dissipazione nella relazione tra sistemi e nella integrazione dei sistemi nell’ambiente; cioè sulle strutture dissipative, sulle regole del caos.
            Eppure, quando noi volgiamo lo sguardo ad osservare il mondo, vediamo quasi esclusivamente le cose rimaste, quelle che si sono conservate, quelle che non si sono perdute; cioè sulle strutture conservative, semplici, regolate e regolamentate, per quanto uniche e addirittura singolari. Le strutture conservative sono tante e talmente evidenti da non essere percepite. Ciò che siamo indotti ad osservare, nel disperato e vano tentativo di essere edotti, sono le eccezioni, talvolta le eccedenze, specie se mostrano la loro spesso drammatica eccezionalità.
           La pandemia che abbiamo vissuto e la guerra che stiamo vivendo sono due esempi emblematici. Si dice che il conflitto, la lotta, l’uomo lupo per l’uomo, sia la nostra condizione naturale, ricorrente e abituale. Hobbes[2] lo diceva, ma sbagliava. Non c’è mai stata una condizione naturale homo homini lupus. Anzi, la condizione in cui l’uomo è un lupo per l’altro uomo, in cui il più forte opprime e schiavizza il più debole, è decisamente innaturale. Certo esiste il potere ma: intanto il potere non è  sempre dominio; poi la lotta, la guerra, il conflitto è una struttura dissipativa della storia e della società, una singolarità assorbente come un buco nero, appunto una eccezione che deve essere ricondotta dunque al suo stato di eccezionalità. L’uomo, come ci ha insegnato Aristotele e Wilson è un animale sociale. La sua struttura conservativa è l’accoglienza, l’assistenza, la tutela. Non è l’aggressione. Non è il crimine. La legalità, il rispetto delle regole della convivenza sono assolutamente indispensabili alla sua sopravvivenza. L’uomo è un animale sociale e, senza una relazione sociale, muore.
           Allora, se volessimo scrivere una Storia Universale e specificamente una Storia Universale della Umanità, osservando le impercettibili (perché abitudinarie) strutture conservative, dovemmo descrivere un processo che dal caos tende alla complessità e dalla complessità alla semplicità, fatta di contenitori di energia sociale collettiva che ci aiutano a vivere meglio; perché queste sono le strutture conservative: contenitori di energia vitale (nella forma di comportamenti ripetitivi e automatici) che controllano la dirompenza della entropia e la mantengono entro un gestibile e addirittura governabile “intervallo” che rende sostenibili alla nostra pazienza le fraudolenze dei tempi; in grado cioè di reggere, giustificare, appunto sostenere la nostra presenza nel mondo. Senza queste strutture conservative che costituiscono l’essenza del nostro “intervallo di sostenibilità”, l’energia diventa anarchica, si trasforma in entropia eccedente che, se eccessiva, finisce per far esplodere in forma di ribellioni, rivoluzioni o guerre, comunque conflitto, i nostri habitat sociali. Condizione belligerante in cui alla fine ci troviamo soli a fronteggiare, piuttosto che la complessa semplicità della vita sociale, il caos autodistruttivo della vita. Un “intervallo di sostenibilità” è assolutamente indispensabile alla nostra sopravvivenza nel mondo poiché, naturalmente, anche l’entropia è necessaria. Infatti, se avessimo soltanto strutture conservative e tutto fosse orribilmente programmato e regolato, noi moriremmo, viceversa, di inedia, di depressione statica nella eterna ripetizione dell’uguale, imploderemmo nella noiosa routine e negli insignificanti cliché della tradizione, in riti che rafforzano inutilmente sempre gli stessi miti, e, come accade in molti piccoli comuni senza entropia, il nostro habitat depauperebbe. Il nostro “intervallo di sostenibilità”, dunque, è assolutamente indispensabile perché siamo obbligati, per sopravvivere, a mantenere un certo equilibrio.
