SOCIALISM LIFE 7 - metabolismo con la natura


 Alessandro Ceci

In un verso, che è quasi un intero trattato di filosofia politica, Pier Paolo Pasolini scrisse della “cosciente volontà a sussistere / nel privilegio e nella libertà / che per Grazia appartengono allo stile[1]

Che significa? 

Lo stile è fatto di regole rigide ed obbligate. Che lo stile, in quanto forma metodologicamente definita ma non statica, abbia un certo suo privilegio è intuitivo. 
In diverse epoche storiche lo stile è stato eleganza, ornamento, sofisticato o volgare, aulico o quotidiano, enfatico o essenziale, ornamento, parte fondamentale dell’orazione, struttura dei toni. Sempre però è stato il privilegio del suo estensore. Il privilegio di saper argomentare con accenti appositamente calcolati e termini selezionati, dentro regole grammaticali, una semantica piegata alla sintattica perché rigida, strutturale, ordinata. Il privilegio è tutto qui: far fluire la semantica dentro canali articolati e i rivoli della sintattica. Leggere l’Iliade e l’Odissea in Greco antico per apprezzarne la sonorità, la musicalità, le enfasi e i ritmi così come erano nella dizione del narratore, è certamente un privilegio. 
Il privilegio dello stile si ottiene per Grazia, che potremmo interpretare anche con il termine e il concetto di competenza, capacità, abilità, tecnica, professionalità, eleganza e maestria. La Grazia è il potere di Dio, il potere che Dio riserva con benevolenza agli umani e che, proprio per questo, Pasolini scrive con lettera maiuscola. 
Dunque, quel “nel privilegio …….. / che per Grazia appartengono allo stile” può anche significare “nella eleganza che, per abilità, appartiene alle regole di composizione”. 

Ok. 
E la libertà
La libertà che c’entra?
Quale libertà può esserci nel pedissequo seguire la rigidità di una norma, il rigore di una regola? La forma vincolante di un determinato stile letterario, quale libertà concede? 

Il paradosso è proprio questo: la legge stabilizza, solidifica, regolamenta e regola, tuttavia, al tempo stesso, libera, ci rende più liberi. 
Non è vero che la sicurezza sia inversamente proporzionale alla libertà, che, cioè, per avere più sicurezza bisogna necessariamente perdere parti della nostra libertà. Se le nostre città sono sicure i nostri figli possono andare a scuola da soli. Al contrario, più alta è la sicurezza maggiore è la libertà di agire. La sicurezza è direttamente proporzionale alla libertà, come aveva perfettamente capito Hobbes, per cui lo Stato, il Leviatano garantisce la libertà a tutti, anche e principalmente ai più deboli, con la funzione egemonica della norma contro la supremazia dominante della forza. 
Il crimine, ad esempio, si pone e s’impone, destabilizza, dissolve, devia e schiaccia la vittima; ma imprigiona anche se stesso in uno stato di liminalità, in una estraneazione dalla regola giuridica e sociale che, in qualche modo, lo rinchiude nella violenza anarchica. 
Il terrore, nella veste del totalitarismo discrezionale e ossessivo “è una forza biologico-naturale, sprigionato dal «metabolismo con la natura» grazie a cui l’uomo conserva la propria vita e la continuazione della specie.[2]

Il «metabolismo con la natura», tra natura e storia, annulla qualsiasi legge che regoli e regolamenti il nostro habitat, la nostra vita dentro il network della socialità e proietta, sulla base di un fondamentalismo assoluto di giustizia e di giustificazione, la nostra esistenza ad una soluzione finale, ad un fine che non arriverà mai e, dunque, ad un estremo permanente; all’estremo permanente del caos. E il caos offre poche possibilità proprio perché è senza regole. 
Invece, il nostro habitat, da sempre, cioè dalla presenza degli animali sociali che hanno conquistato la terra, garantisce la sopravvivenza e il reale processo di adattamento individuale e collettivo; garantisce la sopravvivenza proprio perché non è caotico, perché ha delle regole da rispettare e una giustizia relativa da affermare. 

