SOCIALISM LIFE 11 con-dividere il passato

 


    Questa mattina mi sono svegliato alle 4,30. Ho pensato che noi ereditiamo proprietà, ma non ereditiamo più esperienze. Presto sarà Natale. Arriverà anche la Pasqua. Sono questi riti che ereditiamo, ormai senza esperienza. I riti alimentano i miti e i miti costituiscono o strutturano il nostro “archetipo collettivo”, come lo ha chiamato Carl Gustav Jung. 

    Chi si sveglia alle 4,20 del mattino, o poco dopo, non ha riti. O ne ha diversi tipi. Io vedo spuntare la luce del giorno dalla finestra della mansarda dove dormo. Il mio rito è questo. Ho una casa molto grande. Un casale. Avrei potuto scegliere qualsiasi stanza per la notte. Ho scelto la mansarda per vedere meglio e prima la luce del giorno. Soffro di claustrofobia e la notte è più prudente per me restare sveglio. Questa mattina non si vede il sole. Io abito in campagna. Per me anche la montagna è soffocante, prigione di verde e di terra. Quando abitavo in città vedevo la luce spuntare tra i palazzi. Io non ero abituato e non lo sono ancora. Ho vissuto sempre sul mare. Per me l’alba è gialla, cielo giallo e mare giallo. Dura poco. Presto riprende il suo azzurro abituale; ma l’attimo giallo del sole che sorge, è un attimo d’oro splendente. Non sono abituato a questo grigio venire del giorno. Il sole sul mare. 

    Il sole del mare è il sole dell’avvenire. 
    Il sole della campagna o della città è il sole dell’avvenuto. 
    Forse l’avevo scelto per essere socialista, o forse sono stato socialista per essere nato sul mare. Ora, però, credere che il socialismo non c’è più, è un pensiero totalmente destituito di fondamento. 

    C’è un socialismo clichè e c’è un socialismo archetipico. 
    Il rito è un clichè. Il mito è un archetipo. 
    C’è un socialismo rituale e un socialismo mitico. 

    Forse pioverà. Il cielo è grigio. 
    Tutto è possibile. 
    Lo so. 
    Forse la pioggia rovinerà le nostre vacanze. Piove spesso a Natale. E piove anche a Pasqua. Quasi ogni anno la pioggia rovina la pasquetta. 

    Noi siamo malati, viziati da una idea sbagliata, da un altro incomprensibile cliché che la tradizione ha inculcato nella dimensione cognitiva della vita.

    La povertà è una vergogna che l’umanità non riesce a debellare: distrugge sinapsi, ostruisce chance e ti costringere a vivere nell’inferno di una vita imposta, voluta, perduta. Definitivamente perduta nei giorni che non hai avuto e che non avrai mai più. 
    La povertà è un esproprio di vita. Non te ne accorgi nemmeno. Se non l’hai mai vissuta, la povertà, non te ne accorgi. Se non l’hai assaggiata, inghiottita, questa umiliante impossibilità di essere che la povertà induce, questa nausea del rifiuto e della estraneazione che ti resta dentro, nello stomaco, resta lì a corroderti e non se ne vuole andare, non se ne andrà mai più qualsiasi cosa tu abbia poi ottenuto; questo veleno che a qualcuno deve essere a forza somministrato, questa dipendenza dalla mancanza che sente solo colui che non ha rimedio, una droga corrosiva che, paradossalmente, crea dipendenza e rifiuto, questo scegliere di restare impossibilitato perché farà i tuoi giorni comunque diversi; se non la provi, questa povertà che fa male, che fa ammalare perché è sporca e sporca ogni ora che viene, non te ne accorgi nemmeno. 

    Tra i distratti del mondo ci siamo sicuramente noi. 
    Della povertà degli altri, di tanti poveri cristi, l’Occidente non si accorge nemmeno. E non se ne vuole accorgere per comodità e opportunismo. La pandemia, questa povertà della nostra resistenza fisica, ci ha di nuovo sbattuto in faccia la nostra profondissima contraddizione. 
    La povertà allunga i tempi. I ricchi vivono le loro accellerazioni. Ogni 5 anni, o addirittura ogni 3 anni, i ricchi, hanno un breack event point, un punto di pareggio, un momento in cui tutto può cambiare, la situazione di svolta, quando la povertà finisce e ricomincia la riccezza minima, quando i sacrifici precedentemente sostenuti finiscono e gradualmente si comincia a guadagnare, quando la pausa della carestia è interrotta, il reset è avvenuto, l’aggiornamento concluso. I ricchi hanno sempre un vaccino pronto per l’uso. 
    I poveri non lo sanno nemmeno che tutto può cambiare. La loro condizione supera la vita, si conta in generazioni ed oltre, non sanno che esiste una salvezza, conoscono soltanto la sopravvivenza. Sono poveri, prima di tutto, di speranza. Non sanno quel che possono, sono certi di quello che non possono. Ignorano ciò che aiuta. Conoscono solo ciò che risolve. I poveri sanno che il cliché dell’amore buono e salvifico è una illusione, che la fame non ha esperienza, non corrisponde a nessuna realtà concretamente vissuta. La povertà sa benissimo che l’amore, il proprio amore non può essere mangiato, che non può essere digerito, che non vale a niente perché non ci si può salvare cercando nel fondo di se stessi. La povertà soffoca sempre e ancora. L’aria ti manca. Non hai domani. Hai solo la precarietà di ogni presente. La retorica delle mille possibilità prossime venture non combacia con le impellenze di oggi. Senti questi discorsi diffusi, generici, insignificanti, un falso che falsifica. Siamo poveri essenzialmente di futuro, poiché soltanto se hai un futuro puoi essere ricco. 

