SOCIALISM LIFE 17 - separtizione e riforme


È facile contestare la conclusione (se la conclusione è sempre in qualche modo una sintesi), un po’ esaltata a dire il vero, del libro di Donatella Di Cesare[1] sulla rivolta che sostituisce la rivoluzione: “Così, ma con accentuato valore politico, la rivolta non solo mette a distanza l’abituale e l’abitudine, ma invita un altro modo di abitare il tempo. Chiama e richiama alla storia comune, affinché non sfugga via indifferente e imperturbabile. Laboratorio del riscatto, tempo di liberazione, che mentre affranca dai vecchi vincoli, lega in modo nuovo, che mentre estranea, accomuna, la rivolta non è evasione, rifugio dal tempo storico, né mezzo effimero in vista di un fine più alto. Piuttosto è passaggio anarchico a uno spazio di tempo dove il dopodomani non è evocato, ma già vissuto, nell’affrancamento dal luogo, dall’identità, dall’appartenenza, nella violazione delle frontiere nazionali e dei confini statuali, nel disimpegno dall’architettura politica.

Il compianto Lucano Pellicani, mio professore alla tesi di laurea, scomparso ultimamente a causa del Covid, avrebbe probabilmente bollato, non a torto, il testo euforico, come “l’ultimo avatara del mito del Salvatore-Salvato, nel quale la volontà di autoredenzione dell’antica Gnosi si fonde con l’attesa di una rottura con il passato, capace, per la sua radicalità, di porre fine alla preistoria dell’umanità e di restaurare la Grande Armonia Universale disintegrata dal disfrenamento della brama del lucro.[2] Avatara è un antico termine sanscrito (अवतार ) che segnala la discesa dal cielo e il discendente in terra che deve trovarsi in un determinato spazio e tempo al posto giusto, in modo, non solo di essere testimone e artefice dell’avvento futuro, ma di essere al tempo stesso incarnato nella divinità o nella società che verrà[3]. Naturalmente, ad alcuni non a me, lo stile radicale dell’oratoria di Pellicani può apparire esagerato rispetto alle buone intenzioni di Donatella Di Cesare. Resta tuttavia il fatto che torna un paradigma che esprime “un mondo indiretto di dire che la rivoluzione non poteva vincere sul terreno della democrazia, conquistando il consenso della maggioranza e rispettando il diritto delle minoranze.[4] E a me sembra che, quella di Donatella Di Cesare, nonostante i tentativi di evidenziare le differenze, in fondo sia una riedizione forzata del pensiero politico dei rivoluzionari, nella veste dei rivoltosi.

C’è però un tema, che oggi diventa centrale rispetto alla riconcettualizzazione della filosofia politica nella società della comunicazione ed in epoca di network. Donatella Di Cesare esprime un pensiero comune, proposto alla politica da Carl Smith; e cioè che ci sia uno spazio interno ed uno spazio esterno della politica, una dimensione distinta tra politica e non politica, certamente estranea, ai bordi, ma talvolta esterna. “La protesta ha, dunque, un tenore differente. Si interroga sulla sorte della democrazia, punta l’indice sui luoghi della decisione e sui limiti della politica. Affiora così un’altra visione che non solo è extraistituzionale, ma si situa ai bordi della politica e mette in discussione tutta la trama concettuale – dal tema della sovranità a quello del contratto, dall’idea di nazione a quella di cittadinanza e di frontiera statuale – che ha intessuto il pensiero politico moderno.[5]

Questo è davvero datato; è il vecchio problema del dogma centrale, che ci sia cioè un centro in cui alberga il potere e una protesta dislocata: “Quel che colpisce, nelle relazioni attuali, è che la questione del luogo, a parte la drammaturgia dello scontro, passa in secondo piano, mentre la rivolta è un evento che spinge a scendere in piazza, esonerando così il potere dalla sua pretesa centralità, riconoscendone il vuoto, l’assenza di fondo. Questo dislocamento è decisivo.[6]

Le Brigate Rosse cercavano di colpire il cuore dello Stato, ma non avevano capito che lo stato non ha cuore. La società della comunicazione non funziona assolutamente così. È costituita da network integrati, cioè senza un centro, a differenza dei network segregati che sono formati da un centro direzionale. Integrazione è il termine della comunicazione. Nella società della comunicazione niente è separato, tutto, proprio tutto (ed anche la rivolta, dunque) è separtito.

