SOCIALISM LIFE 9 - oltre il teorema trickle-down

 


Alessandro Ceci 


Chiuso in casa a leggere il trend della pandemia e le possibilità di cura, ad ascoltare i drammi personali di molti malati, ovunque, e al pensiero di un parente, o un amico, o soltanto un conoscente soffocato da mesi da un killer invisibile ed aggressivo, mi chiedo come abbiano fatto i ricchi e i potenti a guarire così presto. Se la loro è stata una malattia effettiva, il virus ha squarciato il velo della ipocrisia rispetto all’effetto trickle-down. 

Quella del trickle-down è una vecchia teoria economica, risalente addirittura ad Adam Smith, secondo cui esisterebbe un fantomatico sgocciolamento della ricchezza dai ricchi ai poveri. I soldi percorrerebbero un percorso inverso a quello delle tasse, che dal basso vanno verso l’alto, e discenderebbero gradualmente dall’alto verso il basso. In questo modo, arricchendo i più ricchi per fare in modo che stiano meglio i più poveri, la crescita e lo sviluppo sarebbero assicurati. 
La teoria, che a me sembra più un teorema paradossale per nascondere l’ipocrisia della concentrazione e dell’accumulazione delle risorse, dovrebbe essere relegato alla sua assurdità, ma non è così. Derivata dal giustificazionismo americano, il teorema trickle-down è stato per molti anni (ed ancora oggi) sostenuto nella politica economica italiana. Naturalmente la sua versione attuale appare più sofisticata, ma non troppo. 
Quante volte abbiamo sentito giustificare i contributi e le agevolazioni date alle imprese con la banale credenza che queste elargizioni favorissero l’occupazione? 
Tutti sanno che non è vero. Se lo fosse, dopo tanti anni di contributi, dovremmo avere la piena occupazione, ma non è così. Le aziende prendono i soldi, risparmiano i guadagni, innovano le linee o le procedure di produzione e licenziano le eccedenze (o le fanno pagare allo Stato). I soldi risparmiati poi, i capitalisti, se li giocano in borsa favorendo l’economia finanziaria contro l’economia di produzione. Estremizzando potremmo arrivare al punto, se non ci siamo già, che l’economia di produzione serve soltanto per favorire, indirettamente, l’economia finanziaria. In ogni caso, il teorema trickle-down è semplicemente una mistificazione. 

Eppure questa follia ha imperversato a giustificazione del mercato sregolato e della società squilibrata, sproporzionata. Altrettanto folle appare, di fronte alla minaccia ancestrale alla nostra vita in cui la pandemia di nuovo ci posiziona, il presupposto politico e filosofico del naturale egoismo umano che, portato avanti dalla mano invisibile del mercato autoregolato, conduce a diverse forme di prosperità economica e sociale. L’ipotesi che l’individualismo favorisca il progresso collettivo è logicamente assimilabile all’affermazione secondo cui il criminale favorisce la giustizia collettiva e, quindi, più criminali ci sono più funziona il rispetto della legge. D’Altronde Bernard de Mandeville ha avuto il coraggio di scriverlo: “Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita?” E infine, se non fosse chiaro: “È così che si scopre vantaggioso il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia. Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa.[1]
La pandemia da Covid 19 che abbiamo vissuto ha spazzato via questa volgare illusione, questo inganno, questa falsificazione. Lo sfruttamento non è un ineluttabile destino. L’accumulazione è certamente un danno e il comportamento umano non è naturalmente individualista o addirittura egoista. Senza alcun calcolo di convenienza centinai di infermieri e medici e cittadini si sono prodigati per proteggere e curare un prossimo sconosciuto. E sono morti. Se dovessero rinascere, sono sicuro che lo rifarebbero. 