 


 Allora, se volessimo scrivere una Storia Universale della Umanità, dovremmo indicare nella città la più importante struttura conservativa della nostra evoluzione. Il passaggio dell’uomo migrante all’uomo sedentario, probabilmente, non c’è mai stato. L’uomo era ed ancora è migrante per essere sedentario in qualche altro posto, in qualche altra città. Se non ci fossero state le città, nelle loro diverse morfologie, in quanto strutture conservative primarie, noi non avremmo letteralmente nulla e ci troveremmo ancora oggi a camminare tra sterpi e rovi. “Una città è l’esito di una stratificazione temporale che lascia tracce che – per quanto possano venire erose o cancellate – permangono nel presente dalla vita urbana, condizionando il suo futuro.[3]
        La città, dunque, è stata la più importante, la più determinante struttura conservativa dell’umano.
Ma cosa ha conservato? Cosa contengono le città?
Secondo Stefano Boeri noi oggi vivremmo in “metropoli arcipelago”, di cui Roma, questa “placenta del mondo” come la definiva Fellini,  sarebbe “riferimento straordinario per il futuro delle città del mondo[4], si sarebbero formate per stati di transizione e fatti urbani, la cui vocazione è quella di costituirsi come integrazione globale di tutte le dimensioni dell’umano. La distinzione stessa tra natura e artificio sarebbe ormai definitivamente superata. Addirittura, dopo questa violenta esperienza pandemica, cominciamo a prendere coscienza che è la natura a contaminare la città, non il contrario come si è spesso ipotizzato. “Siamo stati al governo della nostra sfera vitale e urbana e non abbiamo saputo cogliere l’evidenza esplosiva di un disagio che nasceva fuori dal nostro sguardo, fuori dal nostro controllo, fuori dall’ossessione urbano-centrica del nostro pensiero sul territorio[5]. Pertanto, “è arrivato il momento di prendere coscienza che i fenomeni sono parte integrante della nostra vita, di ripensare alla radice il perimetro e le forme del nostro spazio vitale.[6] Dunque “è venuto il momento di considerare una nuova e diversa configurazione delle città del mondo entro la quale le energie della biodiversità e le traiettorie evolutive delle specie viventi possano generare una nuova forma di coabitazione delle differenze.[7]
        Boeri chiama queste nuove forme “metropoli arcipelago”. È una denominazione che prende in considerazione le mutazioni e i mutamenti urbanistici di oggi, di questa nostra epoca storica e del futuro prossimo venturo. Avendo attitudine con la logica e la epistemologia, che preferiscono denominazioni ampie e giustificative, per categorie e tipologie, in ogni caso comprensive anche delle possibili future trasformazioni, preferisco il termine habitat, che non significa urbano, che non è ambiente, ma, come appunto sostiene Boeri, è la loro integrazione in una città naturale in grado di superare i confini artificiali e artificiosi che finora si è data. L’habitat credo sia maggiormente rappresentativo delle diverse dimensioni dello spazio vitale dei viventi, di ogni vivente, di ogni essere sociale[8], quindi anche dell’uomo.
        Il primo elemento è quello dell’habitat.

Il 2 giugno 2022 è stata diffusa la notizia, prima apparsa istituzionalmente su Nature, che il Gaussian Boson Sampling, un programma che permette di identificare gruppi di nodi all’interno di una rete complessa, come ad esempio risolvere il problema delle interazioni tra proteine all’interno di una rete neurale, un problema che a un supercomputer tradizionale, raffreddato a temperature vicine allo zero assoluto (circa -270 gradi) occorrono 9.000 anni, un processore fotonico quantistico in grado di lavorare a temperatura ambiente, ha impiegato 36 microsecondi di calcolo[9]. Una accelerazione notevole. Le tecnologie entrano definitivamente nel mondo della logica quantistica.
        L’avvento della logica quantistica rappresenta una transizione enorme nella nostra vita quotidiana, nella organizzazione dei nostri tempi, nella nostra giornata professionale, nella nostra famiglia e nel nostro lavoro, nella lebenswelt[10], nel mondo della vita e quindi nella struttura relazionale e fisica delle nostre città. Nei nostri corpi. La tecnologia evolve talmente rapidamente da assorbire noi stessi. Come scrive in un libro importante, pubblicato nel 2019 Francesco Parisi, “La tecnologia che siamo[11].
