SOCIALISM LIFE 15: la sinistra italiana autodistruttiva e la politica di fronte all’estremo



Alessandro Ceci

In Italia almeno un dato è certo dal 1948, in questi lunghi 73 anni di storia, prima dopo e durante i tentativi vari di uscire dalla prima repubblica (senza entrare dentro nessun’altra), l’unico dato certo è che la sinistra (o il centro sinistra) è estremamente autodistruttiva, cioè conflittuale fino all’estremo. E l’estremo, nell’eterna ripetizione dell’uguale della sinistra italiana è sempre una rottura, una scissione, una lite che porta inevitabilmente alla propria distruzione.
Per questo motivo, la sinistra (o il centro sinistra) sa governare, ma non può.
Sia la storia, sia la cronaca italiana sta li dimostrare questa mania autodistruttiva della sinistra (o del centro sinistra) italiana. Nelle sezioni, nei comuni, nelle province, nelle regioni fino al governo, la sinistra (o il centro sinistra) italiana si porta dietro risentimenti, odi personali, ragioni irragionevoli, argomenti che rasentano la follia per dimostrare la perenne inimicizia tra le differenti espressioni tra persone e/o gruppi della medesima area politica. Tra miserie, accuse e pettegolezzi, la politica della sinistra (o del centro sinistra) italiana, locale e nazionale, replica quanto accadeva ai tempi del filosofo Diocesi Laerzio e che egli esemplificava raccontando la Storia di Zenone. Pare che Zenone, arrestato per complotto contro il tiranno e messo sotto tortura, confessò al tiranno il nome dei suoi presunti complici. Soltanto che Zenone elencò i nomi degli amici del tiranno, il quale, stupido come tutti i tiranni, li manda a morte rimanendo isolato.
Se un partito destabilizza i dirigenti e gli elettorati della sua area politica, poi dove prende i voti? Se è inaffidabile per il suo riferimento politico naturale come può pretendere di crescere elettoralmente, attraendo l’elettorato del suo riferimento politico innaturale? Proprio come lo stupido tiranno che ammazza i suoi amici e resta isolato.

