SOCIALISM LIFE 12 - riconcettualizzare la giustizia

 


 

In modo decisamente inusuale, l’editore Laterza scrive una nota introduttiva al libro, realizzato a più mani, dal titolo “Il mondo dopo la fine del mondo” , prima edizione ottobre 2020. 

Riguarda ovviamente la pandemia e afferma: “Nel momento in cui scriviamo queste righe la pandemia ha già tracciato qualche solco tra un prima e un dopo, ha segnato uno spartiacque tra un mondo che credevamo di controllare e un nuovo mondo da un profilo molto incerto, ma che sta facendo saltare attraverso l’inappellabile verifica della realtà i nostri paradigmi più ferrei. Siamo tutti chiamati a riflettere su ciò che è stato, sulle cause profonde di quanto stiamo vivendo e sulle conseguenze immediate, economiche, politiche e sociali, così come a porci quesiti nuovi sul futuro che ci aspetta e che dovremo ricostruire.[i]

Dunque ormai c’è una linea di demarcazione tra un prima e un dopo. Il mondo della conoscenza scientifica, nonostante 9 anni di inutili ripetizioni, ne sta prendendo decisamente coscienza. E questa trasizione epocale è data da quattro crisi di sicurezza: 

  • una crisi di sicurezza delle strategica con il crollo del muro di Berlino; 
  • una crisi di sicurezza politica con il crollo delle Twin Towers; 
  • una crisi di sicurezza economica con il crollo della economia industriale a favore della economia finanziaria; 
  • una crisi alla sicurezza sociale con l’attuale pandemia. 

In realtà, si tratta di sintomi la cui somma ne denuncia una sola: la crisi profonda della democrazia. 
La crisi profonda della democrazia deriva principalmente dalla non distinguibilità dei concetti. Che cosa è privato e cosa è pubblico in internet, che cosa è soggettivo e oggettivo, quale sicurezza in epoca di pandemia è safety, sicurezza sanitaria delle persone e degli habitat, e quale è sicurity, sicurezza sociale economica e politica? 

In questa epoca di transizione, perfino il nostro legame con il passato si è molto allentato e, temo, si stia allentando anche il nostro legame con il futuro. 

In questa epoca di transizione ciascuno vive nella sua no man’s land, la terra dove non c'è nessuno, il luogo dove pascolano le speranze, i timori, le angosce, le ansie, qualche sogno, qualche piccola ambizione: dolore. C’è in noi, in ciascuno di noi e tra di noi una no man’s land dove si depositano e si rivisitano i ricordi, le immagini, gli angoli di un quartiere, le strade di una città, gli spazi inusuali e inusitati, i rifugi legati all’intimità, i residui relegati di quel nostro invadente, invasivo parlare. 
La no man’s land è un luogo inaccessibile, il posto dove si esercitano i pensieri, la stanza disordinata dentro di noi. È un luogo dove nessun concetto e nessuna concezione è affidabile. Tutto va ridefinito, riconcettualizzato. 

La pandemia minaccia la nostra società, la nostra socialità, ciò che ci portiamo dentro, che tuttavia può sempre sfuggirci, sempre può superarci, annullarci nella calma schiacciante di un tempo senza storia. L’uomo non può immaginarsi nel mondo senza il proprio habitat sociale, senza la sua primigenea condizione di accoglienza, senza il suo artificio. 
La pandemia prende tutti indistintamente. La malattia prende tutti, tranne coloro che hanno il coraggio di simularla o per vincere una elezione o per evitare un processo. La malattia però, quella vera, l’infezione pandemica prende tutti indistintamente. Di fronte alla morte siamo tutti uguali. Sotto il rischio pandemico siamo tutti uguali. Anche per questo la minaccia si è rapidamente trasformata in un rischio concreto. 
Non tutti però vengono curati allo stesso modo. Non tutti prendono il vaccino nello stesso tempo, non tutti sono uguali in relazione alla funzione sociale e politica che svolgono. 
La giustizia non corrisponde alla uguaglianza. 