        Pensate a che accelerazione ha indotto la invenzione della ruota, magari come “affrancamento dal concreto” di un tronco fatto roteare per costruire un riparo o di un masso franato per caso da una rupe o di un sasso fatto correre per gioco su un bordo. Pensate che grande trasformazione è stata costruire un arco, con delle frecce, cioè prendere un’asse di legno, farlo flettere con una corda, costruire frecce adatte e colpire un animale di stazza notevolmente superiore, comodamente,  evitando il combattimento corpo a corpo, la capacità di procurarsi del cibo stando a distanza protettiva,  senza lotta fisica diretta. Oppure pensate alla maestria aerospaziale di coloro che hanno elaborato  il boomerang. Sono tecnologie, antenati dei nostri computer quantistici. È evidente dunque che la tecnologia è diventata “una componente costitutiva della cognizione dell’Homo sapiens, come il cervello, il cuore e le mani.” Dopo l’esperienza evolutiva di tutti questi anni “i nostri corpi sono biologicamente predisposti a interfacciarsi con l’ambiente circostante e, di conseguenza, con le tecnologie contenute in esso, tramite processi di relazione e retroazione.” Da allora ad oggi, pertanto, consideriamo “la tecnologia come insieme di strumenti che estendono (talvolta riducono) la capacità della nostra cognizione (retroazione); e la tecnologia come ambiente originante che obbliga a riconsiderare la nostra stessa nozione di umanità (relazione).[12]
        La tecnologia e la sua perenne evoluzione, dunque, è una novità senza innovazione. Ci induce ormai antropologicamente a convivere con i mutamenti, ma non necessariamente con le mutazioni. Vivendo in villaggi fino alle contemporanee smarth city abbiamo interiorizzato il cambiamento, diventato un fatto naturale, una struttura conservativa, appunto. Il treno, ad esempio, ha de-concettualizzato la città, prima definita dalle sue mura e da chi viveva dentro di esse. Il treno ha letteralmente deflorato i borghi medievali, squarciando una tradizione millenaria di fortificazione e mura di sicurezza. Il treno, poi diventato metropolitana ha sbaragliato ogni concezione di centralità, trasportando nel cuore urbano l’estraneo nella veste o di straniero o di periferico. Il treno viaggia sulle connessioni e trasforma la città in un network. Il treno ha unito i poli. Grazie al treno nessuno più può vantare la sua centralità. L’aereo è stata una novità, ma, da questo punto di vista, non è stata una innovazione. Il treno, che ci ha fatto tutti stranieri rispetto ad altri, invece, è stato sia l’uno che l’altro. 
Le tecnologie della comunicazione sono state mutamento e mutazione. Per migliaia di anni siamo stati attenti a distinguere l’interno dall’esterno. Le nuove tecnologie della comunicazione ci hanno invaso dall’alto. Il problema che ci pongono non è più quello della ospitalità. È quello del posizionamento. Ci hanno indotto a sorvolare lo spazio fisico, anche il corpo, fino ad ignorare la lebeswelt, il mondo della vita, trasferendolo nella rituale iconografia del web. Nel mondo dei media e dei social le strade e le piazze sono soltanto virtuali. Ciascuno di noi vive riflesso in uno specchio. Siamo avatar immaginifici del nostro super-io. La città è sorvolata e dunque annullata, cancellata. Nel mondo delle tecnologie della comunicazione il posizionamento del nostro corpo, la nostra fisicità è una imitazione di se stessi. Viviamo, come ho scritto in un testo di 22 anni fa, una Imitation of life[13]. Le nostre città, sorvolate dalla nostra socialità imitativa, hanno perso identità ed identificazione. Sono passate dall’essere un luogo fruito ad essere uno spazio consumato. Gran parte delle metropoli sono diventate necropoli, luoghi dove gli uomini vanno a morire in una folla solitaria[14] che è diventata incomprensibilmente follia collettiva. La responsabilità di town sovraffollate da sradicati ignoti è essenzialmente colpa di una tecnologia che ha fatto perdere ogni collocazione, una tecnologia atopica che ha tramutato la persona e il cittadini in individuo e soggetto. Una posizione senza posizionamento, atopica e comunque estranea, estranea e comunque estraniante, in un ovunque che frequentiamo senza abitare.