Perché succede tutto questo?
Perché la sinistra italiana si odia a tal punto da mostrarsi incapace di governare?
Secondo Tocqueville ciò che deprime gli uomini nei lunghi periodi di governo o di opposizione sono, non tanto gli errori e i delitti che essi commettono trascinati dall’ardore delle loro passioni e/o dal fanatismo. È piuttosto il disprezzo che costoro finiscono per avere contro le stesse passioni e credenze che li hanno spinti all’azione. Stanchi e disillusi essi si rivoltano anche contro se stessi e sentono di essere stati puerili e ridicoli nelle loro speranze.
Non so se questa interpretazione psicologica valga sul piano politico.
So però che questa lotta con se stessi è l’eterna fatica di Sisifo che non appena ha concluso il suo lavoro deve ricominciare da capo. Fino a che non tentano di rinascere dalle proprie ceneri. E continuano a riempire di cenere i vassoi della storia. Il risultato sono Governi paralizzati come groviglio di serpi d’inverno.
La sinistra (o il centro sinistra) è così, come diceva Flaiano di sé, l’insuccesso ha dato loro alla testa.
  1. Qualcuno ritiene che ciò accada perché le forme tradizionali della vita politica si sono dissolte. Senza i partiti politici storici la politica avrebbe perso il luogo in cui esercitarsi. Scrive Alessandro Dal Lago che “nella politica senza luogo”, per effetto della globalizzazione, “il potere non è soltanto plurale, ma ubiquo, introvabile, al limite assente, e in quanto assente essenzialmente stupido: parlare di stupidità significa dire che le teorie della razionalità strategica (come quella weberiana, almeno nella versione semplicistica) oggi sono semplicemente inutilizzabili”. Senza un luogo in cui esercitarsi e confrontarsi, la politica avrebbe perso la sua capacità di ricomposizione della miriade di conflitti sociali frantumati che la nostra società complessa genera. La sinistra (o il centro sinistra) italiana avrebbe perduto il suo posizionamento e, nonostante aver conquistato un certo pragmatismo che mostra una certa competenza amministrativa, tuttavia non riesce rendersi credibile, a ricomporsi dentro una comunità di riferimento omogenea. In altri termini, senza posizionamento non è possibile alcuna composizione.
  2. Questa prima motivazione conduce ad una seconda. L’assenza di posizionamento corrisponde sempre più alla insignificanza della narrazione politica. Narrazione politica significa trovare i concetti politici che sappiano descrivere la realtà. Senza concetti politici di riferimento non si ha più nemmeno una concezione e si vive in una permanente crisi politica, che è sempre, per dirla con Gramsci, una crisi di egemonia che bisogna affrettarsi, appunto, a ricomporre. Per governare, per riformare, comunque per cambiare l’organizzazione dello Stato e la società, in una democrazia bisogna essere egemoni. Anzi, per essere più precisi, per governare bisogna essere egemoni; ma per cambiare è necessario che la propria azione sia diversa, risponda ad una propria etica, proponga una nuova stratificazione di valori verso cui un numero crescente di soggetti si possa indirizzare. In Italia, dai romani a noi, la funzione politica è stata esorbitante, è andata cioè ben oltre dei limiti imposti dal medesimo ruolo esercitato tradizionalmente in altri paesi. Nella società industriale la politica italiana si è appropriata della funzione economica. Nella società della comunicazione si è appropriata (o tenta di farlo…) della funzione della informazione. Ora, l’estensione anomala della funzione della politica italiana determina due condizioni particolarmente doloroso per i cittadini: la invadenza della politica, documentata dall’eccessivo tasso di corruzione politica; la perdita di egemonia e di legittimazione politica degli attori protagonisti. Naturalmente questa disfunzione politica si traduce in un male diffuso che coinvolge praticamente tutti i gruppi politici e fa saltare ogni formalità istituzionale. Fino ad arrivare al paradosso costituzione che, nella nostra repubblica parlamentare, dove i Governi ricevono la fiducia dal Parlamento per entrare in carica, l’ultimo Governo in carica, quando ha ricevuto la fiducia dalle Camere, si è dimesso. Vige soltanto la supremazia, non del più forte, ma del più influente, di chi cioè riesce in qualsiasi modo a sviluppare la propria capacità di interdizione. Niente più egemonia strategica. Soltanto supremazia tattica.
In questa situazione i partiti pretendono e ottengono di essere parti nella lottizzazione; ricercano una ragione di esistenza, non nella innovazione sociale e politica, nella progettualità competitiva ancorata nelle regole del pluralismo, ma nello scambio, nella spartizione il cui valore sale in relazione al reciproco e continuo condizionamento. Tutti sono trasformati in competitor verso tutti. Lo sbocco inevitabile è la crisi.
Ma proprio questo è il paradosso.
Le crisi democratiche postelettorali sono una contraddizione in termini.
Non ci dovrebbero essere crisi post elettorali della democrazia.
La soluzione democratica sono le elezioni. Se, nonostante le elezioni, la democrazia è in crisi di rappresentanza (non riesce a fare il governo) e di rappresentazione (non riesco a trovare soluzioni politiche), qualcosa di strutturale che non funziona c’è.
Infatti c’è.
Non sapevo, quando aspramente e con tenacia ne contestavo l’articolazione, quanto pericoloso e preoccupante fosse, per la democrazia italiana, questo stolto meccanismo elettorale, costruito per avvantaggiare se stessi, anche in caso di sconfitta, contro i barbari nemici della storia e della intelligenza.
L’ho capito davvero soltanto ora, di fronte alla ennesima crisi politica, noiosa e ripetitiva, con toni e parole ripetuti con stanchezza nei 73 anni di storia politica italiana. D’altronde, se in 73 anni soltanto 2 governi sono durati per un intero mandato, vuol dire che la nostra normalità politica è la crisi.
Questa situazione disorienta l’elettorato; cosa facilmente riscontrabile.
Possiamo accorgercene analizzando i flussi elettorali e il blocco che si è voluto, per un opportunistico tatticismo becero. Prima della campagna elettorale ultima, era ovvio, già si sapeva che nessuno avrebbe avuto la maggioranza e che, presumibilmente, bisognasse cercare un accordo politico. Anzi, possiamo sostenere che la legge elettorale, cosiddetta Rosatellum, è stata elaborata proprio per questo, trasferire ai partiti minore un incommensurabile potere di interdizione. In tanti , però, e in tanti anni abbiamo sottovalutato quanto fosse alta e disastrosa la normalità delle crisi politiche. Alta e dirompente, direi insorgente, perché alza rapidamente e in modo incontrollato il tasso entropico del network politico. Non abbiamo mai avuto completamente coscienza di quanto fosse pericolosa per la democrazia italiana una situazione politica senza sbocco istituzionale con la formazione obbligata di un Governo.

