1 - ‘ASABIYYA - perché l’Islam è l’unica religione globale

Sapranno i nuovi Taliban in Afghanistan disancorare la religione dal tribalismo?


                                     

    Ho letto l’importante libro di Khaled Fouad Allam[1] poco prima di conoscerlo ad una conferenza che tenemmo assieme nella terza Università di Roma. Poi andammo a cena in una nota osteria di Testaccio, il popolare quartiere di Roma. Parlammo tutta la serata di terrorismo ed Islam. Alla fine, a tarda sera, lo riaccompagnai nell’albergo che lo ospitava usualmente e dove lo trovarono morto una mattina, qualche mese dopo, a causa di un infarto fulminante.

    Ho dimenticato, in tutti i nostri successivi colloqui, di chiedere perché, secondo lui, l’Islam, a differenza di tante altre religioni che pure sono state millenariste o universali, è diventato globale. Ancor di più, come mai l’Islam è diventato globale quando la globalizzazione è il connotato tipico delle società moderne: moderne proprio perché secolarizzate?

    Scrive Fouad Allam: “Storicamente, l’Islam è nato in una società fortemente segmentaria, in cui è il gruppo e non l’individuo che definisce la società.”[2] Per Fouad Allam l’Afghanistan è l’esempio significativo di un “doppio livello di strutturazione della società[3]. La fede riesce ad unire diverse etnie: l’unità fideistica e la differenziazione etnica. Si tratta di un doppio binario integrato con una particolare valenza storica: “in tutta la storia della civiltà islamica si sono contrapposte due concezioni: la fratellanza di sangue (‘asabiyya) e la fratellanza di fede (umma)”[4]. Un doppio binario con una doppia funzione: con la ‘asabiyya, cioè la fratellanza di sangue, si distribuisce il potere; con la umma s’identifica la comunità.

    Il primo autore che ha ben chiarito queste due diverse funzioni è stato il noto intellettuale maghrebino Ibn Khaldûn (1332-1406), il quale però intendeva per ‘asabiyya, non il legame di sangue, ma lo “spirito di corpo[5].

    Quando una società entra in un periodo di crisi o di turbolenza, sosteneva, gli intellettuali cominciano a porsi seri problemi relativi alle cause e, se necessario, alle soluzioni. La prima, profonda, direi strutturale, di crisi del mondo arabo-islamico avvenne nel XIV secolo: il secolo di Ibn Khaldûn. In quel periodo storico, il Maghreb attraversò una terribile peste, lotte intestine tra le dinastie, diversi sconvolgimenti politici e sociali. Dall’alto del suo ruolo istituzionale, di cortigiano e ambasciatore, Ibn Khaldûn osservò l’instabile periodo. Al servizio della dinastia tunisina degli Hafsidi, con importanti ruoli politici, Ibn Khaldûn apprese le dinamiche di potere e gli intrighi che tramavano nelle corti.

    Come tutti gli intellettuali dell’epoca Khaldûn si è occupato di svariati temi, dalla applicazione della epistemologia alle scienze sociali alla teoria dei climi, dalla storia ciclica ai trends di sviluppo e reazione dei cicli economici. Tuttavia a noi interessa qui ora la sua teoria del potere, che è anche il tema fondamentale della sua elaborazione. Con il realismo politico che lo contraddistingueva, Khaldûn si concentrò sul concetto di forza, la forza interna che lega i soggetti e distribuisce il potere e la forza esterna che permette a determinate civiltà di raggiungere la gloria o di sprofondare nella rovina. La forza, diremmo oggi l’energia, ha permesso la strutturazione di alcune funzioni sociali in istituzioni, ha permesso le aggregazioni sociali per identità linguistica, per comunanza di sangue, per comportamenti di gruppo. Il suo paradigma generale è poco comprensibile per la percezione occidentale. Egli lega la crisi e la decadenza delle nazioni alla sedentarietà e al movimento delle popolazioni. Anzi, nemmeno delle popolazioni, ma delle intere nazioni. Le civiltà sedentarie sono il presupposto di invasioni e guerre perché incrementano la loro presenza demografica, perché il lusso che deriva dalla sedentarietà produce conseguenze sociali e politiche, perché incrementa eccessivamente la coesione interna.

    Abd al-Rahman Ibn Khaldûn divide l’uomo sulla base di due diversi modelli culturali: ‘umran badawi, l’uomo che vive nella società di campagna, nella gemeinschaft, nella comunità e ‘umran hadari l’uomo che vive nella società di città, nella gesellschaft, nella società. Le due realtà però non sono in contrapposizione. La città è una evoluzione della campagna e, in questa sintesi, lo Stato si istituisce integrando i reciproci connotati.

