SOCIALISM LIFE 16 - Rivoluzione, Rivolta, Riforma

 




In una pagina del recente libro di Donatella Di Cesare[1] c’è tutta la cecità filosofica e storica degli intellettuali dialettici, direi dicotomici, di provenienza hegeliana o marxista[2]: da una parte, il potere regolatore interno, impuro e corruttore; dall’altro, l’azione salvifica, evangelica, delle rivoluzioni esterne, di partigiani, di moltitudini, di masse, di ribelli missionari messianici.

Sintetizzo per chi non avesse letto il libro.

Donatella Di Cesare riporta un articolo del 2014, intitolato significativamente “Perché oggi non è possibile nessuna rivoluzione”, che a sua volta riporta un dibattito tra Byung-Chul Han e Antonio Negri in un teatro di Berlino. Il suo resoconto è questo: “Alla prospettiva ottimistica di Negri, alla sua «troppo ingenua» speranza nell’insurrezione della moltitudine contro l’Impero, Han replica sottolineando la stabilità del sistema neoliberale che non è repressivo, bensì seduttivo. Proprio per ciò riesce a neutralizzare quella labile resistenza che sopravvive. Ogni lotta di classe si muta nel conflitto dentro il singolo che, anziché incolpare la società, incolpa se stesso. Così questo regime si immunizza costantemente. I singoli, già sempre sconfitti e isolati, divisi da una spietata competizione, non solidarizzano, non si uniscono in una moltitudine, non si sollevano in una rivoluzione o in una protesta globale.[3]

Intanto bisognerebbe capire perché una proposta rivoluzionaria è “ottimistica”, perché l’insurrezione della moltitudine contro l’Impero (che sembra una puntata di Star Wars) è una “troppo ingenua speranza”. Perché il potere è il male assoluto e il non-potere il bene assoluto? Vale davvero la pena concentrare il pensiero politico su questa dialettica immaginifica e immaginaria, ottocentesca, che la storia e la filosofìa politica stessa ha abbondantemente cancellato?

Nel novecento, quel profondo socialista di Bertrand Russell spiegò al mondo che la dicotomia tra Demone e Dio, tracciata dalla detenzione o meno del potere, era stupida, o meglio, insignificante; e che il potere sta alle scienze sociali come l’energia alla fisica: “Il concetto fondamentale della scienza sociale è il potere, allo stesso modo che nella scienza fisica il concetto fondamentale è quello di energia[4], quindi, “le leggi della dinamica sociale possono essere enunciate soltanto in termini di potere, non in termini di questa o quella forma di potere[5].

Tuttavia il testo di Donatella Di Cesare ignora totalmente questo filone di pensiero, che alla fine sostituisce la rivoluzione con le riforme. Sostituisce la rivoluzione con la rivolta. Lei decide di cambiare angolazione, cioè di “guardare più dall’esterno, dai bordi della politica, per scorgere ambiti di resistenza, piazze in cui si mette in scena la solidarietà, si articola il desiderio di comunità.”[6] Ed è questa la prima delle due cecità che chiamerei filosofica: il rifiuto ideologico di guardare dentro, per cogliere articolazioni e differenze, per guardare fuori soltanto, nella paradisiaca condizione dell’assenza di potere di un’inesistente comunità; giacché senza potere una comunità, una qualsiasi organizzazione collettiva (e direi anche individuale) non è mai esistita e non può esistere. Perché appunto il potere è anche energia, energia vitale che forma il corpo delle scienze sociali e conforma la morfologia dell’esistente. Nessuna comunità, dunque, è priva e privata del potere. Organizzazioni sociali senza potere, come si pretendeva per la società comunista, non sono nemmeno statiche, sono semplicemente inesistenti.

La seconda cecità della logica e della ideologia dialettica, che definirei storica, sta tutta in questa affermazione: “nessuno può immaginare certo di trovarsi faccia a faccia con il capitalismo. Semplicemente perché il capitalismo è il mondo stesso – un mondo in cui il centro è dappertutto e da nessuna parte. La logica capitalistica permea corpo e anima, satura l’ambiente, impronta le forme di vita. Se la lotta frontale appare antiquata, questo non vuol dire che non esistano margini di dissidenza in grado via via di consolidarsi.”[7]

Eppure già Schumpeter[8] ci aveva insegnato, in linea con le considerazioni di Russell, che il capitalismo è una immensa forza di “distruzione creatrice” e che quindi non può essere ridotto ad una negazione o, peggio ancora, a un rifiuto. Il capitalismo, come massima espressione della società industriale, ha generato la democrazia e il socialismo, pure; il liberalismo e, secondo Raimond Aron[9], il comunismo pure. O, come sosteneva Maurice Duverger[10], l’Occidente è il Giano, il Dio bifronte la cui effige era impressa sulle monete della Repubblica Romana: da un lato, democrazia e sviluppo; dall’altro, sfruttamento e sopraffazione. Forte di questa concezione socialista, Olof Palme poteva sostenere che il capitalismo è una pecora che va tosata.