        Il rischio del nostro tempo che, per la nostra incoscienza può diventare minaccia, è che questa tecnologia puramente eterea ci illude di essere eterni, immortala in un riflesso la nostra immagine permanentemente attuale. Sorvoliamo lo spazio e blocchiamo il tempo in uno specchio mediatico che rappresenta l’imitazione di ciò che siamo, della vita che viviamo, fuori dal corpo che abbiamo. La globalizzazione tecnologica ci espropria del nostro posizionamento storico violando i meta livelli spazio/temporali. In definitiva, siamo tutti sradicati, eterni vagabondi dell’etere che non riescono più a godere del proprio essere perché esistono come avatar in una imitazione di sé. Siamo sradicati: scissione simbiotica tra desideri e godimenti (come spiegava Lacan) e, peggio ancora, scissione simbiotica tra essenza ed esistenza (come incomprensibilmente hanno proposto gli schieramenti filosofici). Imitation of life in un qualsiasi ovunque: la tecnologia ci riduce ad una pura imitazione, riflessi, come un fascio di luce quantistico, in uno specchio immateriale, in cui cerchiamo di essere ciò che non siamo e di esistere dove non esistiamo.
        Il secondo elemento è la tecnologia.

 


Il terzo elemento allora è l’umano.
        Solo, di fronte ad un habitat multidimensionale e ad una tecnologia multifunzionale, l’uomo ha bisogno, direi insuperabile esigenza di essere re-tribalizzato. L’umano ha bisogno cioè di ri-posizionarsi in relazione ad una nuova concezione dello spazio e del tempo. Ancora una volta l’uomo deve posizionarsi, gestire la propria eccentricità senza sradicarsi.
        Radicarsi di nuovo.
        Radicarsi nel nuovo.
     E non possiamo farlo senza la città e senza la comunicazione. Non possiamo farlo senza una socializzazione altra. La vera innovazione del futuro non sarà urbanistica o tecnologica, sarà sociale; non riguarderà la strada o la macchina, riguarderà l’umano. Se la tecnologia ci fa sorvolare uno spazio che evapora in un tempo immortalato nell’illusione di un eterno presente etereo, l’uomo, per non escludersi, deve riappropriarsi della propria collocazione nel mondo. E per ricollocarci dobbiamo re-tribalizzarci. Dobbiamo chiedere al tempo, ad un tempo diverso, di re-integrarsi nello spazio, anche se in uno spazio diverso. Dobbiamo fare in modo che la tecnologia ritorni nell’habitat e che l’habitat evolva tramite la tecnologia. I nostri territori devono uscire dalla ghettizzazione del locale, senza disperdersi in un globale dove l’umanità si perde. Dobbiamo riposizionarci in un glocale costruendo spazi mediatici territoriali. La tecnologia è il Dio dei contemporanei, ma questo Dio, come quello di ogni religione, deve scendere dai cieli e, come diceva Fabrizio De André, ”venirci a cercare”; deve scendere in terra e venire con noi a governare lo spazio. Dobbiamo tornare a Babele, come ci suggeriva già tantissimi anni fa Parrot: “La torre della Scrittura cessava d’esser per noi una manifestazione dell’orgoglio dell’uomo. Invece di un pugno chiuso alzato come una sfida al cielo, la considerammo, prima di tutto, una mano tesa verso il medesimo cielo come una richiesta di aiuto.[15]  E spiega Gian Paolo Ceserani: “la Torre non implica solo un movimento ascensionale (come vorrebbe la Bibbia), dell’uomo verso i cieli, ma presuppone invece la discesa degli dei, dai cieli verso la terra. Questo è il suo autentico scopo.[16]
    Dobbiamo costruire città dove le tecnologie della società della comunicazione incentivino il posizionamento; una nuova identità e una nuova identificazione dove la tecnologia non sia contrapposta alla socializzazione degli spazi e dei corpi, ma che sia piuttosto composta. Passare dalla sfera alla tecnosfera, dalla tecnosfera alla infosfera, dalla infosfera alla urbansfera, passando dal locale al globale fino al glocale, dai social alla socialità, è la sfida del riposizionamento e della re-tribalizzazione dell’umano.