Il concetto di giustizia relativa è fondamentale. 
La giustizia assoluta è una minaccia alla vita. 
La giustizia sociale è sempre relativa, come diceva Bauman, che la società più giusta è quella che pensa continuamente di essere ingiusta. 
La giustizia sociale e, principalmente, la giustizia della democrazia è relativa. Questa relatività è la sua forza, perché è flessibile, modificabile, riformabile, resiliente, resistente. La differenza tra il criminale e il terrorista sta tutta qui: il criminale partecipa come dissidente alla giustizia relativa della società, anche se, non ne rispetta le norme e, nel non rispettarle, in qualche modo le riconosce; il terrorista non riconosce la giustizia relativa della società, infatti, nel momento in cui decide di usare la violenza, diventa portatore di una giustizia assoluta e ripristina il metabolismo natura/storia che distrugge ogni condizione sociale. 

In queste ore di pandemia soffocante, la morte è presente nelle nostre case, presente e vigile affianco a noi come non mai. Sembra di essere in un racconto di Luigi Pirandello, dove la morte fa capolino dagli angoli dei palazzi, pedina le vittime predestinate nelle strade, mostra e dimostra la debolezza nella giustizia estrema del «metabolismo con la natura» quando la scorgiamo sul volto di un amico infettato, nel parente scomparso, nel conoscente evaporato. 

Ora sappiamo che cosa è il terrore. 
Ora sappiamo come il «metabolismo con la natura» ci costringe alla giustizia assoluta dell’estremo. E di fronte all’estremo siamo noi che assumiamo la consapevolezza di scomparire, l’assoluta e drammaticamente semplice coscienza di finire, nell’agonia febbrile di chi lotta per salvarsi e non sa, quando viene sodato, se è per guarire o per morire. 
Non c’è giorno per chi è malato. La morte, tenuta all’angolo della nostra quotidianità, in una pandemia, improvvisamente prende la scena, assorbe ogni ora e diffonde il terrore dell’estremo, il terrore che l’estremo possa rapirci e rapinarci degli amori, l’orribile possibilità che i nostri figli, all’estremo dell’amore più estremo, ci vengano strappati senza giustizia e senza giustificazione. 
Possiamo essere prudenti ma sappiamo che nessuno è immune. E poiché la ruota finita delle chance di vita continua a girare, per strappare uno stipendio di fame, la piccola miseria che serve a sostenersi al minimo scarto e con piccole cose garantite, per sopravvivere, rischiamo di morire, come da sempre hanno fatto le popolazioni nella storia. 

Abbiamo ancora paura e questa paura è il fondamento della nostra permanente insicurezza. 
Sappiamo definitivamente adesso come l’insicurezza, non la sicurezza, limita la nostra libertà.
Per essere più sicuri e dunque più liberi, per poter uscire e andare dove decidiamo di andare dobbiamo darci delle regole: dobbiamo evitare incontri con sconosciuti o occasionali, dobbiamo portare una mascherina sul volto, sanificare gli ambienti, lavare le mani, rispettare le distanze con i conoscenti e perfino con i conviventi, ci distanziamo, adottiamo scafandri di plastica isolante, visiere, guanti, camicie, occhiali. Ci diamo delle regole che tuttavia ci permettono di agire. L’insicurezza estrema del caos pandemico blocca la nostra libertà. Le regole che ci diamo invece sono indispensabili per essere più sicuri, per cercare di essere immuni. Se siamo sicuri di essere immuni andiamo dove vogliamo, stiamo con chi vogliamo, come vogliamo, quando vogliamo. Non dobbiamo subire un coprifuoco. 