L’umano non è evoluto per il suo egoismo ma per la sua generosità. 
L’umano è evoluto, non per la sua individualità, ma per la sua socialità. 
Ciò che ci ha fatto umani non è la libertà di agire ma la condivisione sociale. 
Siamo umani non perché siamo stati individui utilitaristici, ma perché siamo stati collettivamente e socialmente organizzati. Non la omologazione paritaria, non l’accumulazione personale, ma l’equità, il limite (àpeiron) che permette la distribuzione può indurci a quell’equilibrio politico ed economico (mesótes) che è stato il connotato tipico e vincente della nostra fitness evolutiva. Il fatto che il presidente degli USA ha curato in 3 giorni la sua infezione da Covid 19, non salva l’umanità. Nulla discende da lui con uno sgocciolamento. Nessun teorema trickle-down vale. Non è per niente vero, come sembra che dicesse anche Kennedy che – “l'alta marea solleva tutte le barche (a rising tide lifts all the boats), anche le più piccole”. Chi è senza barca muore annegato. È la distribuzione del vaccino che salva gli esseri viventi. Le nazioni non democratiche sono quelle che rischiano di più. Le nazioni democratiche, quelle che hanno esteso e approfondito la democrazia con il socialismo, hanno margini di tutela collettiva molto più estesi e profondi. 

Nella nostra storia sociale ed economica abbiamo invece subito più i danni dell’ipocrita teorema trickle-down che le opportunità della socialdemocrazia. 
A causa di un’assurda teoria macroeconomica i costi sociali della modernizzazione sono stati pesantemente scaricati sul proletariato interno. Le prime leggi sul lavoro sono state approvate soltanto quando è cominciata la “protesta operaia”, quando la classe operaia iniziò lentamente ad organizzarsi, quando è diventata protagonista diretta della propria emancipazione: leggi approvate dai Parlamenti delle società industriali nello scetticismo e nel disinteresse completo. Una sottovalutazione assoluta dello sfruttamento dettata dalla spontaneità della protesta e dalla profonda consapevolezza che gli equilibri automatici del mercato avrebbero ripristinato e tranquillizzato le relazioni sociali. Marx per primo ha svelato le contraddizioni economiche del capitalismo, da allora non più considerato come agente di modernizzazione, ma come struttura finalizzata alla conservazione del potere in mano a chi già lo aveva. Secondo Immanuel Wallerstain[2], infatti, le famiglie che detenevano il potere prima della rivoluzione industriale, erano sostanzialmente le stesse che lo hanno mantenuto dopo. A differenza della maggioranza degli autori Wallerstein mette in evidenza le costanti della società capitalistica e che questa nuova e dinamica condizione sociale ha prodotto un impoverimento reale dei paesi esclusi dalla frenesia modernizzatrice, in modo particolare i paesi del Terzo Mondo. 
In ogni caso, al suo interno nasce il sindacalismo, dapprima rivoluzionario e successivamente riformista. Gli schieramenti si sono improvvisamente radicalizzati e la loro rivendicazione politica mirava alla ricomposizione globale della struttura sociale. La protesta operaia ha frenato la dinamica dirompente del mercato autoregolato e la sua religione trickle-down. 
Se la prima protesta operaia, con le grida violente e rivoluzionarie di Sorel, era in realtà una protesta di conservazione, contro il nuovo, per il mantenimento delle agevolazioni caratteristiche della società tradizionale, deprezzate dalla dinamica e violenta razionalità del mercato, è la seconda protesta operaia, il compromesso socialdemocratico che, al contrario, favorisce la modernizzazione e l’evoluzione della democrazia sociale. La protesta operaia, da disfunzionale ribellione di masse disintegrate ed emarginate, diventa il funzionale regolatore dell’equilibrio politico per il graduale risanamento della “distruzione creatrice” di ogni modernità. In questo modo, la moltitudine, prima inavvertita perché sparsa, è diventata massa, “s’è fatta visibile”. Se “occupava il fondo sociale”, ora “è essa stessa il personaggio principale. Ormai – conclude Ortega – non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro.[3]
Il socialismo ha insegnato alla democrazia di saper vivere con la rabbia. Ha insegnato a tutti il concetto etico di limite. 