    Siamo già bionici, ma questo non significa perdere la nostra umanità. Anzi, al contrario, ogni integrazione tecnologica serve ad accentuarla nostra umanità. Per questo i robot non supereranno mai l’umano. L’intelligenza artificiale non dominerà sulla stupidità naturale, perché la stupidità è più forte in quanto presupposto comparativo dell’intelligenza. Abbiamo protesi fisiche e cognitive che ci aiutano a vivere meglio. I robot potranno soltanto servirci con maggior efficienza, come già fanno.   L’umano può essere superato soltanto dalla sua solitudine.
Ripropongo ciò che ho già scritto: “Le strade  della nostra società opulenta, i vicoli,  gli angoli nascosti della modernità e della ricchezza, sono frequentati da uomini la cui vocazione è il paradosso[17], cittadini di altre città, uomini e donne che quotidianamente «scommettono la propria vita sullo spartiacque dell'emarginazione»[18].
         Imprigionarli in una categoria è difficile, ormai impossibile.
         Sono tanti, dispersi e disperati, sospettosi e spesso sospettati, talvolta insospettabili.
         Si riconoscono per stereotipi, oppure non si riconoscono, si mimetizzano o s’ignorano. Prostitute, barboni, tossici, immigrati, rom, handicappati, ma anche sfrattati, omosessuali, insoddisfatti, precari di lavoro e di affetti, disadattati, occultati dalla comunicazione multimediale, rimossi dalle relazioni fra pari, eterodiretti, cittadini senza cittadinanza, esclusi, estraniati da ogni azione sociali.
            Isole ed isolati; sono uomini in preda al silenzio.
          E sono una moltitudine, una massa sparsa di solitudini, abbandonati nelle lontane galassie della modernità, recintati nei loro mondi distinti, distanti.
         Mi riferisco a coloro la cui  «nudità e debolezza è simbolo di ogni nudità e debolezza»[19].
         Cambiano, di stagione in stagione.
        S’incontrano in altri luoghi, o non si incontrano; frequentano altri ambienti, o non frequentano; solcano strade inusitate e stazionano in quartieri che non riconoscono. E non si riconoscono. Confusi nei bar, «simili a miliardi altri simili»[20], clienti, utenti, pazienti e quasi mai cittadini. Perché non hanno volto, perché hanno ogni volto; spesso non hanno parola, muti come un luogo comune, preda di qualsiasi ovvietà, banali nella vittoria e nella sconfitta.
        Ma sono nudi e deboli. E muoiono nudi e deboli,  dispersi nella cosmica solitudine della loro esistenza, soffocati dalla grigia alienazione dell’umano.          
         Muoiono nudi e soli, assassinati dalla loro stessa debolezza: «perché dal crocevia sono crocefissi i  metropolitani»[21].”[22]
        Re-tribalizzazare l’umano significa realizzare un progetto didascalico che abbia una centralità semantica intorno alla lebenswelt, al mondo della vita.
            Insisto ancora.
            Il nostro compito storico è quello di re-tribalizzare l’umano nel nuovo habitat tecnologico senza il quale, senza questa “metropoli arcipelago” non può avvenire. Non abbiamo bisogno di un postumano, abbiamo bisogno di un umano post, del futuro. E, nel futuro, non ci sarà maì il postumano. Ci sarà di peggio. Potrà esserci il dis-umano che, nella nostra epoca, consiste nello stato di liminalità della solitudine, la vita estraniata da un habitat e una tecnologia estraniante. Il dis-umano è il rischio del presente e del futuro prossimo venturo: una città senza individui (la nostra dimensione psichica), senza cittadini (la nostra dimensione politica), senza soggetti (la nostra dimensione sociale), senza persone (la nostra dimensione etica).
