Pillole di Coscienza Collettiva

 

Alessandro Ceci

                                                                                                                  Latina febbreaioduemilavetidue




 

 

 

Perché un libro, questo libro, che parla di città, della loro evoluzione, della percezione dei suoi cittadini e delle loro molteplici interpretazioni, si intitola Pillole di Coscienza Collettiva?

 

Secondo il politologo irlandese e americano Benedict Anderson[1], le nazioni come le città sarebbero delle “comunità immaginate”. Il confine che Anderson propone non è territoriale, ma cognitivo. Le nazioni, come le città, sostiene  Anderson, sono “entità politiche e culturali inventate il cui potere risiede non solo nell’acquisizione del controllo di un territorio ma anche nell’abilità di guadagnarsi la fedeltà e l’affetto delle numerose ed eterogenee popolazioni che risiedono all’interno dei suoi confini[2]. Tuttavia l’immaginazione di Anderson non è una fantasia totalmente sganciata dalla realtà. È un simbolo, una percezione cognitiva che consente ai cittadini, individualmente e collettivamente, di immaginarsi, di identificarsi con un territorio e la sua narrazione storica. Si tratta di verità che non sono del tutto corrispondenti alla realtà. Poiché sono simbiotiche solo in alcuni aspetti, possono produrre interpretazioni equivoche. In ogni caso, questa “comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana”, si diffonde perché ogni patriota come ogni cittadino, non riesce mai a contenere la complessità della sua comunità di riferimento e lo racchiude all’interno del confine cognitivo definito dalla identificazione di un NOI e un LORO: come cleavage (in cui il noi è contrario e contrapposto al loro e viceversa) o come separtizione (in cui il noi è inscindibilmente insito in loro e viceversa). Si tratta, pertanto, di una immaginazione condivisa, tra i cittadini e con i cittadini, senza mai conoscersi e confrontarsi personalmente, una narrazione ripetuta, direi meglio replicata con ossessione a cui tutti inevitabilmente cedono e concedono una parte della propria omologazione culturale. Ogni strada, ogni piazza, ogni palazzo, ogni crocevia e, più di tutti, ogni monumento sono pieni di immaginazione accumulata e automaticamente trasmessa. E Latina, da questo punto di vista, è un esempio emblematico, rispetto al concetto falso e falsificato di “città di fondazione”, come più volte ho sostenuto.   

 

Ora, queste immaginazioni civiche di sé, enfatizzando un mood emozionale, cioè lavorando sui nodi semiotici strutturali della comunità cittadina, proprio come è stato fatto nel film documentario di Gianfranco Pannone sull’Agro Pontino, producono una identità individuale e collettiva che fa sentire i cittadini come uniti in un comune destino. Si tratta di una Coscienza Collettiva, che ignora quasi sempre quella che Foucault chiamava l’arbitrarietà del segno. Una Coscienza spesso non percepita, occulta, un Incoscio Collettivo che cambia inevitabilmente la vita delle persone, le loro relazioni e le loro appartenenze. L’identità vincola ciascuno di noi ad una propria identificazione.

Il primo autore ad aver pensato ed elaborato il concetto di Inconscio Collettivo, tanto da farne una distinzione e addirittura una frattura con Freud che invece pensava che l’inconscio fosse esclusivamente individuale, fu Carl Gustave Jung. “Ho scelto l’espressione «collettivo» - scrive Jung - perché questo inconscio non è di natura individuale, ma «collettiva» e cioè, al contrario della psiche personale, ha contenuti e comportamenti che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui. In altre parole, è identico per tutti gli uomini e costituisce il substrato psichico comune di natura soprapersonale presente in ciascuno.[3] Dunque, questa è la differenza sostanziale: “I contenuti dell’inconscio personale sono principalmente i cosiddetti «complessi a tonalità affettiva» che costituiscono l’intimità personale della vita psichica. I contenuti invece dell’inconscio collettivo sono i cosiddetti «archetipi».[4]

Com’è evidente Jung pensava che l’inconscio collettivo fosse un Archetipo Universale, che, generazione dopo generazione, nessuno passasse davvero in ombra, ciascuno piuttosto depositasse la propria orma, il proprio segno e il proprio significato, il proprio messaggio, l’identità di sé, la sua presenza nel mondo in questo Repository Globale a cui gli altri, i nuovi, le generazioni future, sia per imprinting come elemento innato, sia per educazione come parte del generale processo di comunicazione, attingono per definire la propria personalità identitaria. L’Archetipo Universale è, per Jung, comune a tutti gli esseri umani esistenti.

Naturalmente, Carl Gustave Jung ha esagerato e l’idea di Archetipo Universale è eccessiva. Fa parte di un’ambizione alla trascendenza che influenza e illude gran parte degli intellettuali, specie quelli in odore di santità.

Tuttavia noi oggi sappiamo e lo sappiamo davvero sulla base di teorie epigenetiche formulate con precisione e sperimentate, che esiste un Archetipo locale, un Archetipo di Prossimità, appunto depositato nelle interconnessioni, nelle interazioni fisiche e mediatiche, nelle nostre città, nelle «immaginazioni collettive» che produciamo, nei miti e nei riti che osserviamo.