Sicurezza e libertà sono in simbiosi, si relazione in modo direttamente proporzionale: quanta più sicurezza abbiamo di tanta più libertà possiamo; possiamo tanta libertà se abbiamo altrettanta sicurezza. 
La capacità (la Grazia) di rispettare le regole (lo stile) ci rende il privilegio della vita e la libertà di viverla. 
Dentro l’enorme dolore della morte che non smette di essere protagonista di una giustizia assoluta in una condizione naturale estrema, il socialismo è competenza alla giustizia relativa della società; è la Grazia, che ci consente il privilegio della vita collettiva e la libertà individuale; perché il socialismo è la mano che tendiamo all’altro, quando cerchiamo di salvarlo, il medico, l’infermiere, il cittadino quando vuole assistere, curare, sostenere. 
Il socialismo democratico è il mite e relativo tentativo di una giustizia sociale in cui la libertà è il vincolo della sicurezza e il saldo e solidale rapporto sociale, simbiotico, che garantisce sicurezza ad ogni nostra rispettosa libertà. 
La pandemia ci ricorda di cosa abbiamo ancora bisogno: di un socialism life, di un socialismo vita, quando la sopravvivenza dell’altro è la mia stessa sopravvivenza, diritti distribuiti sulla base dei bisogni, quando tendiamo la mano con amicizia per ricostruire una connessione sociale, una relazione di giustizia relativa. 
Il socialismo è la giustizia relativa della collettività, un patrimonio collettivo che vale ugualmente se la mano è infetta, anzi, che vale di più proprio perché infetta, perché quella mano è l’unica possibilità che abbiamo: fare in modo che il totalitarismo dell’insicurezza non sia il presupposto della nostra estinzione. 

Socialism Life, dunque, una socialità ricostruita che tutela la vita a dispetto di ogni isolamento pandemico. Lo possiamo fare in mille modi, superando i deficit della cronaca. E lo facciamo sempre, istintivamente, quando siamo oppressi, soffocati da strane solitudini e dal peso indefinibile del rischio, quando siamo bloccati senza alcuna libertà e senza la forza di muoversi. Allora, apriamo il computer o uno smartphone d’occasione e parliamo con qualcuno che ci ascolta all’altro capo della rete. Eccolo il Socialism Life che ci permette di riappropriarci della vita tramite tecnologie della modernità, quelle della comunicazione: la nostra modernità. 

Parlare con l’altro è tendere la mano per governare la relazione di socialità che consente la vita, per “rispondere al selvaggio dolore di essere uomini[3]

ooo/ooo

[1] PASOLINI Pier Paolo, Non è amore…, in Poesie in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964: “ Non è Amore. Ma in che misura è mia / colpa il non fare dei miei affetti / Amore? Molta colpa, sia / pure, se potrei d'una pazza purezza, / d'una cieca pietà vivere giorno / per giorno... Dare scandalo di mitezza. / Ma la violenza in cui mi frastorno, / dei sensi, dell'intelletto, da anni, / era la sola strada. Intorno / a me alle origini c'era, degli inganni / istituiti, delle dovute illusioni, / solo la Lingua: che i primi affanni / di un bambino, le preumane passioni, / già impure, non esprimeva. E poi / quando adolescente nella nazione / conobbi altro che non fosse la gioia / del vivere infantile - in una patria / provinciale, ma per me assoluta, eroica - / fu l'anarchia. Nella nuova e già grama / borghesia d'una provincia senza purezza, / il primo apparire dell'Europa / fu per me apprendistato all'uso più / puro dell'espressione, che la scarsezza / della fede d'una classe morente / risarcisse con la follia ed i tòpoi / dell'eleganza: fosse l'indecente / chiarezza d'una lingua che evidenzia / la volontà a non essere, incosciente, / e la cosciente volontà a sussistere / nel privilegio e nella libertà / che per Grazia appartengono allo stile. /” 
[2] Arendt Hannah, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino
[3] PASOLINI Pier Paolo, La ballata delle madri, in Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964

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