    Il socialismo è il solo modo che conosciamo per sconfiggere la povertà. Ogni povertà. Il liberalismo non ci è riuscito. Ha imposto al mondo il sorriso ipocrita dei ricchi, l’illusione che fossero illuminati, disponibili, caritatevoli. Loro non vivono la vita sempre più dura, più cattiva, feroce dei poveri. Il loro sole è un sole opportuno, fatto di feste conviviali e passeggiate confidenziali, perfino di amori stanchi. Ai poveri l’amore cliché non è concesso perché costa, e forse per questa privazione sono quotidianamente accompagnati da un odio vorace e talvolta da ripetute e conclusive vendette. I poveri non possono essere rapiti perché sono stati definitivamente rapinati. 
    L’idea auto distributiva per volontà individuale del liberalismo è un falso, una illusione travolgente, istantanea, una giustificazione intollerabile, una mistificazione. . 
    Il socialismo distribuisce la vita. 
    Non è una forma di restituzione: è una scelta, una condizione esistenziale. 
    Il socialismo, la possibilità di dividere il pane, di offrirsi a costruire le forme di vita per tutti è l’archetipo originario ed originale, l’esemplare, l’esistente nel corpo, nella mente e nell’anima, nell’aria e nel panorama, nelle cose create, nel significato di ogni attimo. Il socialismo che con-divide la vita è l’archetipo semplice e complesso di ogni esistenza, o è semplicemente adeguato alla complessità della nostra esistenza, in ogni tempo e in ogni spazio. 
    Il socialismo non è il cliché del donare, un rito e un rituale che si ripete “in modo automatico e vagamente simbolico”. Il socialismo è l’archetipo dell’eredità, la scelta di lasciare la proprio ricchezza di connotazione, fisica, economica, politica, sociale e culturale al mondo. 

    Il cliché è sintomo e sintomatico, si estende alla massa, una sorta di allucinazione somatica collettiva che costringe ognuno a ripetere pedissequamente i comportamenti degli altri, gente che vive nel pregiudizio, in alto grado di fissità, in costanza, per abitudine, per comodità, spesso senza sostanza. Il cliché, è lo stereotipo che si estende in ogni ambito della vita collettiva. O anche individuale quando riguarda, più frequentemente, sindromi schizofreniche. Anche politicamente, tuttavia, il cliché o lo stereotipato mostra dei sintomi classificabili. Li riscontriamo nella comunicazione imperante della nostra società mediatica: chi continua ha mostrarsi per dimostrarsi sempre perfettamente attraente come atteggiamento di difesa contro l’allucinazione somatica di sfiorire in vecchiaia; chi cerca una vacua interazione senza significato e replica le parole degli altri per un’approvazione indefinita con un giudizio retorico e accogliente; chi ripete azioni cerimoniali e festeggia le ricorrenze con auguri deliranti; chi veste il suo ruolo sociale e il suo status più che se stesso, mostra in momenti residuali inutili la propria dimensione utile ed utilizzabile, cioè il proprio potere professionale. Il cliché è un pregiudizio sociale collettivo, un modo di essere comune, prevedibile, condotto dalla mano invisibile del gruppo dei pari. 

    L’archetipo è solo. Non è una opinione. È una scelta. È una esigenza. È una diversità, talvolta una eccezione, tal altra un fallimento. È un dolore, “il selvaggio dolore di essere uomini”. Spesso è una proposta, ingenua, una speranza, un desiderio. L’archetipo è il silenzio di chi abbassa la testa, senza piegarla, la sera, quando si torna a casa senza sapere cosa accadrà domani. 

    Il socialismo-vita che propongo è una eredità, già ricevuta. Il mio socialismo-vita è il solo modo che conosciamo di offrire il passato, di con-dividere il godimento della reciproca amicizia, è la ricchezza più grande, ciò che ci ha fatto davvero umani, il valore che s’incrementa soltanto se viene distribuito; il nostro segno e significato definitivo: la cultura. 
    Per superare il cliché della prossima ricorrenza, ho tenuto per me, per i miei figli e per chi altri lo scelga, questo meraviglioso socialismo archetipico, questo socialismo-vita che è il mistero con-diviso di ogni colore, l’essenza tacita dell’esistenza, questo esserci, questo stare insieme nel mondo. Anche io, dunque, lascio in eredità, per me, per i miei figli e per chiunque lo voglia, questo socialismo archetipico, contro ogni pensiero cliché, che proprio perché archetipico, ha la possibilità di essere rifiutato, in ogni momento. 

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