Secondo il “Dizionario di Politica” di Bobbio e Matteucci, il vocabolo uguaglianza, scritto da Felix E Oppenheim, si utilizza quando “due o più persone sono uguali rispetto all’età o cittadinanza o razza o reddito o attitudine o bisogno, ciò significa semplicemente che hanno la stessa età o nazionalità o colore o reddito o abilità o bisogno”. La dizione così proposta parte dalla considerazione che il concetto di uguaglianza ha senso soltanto rispetto a un referente cognitivo: si è uguali per età, per cittadinanza, per razza, per reddito, per attitudine, per bisogno, per sesso, per religione o per qualsiasi altro motivo. Ma non si può essere uguali in assoluto. Infatti, come afferma Oppenheim “è senza senso dire che «tutti gli uomini sono eguali»”. Uguali rispetto a che? Uguali rispetto a chi? Se non ci sono “giudizi di valore caratterizzanti”, ciò che è più appropriato chiamare “referente cognitivo”, il concetto di uguaglianza non è definibile. 


Il concetto di giustizia, invece, sempre secondo l’accezione di Oppenheim, sempre nello stesso “Dizionario di Politica” di Bobbio e Matteucci, non è definibile mai perché riguarda “una nozione etica fondamentale”. Non a caso Aristotele pone il concetto di giustizia come una virtù completa nel suo testo sull’Etica (1130a). Meglio di tutti e sempre come una espressione dell’etica fondamentale, l’ha implicitamente definita Dante Alighieri. Nel XVIII canto del Paradiso, nella sua Divina Commedia, Dante fa comparire, come espressione di una festa, le parole con cui inizia il Libro della Sapienza (I,1) attribuito a Salomone. Le anime, in lode di Dio, “volitando cantavano,” cioè danzavando “faciensi or D, or I, or L”, fino a comporre in tutto 35 lettere, “Mostrasi dunque in cinque volte sette”, che, tra “vocali e consonanti”, compongono il verso di Salomone: “DILIGITE IUSTITIAM, primai / fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto, / QUI IUDUCATIS TERRAM, fur sezzai”. Sono anime degli spiriti giusti che ci indicano il compito etico imprescindibile, a cui non possiamo derogare mai in qualità di cittadini e di amministratori: “AMATE LA GIUSTIZIA VOI CHE GIUDICATE LA TERRA”. Non è la libertà il valore principale dell’azione umana. La libertà riguarda la nostra natura, il dono di Dio, la nostra insuperabile condizione genetica. La libertà è il piano della nostra esistenza. La giustizia invece è la nostra scelta, la decisione e la responsabilità che dobbiamo assumere, riguarda noi, ciò che facciamo, ciò che decidiamo di dover compiere ogni giorno per migliorare il mondo intorno a noi; come diceva Bauman, che la società più giusta è quella che pensa continuamente di essere ingiusta. È il socialismo di Dante, consigliato, ma non imposto, da Dio al potere terreno, al potere dell’aquila regale: “la testa e il collo d’un’aguglia / vidi rappresentare a quel distinto foco”. 

Il socialismo è così come Dante lo ha descritto. Il socialismo-vita, che fa della società un elemento di garanzia e sopravvivenza della vita umana è contro l’uguaglianza. La libertà è la nostra condizione naturale. Il socialismo è la massima espressione della giustizia che conosciamo. 

Che cosa significa tutta questa stupenda costruzione letteraria dantesca? 
Significa che la giustizia va data in vita, agli uomini che sono sulla terra dagli stessi uomini che sono sulla terra. 
La libertà ci è naturale, è nostra da quando nasciamo, è insita nell’umano, la libertà è la nostra natura, ma è la giustizia che la governa, la giustizia spetta agli umani, è il prodotto delle regole sociali che si danno e questa produzione di regole non compete ai giudici, compete all’aquila imperiale, al potere politico. 
Se e quando la politica deroga a questo suo compito, l’ingiustizia primeggia e svanisce anche la libertà. Dante conosceva Omero e, dunque, sapeva perfettamente che Achille, il semidio sprezzante di ogni ordine, totalmente libero da sfuggire di continuo alla organizzazione di Agamennone, Achille, l’emblema greco della libertà, muore per un qualsiasi accidente quando ammazza con ira la giustizia di Ettore. 