 


La persona, la nostra dimensione etica, tuttavia non è la conclusione, è l’inizio.
Bertrand Russell ha intitolato l’ultimo capitolo del suo libro su Etica della politica “Prologo o epilogo”; proprio per dire che l’etica era si il capitolo conclusivo del libro, l’epilogo, ma era al tempo stesso l’inizio, anzi il prologo di ogni attività umana. Vale di più per noi. L’etica è il prologo della nostra modernità perché è la sostanza coagulante del wetware.
Wetware è interazione e integrazione tra cervello umano e software; potenziamento del sistema nervoso centrale con protesi tecnologiche, tramite processi logici di astrazione e computazione.
Se non fosse morto prematuro e in circostanze equivoche, in un suicido probabilmente mascherato, Alan Turing sarebbe arrivato da molto tempo al wetware. Alla fine della sua vita, a partire dalle equazioni sulla morfogenesi fino allo studio sulle foglie, Alan Turing infatti pensava di poter raggiungere la realizzazione della intelligenza artificiale fondendo i meccanismo logici, matematici ed informatici con i processi biologici di formazione e formalizzazione delle figure esistenti[23]. Anche se non è stato chiaramente ancora azzardato, siamo convinti che se non fosse morto in circostanze così misteriose dietro l’apparente chiarezza del suicidio, Alan Turing sarebbe arrivato molto tempo prima dove siamo arrivati tutti noi oggi, in modo inintenzionale ed ancora senza coscienza: avrebbe scoperto il wetware.
Wetware è il nostro cervello che sta dietro e, ancor di più, dentro pratiche di programmazione e gestione di progetti software; o viceversa, pratiche di programmazione e progetti di gestione software che stanno dietro e dentro il nostro cervello. Wetware è la nostra capacità elaborativa complessiva, gli ambiti della neuroscienza e della informatica che trasformano definitivamente e inequivocabilmente potenziano le nostre capacità cognitive e di apprendimento. Wetware è un nuovo generale modo di pensare e di programmare, un nuovo problem solving, skill di conoscenze umane che non si possono avere senza lo sviluppo di software dedicati alla estensione delle nostre capacità di comunicazione e di apprendimento. Wetware è mix di logica e metodologia umana e tecnica, tecno-logica, azione e di programmazione, linguaggio e cibernetica, teoria generale della informazione e della comunicazione. Wetware sono le “interazioni pertinenti[24] che una rete neurale individua per definire i domini relazionali e i principi di similarità delle loro connessioni. Wetware siamo noi, tutti i giorni, quando entrando in casa abbiamo bisogno di accendere un televisore o una radio per soffocare gli stati d’ansia che il silenzio induce. Wetware sono i nostri figli, più esperti dei genitori nella gestione della tecnologia, e che quindi hanno totalmente superato ogni influenza della esperienza. Wetware è l’infinita conoscenza umana che la storia ha dimostrato essere potenziata in modo esponenziale grazie alle tecnologie: a partire dalla ruota – se non addirittura dalla mano come primo strumento tecnologico dopo la conquista della posizione retta – fino ai moderni cognitive shift che sono le funzioni necessarie per accrescere l’utilizzo dell’ R-mode celebrale (l’emisfero destro del cervello considerato come la composizione integrata di due CPU) e la sua capacità di sincronizzazione con L-mode (l’emisfero sinistro del cervello); o addirittura i cognitive biases che sono gli elementi di processi mentali erronei, una specie di virus logici che inducono decisioni sbagliate. Il wetware è molto più quotidiano e frequente di quanto possono immaginare gli esperti e i fondi buttati dal Pentagono[25]. Basta prendere un tablet di ultima generazione e vedere come i giovani di oggi immagazzinano immagini. Attribuiscono una volta sola un nome a un personaggio in una foto e il telefono lo riconoscerà, con nome e cognome,  ogni volta che compare la sua immagine. Questo è già wetware.
Le nostre città sono già wetware: l’habitat in cui interagiscono e si integrano tecnologia ed umano.