Se analizziamo i dati elettorali degli ultimi anni, ci accorgiamo che i flussi, cioè il numero dei cittadini /elettori che si sono spostati da un partito all’altro sono circa il 30%. Soltanto il PD dal 41% di qualche anno fa è passato, da una elezione all’altra, prima al 19% e poi al 22%. In un colpo solo ha perso il 22% di elettori: un partito più grande di se stesso che, a sua volta, è il secondo partito italiano. Una enormità. In genere, in un sistema democratico, con qualsiasi legge elettorale, il flusso in movimento è sempre molto minore.
Come mai in Italia è così ampio e così incontrollabile?
Soltanto perché abbiamo partiti puramente mediatici che prendono voti di lista ma non preferenze come M5S?
No.
È il prodotto delle crisi di governo. Si tratta di aspettative disilluse che drogano il dato elettorale di tutti coloro che occasionalmente vincono. Si tratta di aspettative politiche compatte che sono in condizione di trasmigrare facilmente alla prossima campagna elettorale. Ed è difficile farle ritornare al partito da cui si sono allontanate.

Personalmente sono profondamente preoccupato. Il 30% circa di aspettative disilluse fluttuanti incontrollate indicano una situazione pre-rivoluzionaria o una situazione pre-totalitaria. Naturalmente la crisi della democrazia potrà o potrebbe assumere forme inusitate, eteree, anche non immediatamente visibili, non percepibili. Questo però non significa che non esistano o che non ci siano già se siamo nella condizione di perdere quando abbiamo vinto o di vincere lo stesso quando abbiamo perso.

Gli artefici ed i sostenitori di questa legge elettorale saranno ricordati, nella storia politica italiana, come i costruttori della porta di ingresso nel vortice della decostruzione della nostra labile democrazia: non solo – per interesse di parte - tentando di restaurare un’epoca storica proporzionalista morta e sepolta; quanto piuttosto per aver omogeneizzato aspettative disilluse fluttuanti che – come in ogni sistema proporzionale – si concentrano sugli estremi della geografia politica nazionale. Se sono il 5% circa in una situazione politica sotto protezione dall’ombrello occidentale nella guerra fredda, sono ancora gestibili (con il grande dolore della strategia della tensione, degli estremismi politici e del terrorismo locale). Se sono il 30% circa, in una condizione storico-politica globale senza protezione, magari con il rifiuto dell’appartenenza alla democrazia europea, in un sistema politico senza sbocco ad entropia crescente, è la situazione sociale stessa che diventa estrema.

Siamo ancora di fronte all’estremo.
Non importa chi governerà.
Chiunque governerà, per salvare l’Italia da se stessa, deve sapere essere lo sbocco istituzionale ad una situazione sociale che sta diventando estrema anche perché stressata ulteriormente dalla recente pandemia e dai suoi drammatici effetti.
Se questo incremento entropico delle aspettative crescenti, che si traducono in pressione sociale e dissenso politico, non troverà sbocco istituzionale nella formazione del governo – a causa di una legge elettorale appositamente realizzata per offrire un potere di interdizione enorme a chi ha perso – allora la pressione politica crescerà talmente tanto che il rischio di esplosione o di implosione del nostro network sociale sarà concreto, visibile, palpabile. A causa del fattore elettorale imposto, che non offre uno sbocco istituzionale al fermento politico, rischiamo la violenza di una crisi entropica generale: rischiamo, o una esplosione rivoluzionaria, o un implosione totalitaria di nuovo tipo. O entrambe.

Vedo, in alcuni indicatori del sentiment di cui parleremo, questa minaccia come non mai e quindi auspico che il futuro governo non si concentri su palliativi propagandistici elettorali, ma che sia decisamente determinato a riforme strutturali dei tre fattori morfologici della politica: il fattore fiscale per i soldi; il fattore comunicazione per le idee; il fattore elettorale per gli uomini.
È l’unico modo che abbiamo per scongiurare la pressione entropica della crisi delle aspettative crescenti.










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