Se non ha un limite, un pensiero, una filosofia o una società è posta di fronte all’estremo. 
Il virus Covid 19 ci pone di fronte all’estremo della vita o della morte, proprio perché non ha un limite; proprio perché ancora non ha una limitazione la pandemia ci pone di fronte all’estremo della nostra sopravvivenza. E allora, quando un pensiero, una filosofia o una società è posta di fronte all’estremo, quel pensiero, quella filosofia o quella società deve ripensare se stessa. 
Il Covid 19 ha posto le democrazie di fronte all’estremo della vita e della morte. E ancora una volta, oggi, la democrazia ha bisogno fondamentale del socialismo per capire se stessa. La democrazia post covid non più bisogno soltanto di festeggiare e applaudire. A forza di sorridenti banalità andiamo diritti verso il potere incontrollato e degenerato dell’omologazione. La noia di un dibattito spento favorisce l’insulto. Il decervellamento, il “non-pensiero” predilige i reclami e i proclami, le dichiarazioni mirate alla presenza e alla visibilità. 
Nella società della comunicazione parole nuove e slogan producono emozioni, comunque un immaginario collettivo e quindi un probabile consenso. Matrix c’è: ed è la minaccia democratica della comunicazione perché, come dice la bella canzone di Caparezza, “nell’età dei figuranti ci sono molti re e pochi fanti”. Re onnipresenti, come il caso di un Presidente che, come spesso si dice, segue da lontano. Nella vita si può essere presidenti, ricchi, forti e addirittura unici, ma quando si offende la dignità degli altri non si è niente. Oggi, nei comuni e nello Stato abbiamo bisogno del socialismo che non c’è per evitare di offendere i più deboli. Una democrazia della comunicazione ha bisogno di un socialismo concettuale universale per sfuggire alla sindrome di Zelig la formica, contro il localismo, contro il provincialismo, contro il regionalismo. Un socialismo che sappia offrire alla democrazia un ceto politico all’altezza dei tempi globali; un ceto politico che, proprio di fronte alle estreme minacce di morte, faccia in modo che, anche se non tutto funziona, almeno che tutto viva. 
Un socialismo colto che ci permetta di agire, quando la vacuità è madre dell’inerzia. Spesso si contrappone il dire al fare, la pratica laboriosa che decade spesso in praticume alla oratoria che, quando è fatta di parole insignificanti, di parole vuote, produce una gran confusione della grancassa mediatica. Ogni parte politica si giustificherà degli atti compiuti, ma noi cittadini non possiamo che giudicare i fatti incompiuti e quelli taciuti. 
Il silenzio è d’obbligo? 
Non credo. Occorre ancora una narrazione politica per la società della comunicazione. Occorre evitare l’epitaffio della confusione. Occorre produrre significati, attingere al patrimonio che sfugge ai proclami. Occorre esprimersi. 

Ricostruire il tessuto del confronto politico, questo è un compito all’altezza dei tempi. 
Di consiglieri, assessori, sindaci, presidenti parlamentari ministri capi di ogni ordine e genere ce ne sono stati tanti e altrettanti ce ne saranno. Talmente tanti che ce ne siamo dimenticati. Ma Socrate o Cristo non li possiamo dimenticare. Non hanno avuto nulla e ci hanno soltanto parlato. L’atto più rivoluzionario, quello più definitivo: svelare l’occulto e farci capire. Sono stati assassinati per questo. 
Il peso della parola è la scelta più estrema. 

Diligite iustitiam qui iudicatis terram” è sempre stato il motto che mi ha accompagnato, quello che compare quando lancio le mie e.mail, quello che ha orientato la mia scelta politica, quello che indirizza i miei giudizi e talvolta i miei pregiudizi. Sono le parole con cui inizia il libro della Sapienza, attribuito a Salomone, e costituiscono un monito divino e universale ai governanti dei popoli. È tratto dal XVIII canto del Paradiso e me lo porto dietro dal Liceo. Dante mostra la strada: “amate la giustizia o voi che giudicate la terra”; la libertà nasce con voi, in quanto esseri viventi e in quanto umani, ve la concede o ve la dona Dio, ma la giustizia è la vostra responsabilità etica, il vostro perenne e permanente impegno politico. È il socialismo prima del socialismo, l’equilibrio dello sviluppo contro la dura irruenza della crescita indiscriminata, la forza piegata alla ragione contro la ragione prostrata alla forza, il potere come energia sociale contro il potere come accumulazione personale, il buon governo della città rinascimentale italiana che cerca ovunque la civiltà della convivenza, la sostanza della democrazia dentro la sua indispensabile forma, o infine il principio universale dell’umanità che può sopravvivere soltanto se riesce a convivere. È il socialismo di sempre: il socialismo per sempre. 

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[1] MANDEVILLE (de) Bernard, La favola delle api, in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIV, pagg. 137-146 
[2] WALLERSTEIN Immanuel, Il capitalismo storico e civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 1995 
[3] ORTEGA Y GASSET José, La ribellione delle masse, in Opere, Utet, Torino 1982

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