Sappiamo che esiste un Archetipo di Prossimità, potentissimo, nel dominio connettivo delle nostre relazioni, ormai definitivamente scoperto, elaborato qualche decennio fa e finalmente giustificato, cioè falsificato su base sperimentale soltanto sei o sette anni fa.

 

Infatti, nel 2015, due gemelli monozigotici, cioè con identica struttura del DNA, Scott e Mark Kelly, entrambi astronauti, sono stati selezionati dalla NASA per un esperimento finalizzato a provare il paradosso di Einstein secondo cui se uno di due gemelli si avventura in un viaggio interstellare a velocità prossime a quelle della luce, lasciando l’altro sulla terra, al ritorno è molto più giovane del fratello stazionario perché il suo tempo si è dilatato. 

La NASA ha prelevato dai gemelli, con identico DNA e simili esperienze di vita, campioni fisici e biologici e a marzo ha spedito Scott in orbita e ha lasciato Mark sulla terra. Complessivamente Scott è rimasto nello spazio per circa un anno; 340 giorni consecutivi.

Al ritorno di Scott dallo spazio, l’analisi comparata dei dati ha dimostrato:

·         intanto che la teoria di Einstein era vera, in quanto i telomeri di Scott, cioè le parti associate ai cromosomi e relativi alla longevità, erano diventati più lunghi e sono tornati normali dopo un certo periodo di permanenza sulla terra;

·         ma l’altra scoperta è stata molto più sorprendente perché al suo ritorno Scott non era più monozigotico rispetto a Mark, il suo DNA era modificato, erano cambiati i livelli sostanziali dei singoli nucleodi, cioè dei mattoncini che edificano il nostro DNA.

 

La ricerca, pubblicata su Nature, mostra inequivocabilmente (questo qui ci interessa) che l’habitat cambia decisamente le persone, nella loro identità culturale e perfino nella formazione del proprio DNA. L’Archetipo di Prossimità, per quanto circoscritto e ridotto, è tuttavia potentissimo.

 

Le città sono le nostre astronavi; luoghi in cui viviamo per molto più di un anno, sebbene non nelle condizioni estreme dello spazio. In molti più anni di vita, strutturiamo ciò che siamo. Amori e disamori, linguaggi e dialetti, inganni e speranze, illusioni e delusioni, insomma vita che rappresenta l’essenza della nostra esistenza. Ed anche ciò che fisicamente siamo, il nostro DNA, una parte definita ed individuabile del nostro DNA. Città astronavi che navigano nell’universo infinito della nostra conoscenza e della nostra cognizione.

Lo aveva capito perfettamente Adriano Olivetti, già nel lontano 1955, quando pubblicò in un volume la somma dei suoi discorsi, con l’inequivocabile titolo di “Città dell’Uomo”. Conosceva Olivetti del limite della ossessiva efficienza, sottratta in questo modo indispensabile efficacia di ogni organizzazione. E già allora affermava: “Si è dato, è vero, a migliaia di contadini della terra e una casa. Si è dato a migliaia di operai un’abitazione spesso infinitamente migliore di quella che prima occupavano. Ma tutto questo è rimasto estraneo alla vita interiore perché a questi pur nuovi organismi, connessi con la bonifica, la riforma, l’edilizia popolare, non si è dato un cuore affinché gli animi potessero pulsare fiduciosi verso un comune ideale. L’uomo sembra insediarsi come ospite provvisorio, non partecipa in forme democratiche autentiche, in forme esemplari di vita associate alla sua emancipazione e alla sua liberazione.[5]

È un auspicio che dura, da allora, ancora ora, se le città, come spesso accade in questa epoca mediatica e con l’avvento della società della comunicazione, non sono attratte dall’arbitrarietà politica del segno e alla superficialità dei significati che invadono la nostra mente tramite le televisioni generaliste. A causa della vacuità delle parole, le nostre città/astronavi diventano talvolta inconcludenti, sbagliano decisamente navigazione e si perdono, come l’Enterprise, oltre i confini dell’universo noto. Sprofondano, anzi, in un declino culturale e cognitivo, come è successo per anni a Latina, in cui si è imposta la becera narrazione di città di fondazione, occultando il fatto che Latina è la capitale di un distretto della modernità unico al mondo.

 A queste città e ai suoi cittadini, noi non possiamo che offrire pillole di interpretazione, forse utili, a definire la propria coscienza collettiva. 

Appunto: Pillole di Coscienza Collettiva.


[1] Anderson Benedict, Comunità Immaginate. Origini e fortuna del nazionalismo, Laterza, Bari 2018 

[2] Anderson B., cit. 2018, p.11

[3] Jung Carl G., Gli Archetipi dell’Incoscio Collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 16.

[4] Jung Carl G., cit. 1977, p. 16.

[5] Olivetti Adriano, Città dell’uomo, Edizioni Comunità, Torino 2001, p. 49

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