Il primo a trattare il concetto di separtizione, nel Seminario X, è stato Lacan, secondo il quale, appunto, “La separtizione fondamentale – non separazione ma partizione all’interno – ecco cosa si trova iscritto sin dall’origine…in quella che sarà la strutturazione del desiderio[7].

Prendiamo il concetto non dal punto di vista psicoanalitico, ma dal punto di vista delle scienze sociali e della politica.
Possiamo sostenere che la società della comunicazione procede separtendo, cioè non separando, ma costruendo delle partizioni interne, in modo che siano iscritte fin dall’inizio (e poi via via nel corso degli anni) nel nostro archetipo collettivo.
Noi abbiamo quotidianamente davanti agli occhi un esempio eclatante ed esplicativo di separtizione.
Ogni giorno, ed anche io in questo stesso momento, utilizziamo un computer per scrivere o connetterci con il mondo. Il file che apriamo per le nostre esigenze di scrittura, non esiste in realtà. Nel nostro hard-disk riposano tanti pezzettini diversi di quel file, chi in una parte chi in un’altra, dentro l’intero corpo del nostro data base. Quando apriamo quel file, in pochi decimi di secondo, una funzione cluster raccoglie tutti questi frammenti sparsi, li assembla e li ordina. Il computer ci offre il file separtito dal resto dei dati al nostro godimento, con un ordine preciso prestabilito e con una inequivocabile identità. Lavoriamo sul file separtito, cioè differenziato ma non separato dall’interno del computer; un file frammentato nel corpo dell’Hard-disk e raccolto a soddisfazione del nostro bisogno: “la separtizione è un evento che si produce nel soggetto stesso; è un evento della sua partizione interna[8].
Questo accade, nella società della comunicazione, anche per gli eventi politici, rivolte comprese. Noi possiamo riconcettuale l’azione e la relazione politica, o anche gli eventi della politica, non soltanto con la dicotomia spazio pubblico / spazio privato, come pure chiedeva che si facesse Hannah Arendt, ma secondo la nuova tipologia espressiva o comunicativa della separtizione. Perché è proprio la separtizione che consente l’assunzione di una identità e di una identificazione dei movimenti, rivolta compresa. Infatti, Massimo Recalcati (assolutamente affidabile su Lacan) ci insegna che la separtizione è un atto di soggettivazione: “La figura della separtizione – spiega – è centrale per cogliere il processo di soggettivazione e investe più che la coppia madre-bambino, la coppia significante-godimento.[9]

Se utilizziamo la categoria concettuale della separtizione, possiamo sostenere che i movimenti che si riuniscono in protesta o si rivoltano contro la politica, quando assumono una pur minima rappresentazione comunicativa, perdono alcune loro connotazioni politiche (prevalentemente indirizzate alla individualizzazione del movimento), per acquisirne altre, nuove, di natura mediatica. Questo cambia totalmente la relazione politica che non è più riferita alla dicotomia pubblico/privato, ma dalla tipologia del messaggio, dalla relazione responsiva che il significante genera sul proscenio dell’utenza politica. È la rappresentazione della domanda politica, indipendentemente dalla motivazione che induce l’azione, che distingue, senza separare, il soggetto politico attore, l’informazione lo evidenzia, la comunicazione lo differenzia. Appunto una separtizione senza separazione.

In questo senso, ogni soggetto politico, anche i rivoltosi e, al limite, perfino i rivoluzionari, restano intrappolati in quella che Donatella Di Cesare chiama “architettura politica”. Non possono uscirne. Assumono una condizione storica, restano in simbiosi l’uno con l’altro e nessuno può separarsi più. La rivolta resta incardinata al network politico e non può scindersi. Diventa una opposizione complementare che non è più definibile senza l’habitat e viene ripetutamente riprodotta ogni volta che necessita. Fino al punto di rafforzare, a causa della sua separtizione politica, il network a cui si riferisce. Ad esempio: la più dolorosa ed emblematica azione di rivolta contro l’Occidente, condotta da chi era ai bordi, se non addirittura fuori dall’Occidente, l’attentato alle Twin Towers, oltre il dramma delle vittime, alla fine, proprio in quanto separtizione ripetuta ogni anno in commemorazione dell’evento diventa una forma di elaborazione del lutto, un rafforzamento della logica e della cultura dell’Occidente. Quell’attentato prodotto da soggetti ai margini è definitivamente incardinato all’Occidente e al suo potere sul mondo. È ormai simbiotico con la evoluzione politica successiva. Vale lo stesso fenomeno di responsività anche per la rivolta contro il Campidoglio degli Stati Uniti indotta da Trump su cittadini che vivono ai margini della politica, che alla fine ha rafforzato la democrazia americana e il potere del Presidente Biden.