    Ora, questo è il punto che ci interessa qui per denotare la natura politica degli Stati islamici, il potere si distribuisce, non per vincolo consanguineo di parentela (fratellanza di sangue), né per vincolo di affiliazione religiosa (vincolo di fede), ma per “spirito di corpo”. Questo è l’importante messaggio di Ibn Khaldûn: il potere viene attribuito il base alla ‘asabiyya cioè per “spirito di corpo” o, come diremmo noi oggi, per “gruppo di pari”. E i fattori che determinano ‘asabiyya (“spirito di corpo”), sono tre: legami di sangue, di alleanza e di clientela. Sono fattori interagenti ed estensivi. Una volta che il gruppo ha preso il potere, si trasforma in dinastia e si estende per avere sotto il proprio controllo tutti gli apparati dello Stato. Quando alla fine il potere del gruppo si radicato, tramite il controllo e spesso l’asservimento delle istituzioni locali, viene definito come “mulk”, cioè come regalità nazionale.

    Nella acquisizione e distribuzione del potere, per Khaldûn, la religione non è contemplata; ma non è nemmeno esclusa. La religione è indispensabile per tenere unita la umma: “Le varie identità di appartenenza talvolta ritenute antitetiche e concorrenziali, nell’Islam sono invece complementari, perché articolano il legame sociale con l’identità religiosa[6]. L’‘asabiyya, invece, “è un vettore che determina controlla e consolida il potere di un gruppo sull’altro[7], e fa da argine, in qualche modo e con più o meno efficacia, alla trasformazione dei valori originari della campagna nell’artificio corruttore urbanistico. La Gemeischaft, per arginare la dirompenza distruttrice della Gesellschaft, “provoca il confluire di una logica comunitaria in una logica che si potrebbe dire preindustriale, realizzando così un neopatrimonialismo[8]. In questo senso, dunque, il ruolo della religione è quello di avvolgere le diversità, di ricondurle ad unità storica, di legittimare il potere con una ragione globale oltre la forza del gruppo. In questo senso: “l’identità religiosa, invece di frammentare le identità tribali, le ha rese più forti perché ha fornito loro un quadro di legittimità storica”.[9]

    Siamo nel 1360 circa. “Il Principe” di Machiavelli vide la sua prima pubblicazione nel 1532. Ci vorranno ancora 200 anni circa perché in Occidente si introduca la scienza (e non ancora la epistemologia) nella politica. Ma per introdurre il concetto di gruppo ci vorrà addirittura il 1950, con la prima pubblicazione presso la Yale University Press, del testo di David Riesman “La folla Solitara[10]. Nel 1950 

    David Riesman si pose lo stesso problema di Ibn Khaldûn nel XIV secolo: nella società contemporanea, chi ha il potere? E risponde allo stesso modo: i gruppi dotati del potere di veto. “Oggi abbiamo sostituito a questa direzione una serie di gruppi, ciascuno dei quali si è sforzato di ottenere e infine ha ottenuto il potere di impedire le cose ritenute contrarie ai suoi interessi e, entro ben angusti limiti, di promuoverne altre.”[11] Torna lo spirito di corpo sotto il nome di eterodirezione del gruppo di pari. Come Ibn Khaldûn, David Riesman vede una società fatta di gruppi apparentemente concorrenziali: “I vari gruppi affaristici, grandi e piccoli, i gruppi addetti alla censura dei films, i gruppi degli agricoltori, i gruppi dei lavoratori e dei professionisti, i maggiori gruppi etnici e i maggiori gruppi regionali, sono in molti casi riusciti a destreggiarsi fino ad una posizione in cui sono in grado di neutralizzare quelli che potrebbero attaccarli.[12] Come Khaldûn, Riesman vede proliferare questi gruppi e in questa proliferazione riconosce un cambiamento sociale: “L’aumento stesso del numero di questi gruppi, e delle specie d’interessi, «pratici» e «mitici», che essi proteggono, segna, d’altronde, un cambiamento decisivo rispetto alle camerille di un periodo precedente.[13] Come Khaldûn, Riesman individua tra tutti questi gruppi in espansione quelli che hanno un potere reale, anche se si tratta principalmente di un potere di veto: “Questi gruppi dotati di veto non sono né guide, né guidati[14], sono eterodiretti dalla mano invisibile della loro identità, dallo spirito di corpo. Come Khaldûn, Riesman definisce apparente la concorrenza tra gruppi: “tra i gruppi con veto la concorrenza è monopolistica: regole di lealtà e di colleganza indicano fin dove si può procedere.[15] Come Khaldûn, Riesman vede questi gruppi occupare gli spazi istituzionali per orientare la società: “i gruppi con veto, per le condizioni che la loro presenza crea e per le esigenze che essi pongono alla direzione politica, incoraggiano la disposizione tollerante dell’eterodirezione e affrettano il declino degli intolleranti auto diretti.[16] E proprio come Khaldûn, infine, Riesman lascia alla religione la funzione sociale unificante indispensabile alla gestione del potere: “Come contrapposto, la Chiesa Cattolica Americana possiede un immenso potere di veto, perché combina una certa somma di comando centralizzato […] con un clero altamente decentralizzato […] e con una organizzazione di fedeli a largo raggio etico, sociale e politico.[17]

    Che cosa significa questa ampia similitudine, naturalmente coeteris paribus?
    Che Khaldûn sia stato un precursore?
    Che Riesman abbia ripreso una sociologia e una filosofia politica araba antica?
    Né l’uno, né l’altro.