L’estensione e l’espansione di questo wetware, l’elemento liquido della cibernetica in cui habitat/tecnologa/umanità formano una entità unica integrate, è il future che ci aspetta nelle nostre città. Ciascun element può essere separtito, cioè analizzato da solo, senza l’interazione con gli altri, ma nessuno può essere separato, nessuno può agire da solo, tutti sono reciprocamente simbiotici, sono wetware, la connotazione tipica della presenza umana del mondo, ciò che ha garantito la nostra sopravvivenza, la nostra supremazia. Il future che ci aspetta, dunque, è l’accentuazione logica e tecnologica del nostro passato: città wetware.


Insomma che cosa contengono le città?
L’intelligenza umana; io credo che le città contengano essenzialmente l’intelligenza, quella particolare intelligenza che, come diceva Piaget, organizza il mondo organizzando se stessa. 
Semplicemente. Tanti discorsi nascondono un ossimoro logico cognitivo mistificatorio. Sono discorsi talmente specialistici da ostruire la comprensione dell’essenziale connotazione della città. 
Sono talmente parcellizzati da lobotomizzare il cervello dentro e fuori l’umano.
La connotazione tipica degli animali sociali che, secondo Wilson, hanno conquistato la terra e che noi siamo, è quella di trasformare l’ambiente in habitat. Ciascuno costruisce le sue città e sopravvive grazie ad esse. Vale anche per noi. Ciò che fa mutare l’Homo in Uomo è questa transizione dall’ambiente all’habitat. Per gli esseri umani la città ha rappresentato il luogo in cui la propria intelligenza si è esternizzata, facendola evolvere con l’habitat e la tecnologia.
Se wetware è integrazione, questa integrazione cambia la nostra conoscenza. Siamo passati definitivamente dal know how al know out, dalla conoscenza che abbiamo dentro a quella che possiamo prendere fuori, nell’habitat, in tempo reale, in ogni momento in cui ne avessimo bisogno. 
Questa disponibilità ci è offerta dal wetware, dalla integrazione tra habitat, il cervello umano e il cervello connettivo in internet. La capacità di sapere come e quale conoscenza utilizzare per la soluzione di un problema reale è la nuova intelligenza che appunto l’intelligenza che organizza il mondo mentre organizza se stessa. 
È un vantaggio? 
Non sempre. 
Una intelligenza esterna può diventare una intelligenza dislocata, può essere una intelligenza dissociata. Anche qui naturalmente c’è un rischio che ci minaccia: la separazione del wetware (habitat/tecnologia/umano) che il potere esercita nella società della comunicazione, può espropriare la città e probabilmente l’umano della sua intelligenza e imprigionarla tutta nella tecnologia. Questo è il rischio più forte che ci minaccia: la dislocazione e la dissociazione della intelligenza. La forza del wetware è quella di individuare,  di volta in volta, un punto di equilibrio tra la qualità dell’habitat (la città), la lebenswelt (il mondo della vita) e le tecnologie (nuova dimensione quantistica). L’equilibrio del wetware garantisce la sostenibilità della nostra complessità. Se la nostra complessità non è sostenibile, noi non possiamo sopravvivere. Tuttavia, separando il wetware, la nostra vita può essere consumata e non fuita, come una scatola vuota, buona per tutto, una retorica vana ed insignificante, priva e privata della intelligenza semantica dentro le nostre città. Lasciata alle tecnologie, l’intelligenza non è nemmeno artificiale, è soltanto un artificio, che defrauda la città della sua identità e l’umano della sua identificazione. L’artificio della intelligenza artificiale ci riconduce ad una condizione di stupidità naturale, denominata analfabetismo funzionale, che già assorbe molti individui nello loro scomposte argomentazioni o addirittura in tutte le comunicazioni esterne.
Per evitare questo la minaccia dell’analfabetismo funzionale, cioè della stupidità naturale, dobbiamo sostenere il prezioso equilibrio di sostenibilità del wetware. Integrando habitat, tecnologia e umano facciamo della conoscenza una risorsa, abbiamo un patrimonio di conoscenza che è essenziale alla nostra intelligenza, alla nostra capacità di leggere le cose, anzi, di stare nelle cose stesse.