La Relazione Responsiva è la logica della società della comunicazione, in cui ogni evento politico resta nel soggetto politico, ogni soggetto politico resta nel contesto politico; dove non c’è più centro e non ci sono più bordi marginali. I soggetti politici si formano clusterizzando il malcontento, il disagio e si trasformano in protesa, anche in rivolta che, se non si solidifica con una riforma politica, viene archiviata, proprio come un file non più aperto che resta frammentato senza l’input che induce ad una sua rappresentazione. Le rivolte che non approdano a delle riforme lasciano nella società frammenti sparsi, dispersi nell’enorme data base del network politico. L’uno può separartire dall’altro per soggettivizzarsi; ma se non ha sbocco in una riforma, non è nemmeno una partizione interna per quanto insignificante. Nella società della comunicazione (sospetto in ogni società) i soggetti politici, le loro azioni e le loro relazioni, restano comunque imprigionati nel contesto politico di riferimento.

La forza del riformismo di sempre è tutta qui. E non è poco. Il soggetto può comprendere la politica solo se viene considerato una “partizione interna” del processo di riforma nell’ambito della sua motivazione genetica. Non un soggetto politico border line, quindi; tantomeno una entità estranea o addirittura esterna, che agisce sulla base di un proprio pregiudizio morale utile al riconoscimento della sua stessa probità e della sua stessa autostima.
Il riformismo poiché considera comunque i soggetti politici e/o gli eventi come partizione interna dell’intero habitat sociale o del complessivo network politico, li riconosce, individua una loro identità e produce una innovazione politica per la società e per la democrazia.
È ben per questo, infine, che per i riformisti la politica non si interrompe mai.
Per il pensiero politico rivoluzionario o rivoltoso, la politica è circoscritta a quell’azione e/o a quell’evento, è circoscritta al momento della rivoluzione o della rivolta. La concezione gnostica, per tornare a Pellicani, che sia rivoluzionaria o rivoltosa, considera la politica ad intermittenza. Prima o dopo l’azione sembra che svanisca, si sospenda. La politica è attiva soltanto nel momento della rivoluzione o della rivolta. Poi non c’è più. Non serve, non è utile. Sembra quasi che disturbi.
Per il riformismo invece no. C’è sempre una possibilità migliorativa, una condizione successiva, una opportunità realizzabile. Nel riformismo la funzione politica è costantemente attiva. Viene rappresentata ma non viene delegata, perché il socialismo è la vita di tutti i giorni, la quotidianità dell’esistenza, la risoluzione delle condizioni sociali da cui sorge il dolore individuale e collettivo. La giustizia socialista si diffonde e si distribuisce in ogni ora, in ogni minuto di ogni habitat sociale. Non vuole realizzare una società dei giusti. Se ci fosse questa possibilità, su un giorno chissà quando la società dei giusti avvenisse, quel giorno la politica non avrebbe più alcun senso, verrebbe in qualche modo abrogata, come puntualmente previsto da Marx nella sua società comunista realizzata..
Il riformismo crede che la società dei giusti non potrà mai essere realizzata; ma non perde mai la speranza perché la giustizia può essere migliorata. Anzi, come disse Bauman, per i socialisti riformisti la società più giusta è quella che pensa costantemente di essere ingiusta.










[1] DI CESARE Donatella, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2020


[2] PELLICANI Luciano, La società dei giusti. Parabola storica dello Gnosticismo rivoluzionario., Rubettino, Soveria Mannelli 2012, p.9



[3] (Sanscrito) «yadā yadā hi dharmasya glānir bhavati bhārata abhyutthānam adharmasya tadātmānaṃ sṛjāmy aham paritrāṇāya sādhūnāṃ vināśāya ca duṣkṛtām dharmasaṃsthāpanārthāya saṃbhavāmi yuge yuge». (Italiano) «Così ogni volta che l’ordine (Dharma) viene a mancare e il disordine avanza, io stesso produco me stesso, per proteggere i buoni e distruggere i malvagi, per ristabilire l'ordine, di era in era, io nasco.»





[4] PELLICANI L., cit. 2012, p. 101


[5] P.59


[6] P.65


[7] LACAN Jacques, Seminari – Libro X - , Einaudi, Torino 2007, pag. 256


[8] RECALCATI M., cit. 2012


[9] RECALCATI Massimo, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, vol.1, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012

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