LA SCUOLA RIFORMULATA 2 - gli istituti governamentali e il processo educativo.

 


Alessandro CECI 

C’è una questione propedeutica: ripristinare il rapporto tra istituzioni di governo e istituti governamentali, in questo caso, tra i Ministri e i professori, tra politica e scuola. Si tratta notoriamente di un rapporto difficile, spesso conflittuale, talvolta indifferente, quasi sempre caratterizzato da una profonda reciproca incomunicabilità. 
Non vale soltanto per la scuola. 
In generale il rapporto tra istituzioni di governo, istituti governamentali e enti di governance è un simbolo emblematico di una società schizoide, tipica di una società in crisi di possibilità e di probabilità. Senza prospettiva. 
È schizoide quella società i cui istituti governamentali, in questo caso la scuola, sono distaccati da tutti gli altri contesti sociali e vivono serenamente del proprio presuntuoso isolamento. Sono istituti che preferiscono non connettersi ad altri, che restano soli e resistono totalmente assorbiti dalle loro procedure e dalle loro rappresentazioni. Gli istituti governamentali di una società schizoide sono separati senza essere separtiti. 

Il primo ad analizzare questa chiusura dei sistemi è stato Niklas Luhmann[1] che, discutendo della funzione del linguaggio eccessivamente specialistico del sistema giuridico o del sistema sanitario, ad esempio, denunciava proprio il rischio democratico del potere/protezione della comunicazione. Per mantenere separato ed integro, grazie all’isolamento, il proprio potere nella società schizoide: i singoli sistemi diventano eccessivamente autonomi; isolati, restano ai margini dei processi sociale e, alla fine, si delegittimano. A quel punto si radicano diversificati interessi e i sistemi isolati si mostrano tenacemente resistenti ad ogni riforma che, quando volesse essere attuata, si dimostra sempre imprecisa, non soddisfacente, lenta e disarticolata. Il rifiuto a cambiare, tipico di ogni microfisica incrostata del potere, non permette alcuna riforma e induce l’intera società a una riformulazione totale del loro ruolo complessivo (suddiviso in funzione interna e prestazione esterna) non più svolto. 
Nel 1999, cioè più di 20 anni fa, Niklas Luhmann e Eberhard Schorr denunciavano questo problema di riflessività autoreferenziale nel sistema scolastico[2]. La scuola sembrava loro la situazione emblematica di questo processo; una situazione che, nei suoi pregi e nei suoi difetti, ne rifletteva perfettamente le contraddizioni. 
Se questa minaccia era presente allora, durante la seconda o terza fase della società industriale, nell’epoca dei sistemi a blocchi modulari, oggi, nell’epoca dei network a morfologia continuamente mutante, nella prima fase della società della comunicazione, quella minaccia è diventata un rischio reale sebbene troppe volte occultato. Un rischio reale che sta generando, a causa della delegittimazione dell’istituto, isolamento sociale individuale, dai NEET (No Employment, Education, Travel) agli Hikikomori. 

Naturalmente, voglio specificare, qui non si parla della banale chiusura o apertura delle scuole in epoca di lockdown per pandemia: un problema organizzativo decisamente insignificante. Qui si parla del linguaggio del network educativo, scolastico e del suo ruolo (funzione e prestazione) nel network educativo. E il linguaggio della scuola è la didattica (non i contenuti variabili), il linguaggio del network educativo complesso e complessivo è la pedagogia. 
Piuttosto possiamo dire che il problema pedagogico è nascosto sotto la ossessiva esigenza di svolgere lezioni “in presenza”. Non vorrei che la voglia disperata di incontrarsi in una aula che troppo spesso è una prigione paradigmatica che isola gli studenti (dai professori, dalla società e da se stessi) molto più di quanto li faccia socializzare, preda di una docimologia totalmente discrezionale affidata all’esclusivo giudizio dell’insegnante, senza alcuna forma di oggettivazione dell’apprendimento[3] (che trasmette il concetto di potere incontrollato e incontrollabile), occultasse in verità, le solite depressioni luddiste contro la tecnologia di chi non vuole nemmeno fare un piccolo sforzo ad impararla. Tantomeno vorrei essere io un invasato estremista tecnologico, dedito alla mitizzazione delle macchine, sostenitore di una potenza degli strumenti che superano l’umano. Lo strumento più potente e complesso che conosciamo è il cervello umano. Per questo la pedagogia è tanto preziosa. 

Tuttavia vorrei sfruttare queste polemiche da gestione pandemica per recuperare parte del dibattito scientifico sull’educazione e sulla pedagogia, nonostante molte astruse polemiche, che mi sembrava in qualche modo sopito. Il virus ha riacceso il confronto quanto meno sulla funzione delle tecnologie e delle metodologie nei processi sociali ed in modo specifico nella comunicazione, nella formazione o nelle scienze educative e pedagogiche. 