Tutto questo e tanto altro è stato colpevolmente ignorato da Donatella Di Cesare, liquidando il più importante processo di democratizzazione che la storia abbia conosciuto, con l’approssimativo giudizio che è stata, “la socialdemocrazia, pronta al compromesso e all’accomodamento, fino alla graduale scomparsa nell’assimilazione.

Assimilazione?

Non è più possibile definire la società in generale e la democrazia in particolare senza l’esperienza, direi correttamente “il compromesso socialdemocratico[11]. Direi, poiché nel bene, visto che in Occidente si è realizzata la migliore società nota e la prima democrazia globale, e nel male, considerando le eccedenze e le contraddizioni (forse aporie) capitalistiche, che la dirompenza distruttrice della dinamica del mercato autoregolato è stata trasformata decisamente (non soltanto attenuata) dal compromesso socialdemocratico, nelle sue espressioni più connotative del welfare keynesiano e dei diritti civili.

Non mi pare proprio che il socialismo sia stato assorbito dalla logica del capitalismo industriale.
Mi pare che la politica delle riforme abbia cambiato la struttura sociale. Una trasformazione tanto più rilevante e incisiva in questa epoca di avvento della società della comunicazione, in cui il passaggio dalla rivoluzione alla rivolta è maggiormente caratterizzato dalla relazione responsiva[12].
Il socialismo occidentale, quello che sarebbe stato semplicemente assorbito, divorato e digerito dal capitalismo, è stato invece la più importante esperienza di democratizzazione dell’intera storia dell’umanità. Una democratizzazione così radicale contro la dirompenza capitalistica mai conosciuta prima e mai avvenuta altrove, integrando non con la rivoluzione ma con le riforme, le classi oppresse e gli individui isolati, proletarizzati e sfruttati dalla frenesia del mercato auto regolato, apparentemente irrefrenabile.
C’è tutta l’esperienza socialista, da Keynes alla mitbestimmung, cioè alla cogestione, alla partecipazione degli operai alla gestione dell’impresa, a dimostrare l’esistenza di un’altra storia totalmente ignorata da certa intellighentia comunista. Una storia che, con le riforme, elimina la dicotomia interno/esterno e, tramite il compromesso socialdemocratico, porta gli sradicati e gli indotti ad essere legittimati e cittadini della città democratica.

Volendo concedere, senza ammettere, che oggi, con l’avvento della società della comunicazione e la grande transizione nell’epoca dei network e della logica quantistica, ancora “riaffiora il nesso stretto tra rivolta e spazio pubblico[13]; che ancora “si profila uno scontro su diritti e memoria[14]; che c’è ancora una deflagrazione anarchica degeneratrice, frammentata come una costellazione, “la costellazione è senza un’arché, anarchica e sovversiva, esito fluido di una mobilitazione improvvisa che ha squarciato l’omogeneità delle tenebre.[15]; che esiste ancora una spinta esterna, “fuori[16], che “non è anacronistica, ma anacronica, perché scaturisce da un’esperienza altra del tempo” che spinge contro il mondo perché “i criteri della modernità, che potevano forse prima essere efficaci, non sembrano più validi. Le cosmogonie sul senso della storia, le dialettiche totalizzanti, non fanno più presa e lasciano fuori, insondati e impenetrabili, i nuovi antagonismi politici.[17] e che “la rivolta esprime un malessere impreciso, manifesta un disagio vago ma assillante, rivela tutte le aspettative deluse. Lo sviluppo promesso, il progresso decantato hanno lasciato indietro un mondo dove si consente e si asseconda l’abisso dell’ineguaglianza, la logica del profitto, il saccheggio dell’avvenire, l’arroganza spettacolarizzata di pochi di fronte all’impotenza dei molti.[18]; ammesso e non concesso tutto questo ed altro, non è con una rivoluzione trasformata in rivolta, che “situa oltre la sovranità, nell’aperto da sempre consegnato all’anarchia.[19] che si risolve il problema della integrazione e della innovazione conviviale, ma con le riforme.