Tra libertà e giustizia c’è una bella differenza.
Tra uguaglianza e giustizia c’è una bella differenza.
Tra comunismo e socialismo c’è una bella differenza.
C’è da riconcettualizzare.

Se dobbiamo riconcettualizzare l’epistemologia a partire dalla lebenswelt di Husserl, cioè dalla scienza della vita, dalla simbiosi tra realtà e verità; se dobbiamo riconcettualizzare la democrazia a partire dalla distinzione tra informazione e comunicazione, cioè dalla funzione cognitiva di natura critica dell’intelligence; se dobbiamo riconcettualizzare la pedagogia a partire dal wetware, cioè dalla triangolazione tra multimedialità, multidimensionalità e multidisciplinarietà; allora dobbiamo riconcettualizzare anche il socialismo a partire da un nuovo concetto di giustizia. 

La libertà muore quando muore la giustizia.
Se muore la giustizia muore anche l’uguaglianza.
Il senso profondo del nostro socialism-life è riconcettualizzare.

Ripartiamo da qua: Themis allora era la Dea della Giustizia, nata dalla congiunzione di Urano con Gea. Themis fu amata da Zeus, al quale offrì per figlie le Ore, le Moire, Dike, Irene o la pace, ed Eunomia

Themis impersonificava allora soprattutto l’ordine nelle cose stabilite dalla legge, dalle usanze, il sentimento della giustizia e dell’equità. Per questo era dunque la grande Dea che regolava il succedersi dei tredici mesi dell’anno, suddivisi, ordinati, regolati, nei due solstizi d’inverno e d’estate. 

Accompagnava, Themis, Zeus, quando egli presiedeva le adunanze degli Dei; lo accompagnava così come appariva, bella ed obbediente, spesso con una benda sugli occhi a simboleggiare l’imparzialità della giustizia, con una bilancia in una mano per soppesare la forza delle ragioni e con una spada nell’altra, emblema del castigo che al reo può essere inflitto. 

La storia racconta che Themis fu uno dei guardiani delle sette potenze planetarie che Eurinome creò. Furono quattordici i guardiani, fra: titani e titanesse, a cui vennero affidati i pianeti. A Themis toccò Giove che presiedeva alla legge. Così Themis divenne la Dea della Giustizia. 

Omero, o chi dietro di Lui nella Storia si nasconde, per primo comprese che Themis, la giustizia, e non la fede o la forza, “scioglie ed insedia le assemblee degli uomini”. La giustizia nella sua duplice veste: della razionalità della norma e della ragionevolezza della sua applicazione. 

E nell’affidare a Themis la facoltà di legittimazione delle umane adunanze, Omero esplicita un concetto di giustizia che per i Greci è molto diverso dal nostro. 

Per loro invece la Giustizia era “equiparata alla legalità”: “chiamiamo giusto – diceva Aristotele – ogni procedimento legislativo[ii]

Per noi la Giustizia “è un fine sociale”.


ooo/ooo

[i] AUTORI VARI, Il mondo dopo la fine del mondo, Laterza, Bari 2020, VII
[ii]Dato che colui che viola le leggi è, come abbiamo visto, ingiusto e invece colui che rispetta la legge è giusto, evidentemente tutte le azioni LEGITTIME sono in un certo senso giuste poiché LEGITTIMO, e ciò che l’arte legislativa ha definito come tale, e noi chiamiamo GIUSTO ogni particolare procedimento legislativo” Aristotele, ETICA, 1129, B.

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