Le tecnologie e le metodologie sono logiche
La tecnologia, si sa, è la logica dei mezzi. 
La metodologia è la logica dei metodi. 
Vi sono tecnologie dedicate al lavoro o al comfort quotidiano, che cambiano le abitudini degli uomini. Vi sono metodologie dedicate alla scoperta scientifica e all’interpretazione dei fenomeni, che cambiano i nostri paradigmi culturali. E vi sono tecnologie e metodologie che incidono direttamente sui modelli di orientamento: sia perché accrescono il volume delle conoscenze e del confronto critico, le tecnologie e metodologie della comunicazione; sia perché trasformano la stratificazione dei valori individuali e cambiano la gestalt degli uomini, le tecnologie e metodologie educative -. 
Sulle une e sulle altre il capitolo è ancora interamente aperto. 
Lo è sempre, in realtà. 
Di comunicazione, in generale (o anche in modo generico), se ne parla abbastanza, forse anche troppo. Ma il problema della comunicazione educativa, il problema che interessa noi, è stato affrontato solo per pochi anni, non in modo esaustivo. Forse proprio a causa della colpevole integrazione tra tecnologie e metodologie. 
L’integrazione tra tecnologie e metodologie è una potenza incommensurabile, è tutta la forza e la rumorosa invadenza dell’uomo sulla natura. Molti anni fa studiammo ingenuamente le tecnologie educative. Mai ci siamo davvero resi conto della potenza di questa coniugazione che ha addirittura indotto alla quarta modernizzazione nella storia della umanità[4]
L’avvento della società della comunicazione, infatti, è il prodotto della congiunzione tra tecnologia e metodologia. Se introduco un robot in una catena di montaggio, cambio la professionalità del lavoratore, ma non il suo modello culturale di riferimento. Se passo dal libro al computer e poi al tablet, cambio interamente logica, passo da una logica mediale lineare ad una logica ipermediale reticolare. 
Il limite attuale del complessivo sistema di formazione è stata la distrazione colpevole nella definizione di una metodologia pedagogica adeguata. Una distrazione funzionale agli interessi economici e politici delle parti. Gli strumenti tecnologici sono stati lasciati alla propria falsa applicazione pratica; la metodologia a polverose disquisizioni universitarie, difficili per i discenti e noiose per i docenti. 

La televisione, in questo senso, docet: è una tecnologia che nasconde la sua metodologia. O, più precisamente, la televisione è una tecnologia con una metodologia trasparente, nel senso che traspare come un fantasma: credi di essere informato o di sentir parlare uno speaker di qualità dubbia e invece sei sottoposto al potere pervasivo e invasivo di chi vuole dirigere i tuoi tempi; i tuoi temi e i tuoi comportamenti. Si tratta di una vera metodologia d’informazione, molto più didattica di quanto si sospetti. Metodologia e tecnologia autoreferenziale, che si alimentano con una attività generalista di gratificazione dell’audience, sostituisce il rapporto di rappresentanza della democrazia liberale con la relazione responsiva della democrazia della comunicazione[5]. Non si giustificano altrimenti programmi televisivi con lo stesso formato per 20 o 30 anni, senza clemenza, 
L’ambizione di generazioni di analisti della comunicazione è sempre stata quella di trasformare la televisione in uno strumento di divulgazione culturale e spesso di formazione. Non ci sono mai riusciti. La televisione è una struttura di potere fondamentale e fondante della società della comunicazione. 
Moltissime tecnologie con cui conviviamo possono avere una valenza cognitiva di ordine educativo, come il computer e il telefono, il tablet, lo smartphone. Questo però non vale per la televisione. 
La televisione è una vita che si sostituisce alla vita, è la mutazione dei segni decodificativi della realtà con i suoi simboli assorbenti e totalizzanti. 
La televisione sceglie il privato che deve diventare pubblico, decide come invadere le stanze e come evadere nelle distanze; è il simulacro che stabilisce come dobbiamo relazionarci con il circondario, consapevole della sua produzione di inconsapevolezza, informata sulla sua funzione di disinformazione, acritica nel merito della propria criticità. 
La televisione è semplicemente il potere. 

