ASTERISCO (note a margine di me): IL SOLCO

 


agostoduemilaventuno



    Ho riletto, per vari motivi, la celeberrima lettera che Hannah Arendt scrisse a Karl Jasper il 9 luglio 1946[1].
    La lettera è nota perché raccoglie in poche righe le impressioni sul rapporto tra Edmund Husserl e Martin Heidegger. La lettera è molto esplicativa (e altrettanto esplicita) sul comportamento vile e opportunistico di Heidegger, che Hannah Arendt definisce “nient’altro che un potenziale assassino[2]

    Tuttavia non è questo che qui interessa.

    Nella lettera c’è un passaggio molto bello e, per le dinamiche della nostra vita, molto più importante: “Le risponderei che il vero irreparabile si presenta spesso con i caratteri (illusori) di un mero accidente. Talvolta, su un’impercettibile linea di confine che noi varchiamo tranquillamente, fiduciosi che non avverrà alcuna conseguenza, si erge una muraglia capace di separare veramente alcuni uomini da altri.[3]

    Quante volte ci è accaduto? E non solo con conoscenti o amici. Con parenti, figli, genitori addirittura e più frequentemente. Hannah Arendt lo descrive magistralmente: cose futili e vacue situazioni, “un mero accidente”, generano un incidente banale, “i caratteri (illusori)”, che diventa per distrazione ed indifferenza una condizione irreversibile di separazione, “il vero irreperabile”. Convinti che il nostro rapporto sia saldo e tenace, “fiduciosi che non avverrà alcuna conseguenza”, noi eccediamo senza controllo, superiamo un limite di cui ignoriamo l’esistenza, “un’impercettibile linea di confine che noi varchiamo tranquillamente”, e che trasforma l’amicizia in definitiva distanza, abbandono, irrecuperabile silenzio e chiusura definitiva, “si erge una muraglia capace di separare veramente alcuni uomini da altri”.

    Siamo ancora nel 1946, subito dopo la guerra, e il concetto di “banalità del male” era già in nuce nel pensiero della Arendt. Il famoso libro fu pubblicato solo nel 1963, come reportage del processo al gerarca nazista Eichmann, per il giornale americano New Yorker[4]. Evidentemente, quel pensiero, è emerso come conseguenza di diverse e dolorose vicende, fughe e tradimenti nel corpo e nella mente che Hannah aveva, nella sua esperienza di vita, da anni e per anni subito.
Certamente anche la nostra esperienza di vita è piena di questi frutti velenosi.
La mia sicuramente lo è stata.

    Amici che abbiamo perduto, compagne e compagni che non abbiamo più visto, amori che non ricordiamo, separazioni che abbiamo definitivamente rimosso. Dove sono andati? Dove sono finiti? Che vite vivranno coloro che sembravano certezze, invalicabili referenti della nostra esistenza e che ora sono semplicemente scomparsi nel nulla, in una distanza che ne disarticola le fattezze, che scompone le forme. Alla fine, distratti e indifferenti, ricordiamo una eterea icona di qualcuno o qualcosa che non è più. D’altronde, questo dileguarsi nella distanza che il quotidiano impone alla vita, è reciproca, vale pure per noi. Anche noi dissolviamo, pian piano, nella memoria dell'altro, di coloro che abbiamo frequentato. E se è vero, come diceva Pirandello, che nessuno è mai morto se vive nella mente di un solo amico, questo evaporare nel ricordo è il modo che abbiamo di morire ogni giorno.

Però…
       ...però è anche un modo per sopravvivere, per ricominciare con altri, altrove, in altro modo, cercando di sbagliare di meno, attenti a non superare i confini, a non rendere definitive le piccole incomprensioni, ad ignorare il passato per poter vivere meglio il futuro, con meno astio, con maggiore accortezza. Gli uomini costruiscono involontariamente distanze incolmabili e mura invalicabili; ma, come scriveva Charles Bukowski, quelle mura “aiutano a sopportare il sequestro[5].

Questo allora è il punto: la muraglia che separa irrevocabilmente gli uomini, così come l’ha descritta Hannah Arendt, immateriale eppure costruita dentro un solco che ogni giorno si fa più profondo e che costituisce il confine che abbiamo varcato tranquillamente, come migranti dell’anima, sostituendo connessioni e cambiando connotazioni, quelle stesse mura ci sequestrano. Era l’illusione di Trump che, mentre costruiva un muro contro per bloccare gli accessi, isolava inevitabilmente l’America dal mondo. E questo isolamento costituiva la sua inevitabile riduzione.

    Il “vero irreparabile”, come lo chiama Arendt, è questa no man’s land, la terra di ciascuno dove non c'è nessuno, dove le isolate speranze si trasformano in illusioni, i timori in angosce e le angosce in ansie, C’è in noi una no man’s land dove si depositano e si rivisitano i ricordi, le immagini, gli angoli di un quartiere, di quel cortile dell’infanzia, le strade di una città, gli spazi inusuali che non ti aspettavi, dove depositare un dolore, proprio in quella città, i rifugi inattesi della sessualità e la sensualità invadente, invasive che distingue l’amore. La no man’s land è un luogo inaccessibile, il posto dove si esercitano i pensieri, la stanza disordinata dentro di noi. Ed è il luogo, questo è l’orrore che inconsapevolmente compiamo, dove l’uomo non è indispensabile.

    Insomma, quando, con disprezzo e superficialità, tracciamo il presuntuoso solco della distanza, quando attraversiamo quel confine che non dovremmo attraversare, ci isoliamo e rischiamo di vivere in una no man’s land, una terra senza uomini.

ooo/ooo


[1] DAL LAGO Alessandro (a cura di), Hannah Arendt Karl Jaspers. Carteggio. Filosofie e politica, Feltrinelli, Milano 1989, p. 61
[2] DAL LAGO A., cit.1989, p.62
[3] DAL LAGO A., cit.1989, p.62
[4] La prima edizione del libro si intitolava infatti Eichmann In Jerusalem e la banalità del male era solo un sottotitolo. ARENDT Hannah, Eichmann in Jerusalem. A Report on banality of Evil, (trad. It.) La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, I edizione, ottobre 1964
[5]Oziando nella foresta della mia stanza / con alberi di tungsteno; la civetta del caffè bollente, / ragnatele brinate d’oro sopra le finestre / lo sguardo fisso all’inferno che c’è fuori; / fiato di sigarette: statue di perfezione, / né impagliate o trascinate via/in cancri di vaniloquio; / ruote e motori strisciano/fino a gassosi arresti lungo il dente di sciabola; / i miei alberi formicolano di rime scimmiesche, / sfondano il soffitto con i rami / rompendo le antenne della TV / e l’urlo cavernoso delle risate in scatola, / dello spirito in scatola, della morte in scatola; / oziando, oziando in questa foresta, / calle, erba, pietra, / l’uniforme pace notturna / senza facce né bombardieri, / e io sogno il sogno di pietra,/il sogno d’erba,/il fiume che mi scorre / attraverso le ossa delle dita / centocinquant’anni fa, / lasciando chiazze di graniglia e d’oro/c/ radio, / alzato e rivoltato da pesci istupiditi e lasciato cadere, sollevando granelli di sabbia nel sonno… / La civetta sputa il suo caffè, / le mie scimmie illustrano il piano incomprensibile, e i miei muri ,/ i miei muri aiutano a sopportare il sequestro.” In BUKOWSKI Charles, Poesie, Mondadori, Milano 1998

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