Il compianto prof. Luciano Pellicani, propone una comparazione cognitiva a cui spesso non si pensa: la differenza tra il termine rivoluzione e il termine evoluzione. La rivoluzione indica un cambiamento. L’evoluzione indica un progresso. Per Pellicani “una rivoluzione politica comporta la ristrutturazione dell’intero sistema normativo che disciplina le relazioni fra governanti e governati, cioè l’introduzione e l’istituzionalizzazione di nuove regole politiche[20]. Oltre le mille articolazioni sul tema che lo studio comporta, risulta immediatamente evidente che una trasformazione, o meglio una ristrutturazione dell’intero sistema normativo non comporta automaticamente un miglioramento. Si può ristrutturare un sistema, con un’azione più o meno violenta, per peggiorarlo, per trasformarlo in senso ulteriormente negativo, come purtroppo è già accaduto nella storia. L’evoluzione non è una trasformazione, invece, ma un cambiamento graduale e costante che prevede un miglioramento sul breve e medio periodo. Infatti, nel Dizionario di Filosofia di Abbagnano, la parola evoluzione “conserva ancora il suo senso generico di sviluppo[21]. Senza entrare nella miriade dei significati che il concetto di evoluzione assume, a noi qui interessa particolarmente il quarto, su cinque, individuato nella voce del dizionario: quello che riguarda “l’uso della nozione di possibilità consente di evitare le dogmatizzazioni presentate dalle alternative: ordine-disordine, fine-caso e così via. La vita tende a sfruttare le possibilità che le sono offerte.[22]
C’è tuttavia una differenza tra il concetto di rivoluzione e di riforma su cui spesso si soprassiede. Per Pellicani le rivoluzioni “si collocano nelle convulsioni della transizione” delle società. Le riforme no. Sono politicamente sempre attive. Potremmo dire diversamente che le rivoluzioni sono azioni politiche provvisorie che mirano a sospendere la politica nei giorni in cui la rivoluzione non c’è. Le riforme, invece, hanno bisogno di una funzione politica permanentemente attiva. Marx lo aveva perfettamente capito, tanto è vero, come sosteneva Bobbio[23], gli mancava una Teoria dello Stato.

Per Donatella Di Cesare c’è un “nesso non solo etimologico” che congiunge la parola rivolta e la parola rivoluzione. Entrambe esprimono l’idea di rivolgimento, di cambio. Entrambe esprimono il rifiuto di autorità. Tuttavia, mentre la rivolta ha “un afflato anarchico”, rivoluzione non necessariamente. Infine, “mentre la rivolta si limita a destituire il potere, la rivoluzione cerca di istituzionalizzarsi[24].
Le riforme sono invece la metodologia che fa del potere energia vitale utile allo sviluppo simbiotico tra habitat, tecnologia ed umano. Questo è il senso profondo del socialismo/vita di ogni epoca storica. Non rivoluzione, non rivolta, ma riforma che fa del potere energia sociale vitale allo sviluppo dell’intelligenza umana e della convivialità.

La socialdemocrazia non è stata assimilata, dunque.

Se vogliamo fare una similitudine biologica dobbiamo dire che, successivamente al compromesso socialdemocratico, sia cambiato il DNA della società, in cui la rivolta non è una versione aggiornata della rivoluzione mancata. Può essere una domanda, può essere una risposta, può essere una proposta, può essere anche una protesta che reclama una riforma per migliorare l’evoluzione della democrazia. Altro che assimilazione allora: il compromesso socialdemocratico è stata la più importante e definitiva esperienza democratica della intera storia umana.

ooo/ooo

[1] DI CESARE Donatella, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2020
[2] Forse Donatella Di Cesare rifiuta questa collocazione, ma le sue affermazioni inevitabilmente la classificano.
[3] DI CESARE D., cit. 2020, p.32
[4] RUSSELL Bertrand, Il potere, Feltrinelli, Milano 1981
[5] RUSSELL B., cit. 1981
[6] DI CESARE D., cit. 2020, p.33
[7] DI CESARE D., cit. 2020, p.33
[8] SCHUMPETER Joseph, Capitalismo, Socialismo, Democrazia, Edizioni Comunità, Bologna 1955
[9] ARON Raimond, Il ventesimo secolo. Guerre e società industriale, Il Mulino, Bologna 2005
[10] DUVERGER Maurice, Il Giano: le due facce dell’Occidente, Edizioni Comunità, Milano 197
[11] BERGOUNIONX Alain - MANIN Bernard, La socialdemocrazia o il compromesso, Armando, Roma 1981
[12] CECI Alessandro, La relazione responsiva, Edicampus Edizioni, Roma 2020
[13] DI CESARE D., cit. 2020, p.13
[14] DI CESARE D., cit. 2020, p.13
[15] DI CESARE D., cit. 2020, p.17
[16] DI CESARE D., cit. 2020, p.17
[17] DI CESARE D., cit. 2020, p.18
[18] DI CESARE D., cit. 2020, p.21
[19] DI CESARE D., cit. 2020, p. 19
[20] PELLICANI Luciano, Dinamica delle rivoluzioni, Sugarco, Milano 1974, p.9
[21] ABBAGNANO Nicola, Dizionario di filosofia, voce Evoluzione, Utet, Torino 1971, p.170
[22] ABBAGNANO N., cit. 1971, p.172
[23] BOBBIO Norberto, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Einaudi, Torino 1976
[24] DI CESARE D., cit. 2020, p. 42

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