    Significa che l’Islam è l’unica religione globale perché rappresenta un network fatto di poli (gruppi), con un potere relazionale che viaggia sulle connessioni, dove naturalmente un polo pesa maggiormente di un altro (potere di veto), che, senza una stratificazione gerarchica verticale, rende concavo lo spazio attorno alla propria identità (spirito di corpo) e controlla l’unità della società con una narrazione (religione) che è lo strumento di mentalizzazione più efficace di tutti, da sempre e specie nella società della comunicazione.

    Significa, implicitamente, che avendo precorso, anticipato, ostruito le evoluzioni storiche necessarie per modernizzare la società, la religione islamica ha bloccato lo sviluppo e l’emancipazione del mondo arabo; lo ha, se non reso definitivamente statico, notevolmente rallentato. Ne ha frenato lo sviluppo. Ha costretto il ricco e molteplice mondo arabo a rivolgere il suo sguardo al passato piuttosto che al futuro. Ha ristretto la vita dentro i rigidi vincoli di una adesione ai simboli di una religione senza significati, deriva teocratica patristica evitata alla Chiesa Cattolica un secolo prima di Khaldûn, un poco da Tommaso D’Aquino e moltissimo da Marsilio da Padova.

    Ha ragione Fouad Allam: “Questa configurazione è compatibile con le caratteristiche della trasformazione dello stato nell’era globale: emergere di un settore privato che tende a sostituirsi a una logica di stato (fine dello stato-provvidenza), teorizzazione di uno stato minimo detto anche «stato leggero» che permette l’articolazione di una logica di gruppo – gruppo di affinità, gruppo di interesse – anche se all’interno di una società atomizzata. Queste logiche di gruppo che si muovono in uno spazio transnazionale rendono più facile l’adattamento del mondo islamico al nomadismo dell’era globale.[18]

    E la religione?
    Per garantire l’identità comunitaria per l’intero mondo arabo, lo ha schiacciato all’antico tribalismo, ha rafforzato le tribù, “ha fornito loro un quadro di legittimità storica[19].

    Sapranno i nuovi Taliban in Afghanistan, pur restando dentro il paradigma della sharīʿa, disancorare la religione dal tribalismo, come già avvenuto in altri stati di religione islamica?

    I vecchi Taliban non sono riusciti ed hanno portato e riportato il paese in conflitti intestini devastanti, in una guerra infinita contro diversi nemici.

    I nuovi lo faranno?

    I Taliban di oggi sono parzialmente nuovi. Sono sempre orientati da valori e referenti tradizionali, talvolta ancora tribali. Sono sempre egemonizzati dalla vecchia guardia di Kandahar che ne definisce l’ideologia, la tattica militare e la struttura del potere. Tuttavia questi nuovi Taliban sono molto più mediatici e moltissimo più pragmatici. Non sono due innovazioni da poco. Anzi, sono due innovazioni che orientano in modo determinante il loro processo decisionale. Mediaticità e pragmatismo consentono al nuovo governo Afghano di essere riconoscibile ed eventualmente riconosciuto sul piano internazionale. Tutto questo potrà avvenire se i Taliban libereranno la loro religione dall’abbraccio mortale del tribalismo. L’inversione di tendenza è tutta qui.

    Se lo faranno, parteciperanno come protagonisti alla strutturazione della Piattaforma Continentale di Nazionalità. Se non lo faranno, temo, che la conflittualità permanente li ricondurrà ad una condizione di marginalità storica e politica; perché la distruzione dell’altro non permette mai alcuna forma di costruzione del sé.

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[1] Allam Khaled Fouad, L’Islam Globale, Rizzoli, Milano 2002
[2] Allam K. F., cit. 2002, p. 143
[3] Allam K. F., cit. 2002, p. 143
[4] Allam K. F., cit. 2002, p. 144
[5] Allam K. F., cit. 2002, p. 144
[6] Allam K. F., cit. 2002, p. 144
[7] Allam K. F., cit. 2002, p. 145
[8] Allam K. F., cit. 2002, p. 145
[9]Allam K. F., cit. 2002, p. 144
[10] Riesman David, La Folla Solitaria, Il Mulino, Bologna 1956
[11] D. Riesman, cit. 1956, p.258
[12] D. Riesman, cit. 1956, p.259
[13] D. Riesman, cit. 1956, p.259
[14] D. Riesman, cit. 1956, p.260
[15] D. Riesman, cit. 1956, p.260
[16] D. Riesman, cit. 1956, p.263
[17] D. Riesman, cit. 1956, p.263
[18] F. K. Allam, cit. 2002, 145
[19] F. K. Allam, cit. 2002, 146






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