 


 L’etica, dicevo, è la sostanza coagulante del wetware. L’etica indica quale sostenibiltà è necessaria alla nostra complessità. L’etica è l’epilogo di ogni nostro discorso, l’obiettivo finale di ogni forma di conoscenza; perché la conoscenza di oggi non è erudizione, non è specializzazione, non è competenza, non è soltanto documentazione o professionalità. “La caratteristica peculiare dell’Homo sapiens – scrive Parisi – è di essere un animale specializzato in nulla, che deve quindi provvedere alla sua sopravvivenza intervenendo drasticamente sull’ambiente che lo circonda.[26] Un animale “sprovvisto ma non sprovveduto.[27]
L’etica di oggi è coscienza, responsabilità e consapevolezza della nostra intelligenza.
Per retribalizzare l’umano alla intelligenza wetware in una nuova lebenswelt, in un mondo della vita sempre nuovo, infine, è indispensabile la conoscenza che è l’etica della coscienza collettiva.


ooo/ooo

[1] PRIGOGINE Ilya e STENGERS Isabelle,  La Complessità. Esplorazione dei nuovi campi della scienza, Il Saggiatore, Milano 1991
[2] HOBBES Thomas, Leviatano, Rizzoli, Milano 2017
[3] BOERI Stefano, Urbania, Laterza, Bari 2021, p. 23
[4] BOERI S., cit.2021, p. 29
[5] BOERI S., cit.2021, p. 33
[6] BOERI S., cit.2021, p. 32
[7] BOERI S., cit.2021, p. 39
[8] WILSON O. Edward, La Conquista sociale della terra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013
[9] https://tg24.sky.it/tecnologia/2022/06/02/computer-quantistico-risolve-problema-36-microsecondi
[10] HUSSERL Edmund, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2015
[11] PARISI Francesco, La tecnologia che siamo, Edizioni Codice, Torino 2019
[12] PARISI F., cit. 2019, p.4
[13] CECI Alessandro, Imitation of life, testo teorico interpretativo del Rapporto Eurispess 2002, ripubblicato in edizioni private CeAS, Latina 2002
[14] RIESMAN David, La Folla Solitaria, Il Mulino, Bologna 2009
[15] PARROT Anafi, Déluge et Arche de Noè. La Tour de Babel, 1955, (trad. it.), PARROT Anafi, Diluvio e Torre di Babele, Sansoni, Milano 1962
[16] CESERANI Gian Paolo, Appuntamento a Babele. Studio sull’uomo comunicatore, Hoepli, Milano 1988, p.116
[17] CARENA Domenico,  Hanno per tetto le stelle, Edizioni Paoline, Torino 1991
[18] Carena D, cit. 1991
[19] BARTH Karl,  introduzione a  Epistola ai romani di Paolo, G.Miegge, Milano 1962.
[20] REYES  Alina, Lucie nella foresta, Guanda,  Parma  1990.
[21] Majakovskij Vladimir,  POESIE,  Nuova  Accademia, Milano  1960.
[22] CECI Alessandro, Antropologia della Sicurezza, Eurolink, Roma
[23] HODGES Andrew, Alan Turing, Bollati Boringhieri, Torino 1973
[24] KERCKOVE (de) Derrick, Dall’alfabeto a internet, Mimesis, Milano 2008
[25] Sembra che da anni una agenzia di ricerca avanzata del Pentagono (Darpa), stia investendo su tecnologie finalizzate all'integrazione tra hardware, software e wetware. Uno dei progetti finanziati da Darpa, il C3Vision (Sistema di visione accoppiata computer - corteccia), dovrebbe realizzare una interfaccia tra cervello e computer per l'identificazione di immagini con una velocità superiore a quella della coscienza umana. Con un particolare casco per elettroencefalogramma collegato ad un computer, un essere umano sarà in grado di visionare filmati rilevando anche elementi rilevabili solo inconsciamente, oppure potrà monitorare filmati che scorrono a velocità molto maggiori del normale.
[26] PARISI F., cit. 2019, p.11
[27] PARISI F., cit. 2019, p.26



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