Per contrastare la potenza massificante delle televisioni generaliste, che sono tecnologie informative, è indispensabile utilizzare le tecnologie della comunicazione che sono oggi gli unici strumenti che consentono il coinvolgimento individuale e di gruppo di molteplici fruitori in programmi formativi. La competenza di questi strumenti nel connettere poli cognitivi per formare diversificati e personalizzati network di conoscenza è troppo forte e troppo urgente. Reclama una applicazione sistematica e integrata di tecnologia e metodologia in ambito educativo per evitare ciò che sta accadendo: cioè che questi stessi strumenti insuperabili, senza una metodologia educativa, esercitino una didattica indirizzata all’analfabetismo funzionale, effetto che il duopolio televisivo italiano ha già abbondantemente diffuso. 
Altro che apertura o chiusura delle scuole. È la wetware pedagogy che bisogna introdurre come realtà del dibattito scientifico e politico contemporaneo. 
Ciò che manca alle tecnologie d’informazione generalista, che producono la tirannide della ignoranza, è una epistemologia. Quando siamo a tavola con gli amici, o al bar, o a casa con i parenti, e qualcuno afferma un’assoluta verità, a noi basta un attimo per controllare con uno smartphone se quella verità è o no corrispondente alla realtà. In quel momento, in un attimo e facilmente, facciamo un controllo epistemologico. Perché questa cosa, che accade ogni giorno nella società, non è possibile a scuola o nelle università. Perché gli insegnanti hanno paura di essere smentiti dalla infosfera e quindi temono di perdere il loro potere? Allora facciano lezione, non contro, ma con gli smartphone, che sono e comunque resteranno strumenti di comunicazione cognitiva. La wetware pedagogy è proprio questo, una metodologia in grado di trasformare gli tecnologie di comunicazione cognitiva in strumenti di apprendimento educativo. 
L’assenza di una diffusa epistemologia, cioè di un controllo di verità che vorrebbero sostituirsi alla realtà per la nuova autocrazia della società della comunicazione, è, per me, la causa principale di molti fenomeni involutivi che travolgono le nostre città. Troppe volte assistiamo a cimiteri di news, inutilizzate, inutilizzabili, depositate nei social network, semplicemente a gratificazione del complesso di obsolescenza intellettuale; ma non muoiono. Le parole si depositano in un qualsiasi repository, prive e appositamente private di ogni metodologia: appunto, corpi senza anima. 
Si tratta allora di produrre nuove elaborazioni pedagogiche e didattiche per i processi di comunicazione e, in modo specifico, nuove elaborazioni relativamente alla integrazione di tecnologie e metodologie in educazione e alla loro utilizzazione in ambito didattico. 
Comunque gli strumenti della comunicazione  ci educano in modo permanente. 
Che lo facciano bene o male dipende soltanto da noi. 

In ogni caso, tecnologia e metodologia, cioè la competenza epistemologica, applicate al processo educativo sono i due elementi, forse i due più importanti, che permettono di decifrare i connotati storici e culturali della società della comunicazione. 
Infatti, il processo educativo incide direttamente sul modello culturale di orientamento all’azione, sul modello che indirizza il comportamento di ogni singolo individuo, quello stesso modello che caratterizza il sistema delle relazioni collettive. Ciò che fa un educatore è quasi esclusivamente questo lavoro d’integrazione e di valorizzazione dei modelli culturali di orientamento all’azione. E produce modelli innovativi, nuovi livelli culturali ed azioni orientate in modo non usuale. 

Nella società industriale, gli istituti governamentali si dotavano di forme e regole utili a trasferire valori e principi culturali in modo che fossero gli argini entro cui l’azione potesse orientarsi. 
Nella società della comunicazione, la situazione è perfettamente opposta. I modelli culturali si traducono nelle norme che le istituzioni codificano e, d’altronde, queste norme hanno un valore solo se sono sorrette dal consenso. 
Le norme dei sistemi democratici traggono la loro legittimazione direttamente dalla collettività, si accreditano cioè solo quando il loro contenuto giuridico si dimostra in sintonia con i modelli culturali a cui gli individui si riferiscono. È questo il presupposto su cui fonda, ad esempio, "la teoria delle foglie morte" di Jemolo, per la quale una norma va abrogata solo dopo che sia caduta in desuetudine, solo quando venga quotidianamente disattesa, nel caso in cui perda la linfa vitale del consenso e - proprio come una foglia morta - si distacchi dall’albero della giurisprudenza. 
La desuetudine è la condizione in cui il comportamento sociale, l’azione collettiva dei soggetti, smette di essere orientato dalla tipica cultura che genera la regola. Cambiare modello culturale dunque significa cambiare i criteri del nostro comportamento quotidiano e cambiare le norme che il comportamento stesso regolano. 

Gli istituti scolastici ed universitari rischiano di cadere in desuetudine e di essere trattati come foglie morte cadute da un albero. 
Non so se questo sia già accaduto. 
Spero di no. 
So, però, che, se tecnologia e metodologia non verranno integrate in una wetware pedagogy di nuovo tipo, le didattiche di aula non incideranno minimamente sui modelli culturali di orientamento all’azione e l’istruzione in generale verrà considerata un inutile orpello burocratico, una forma vuota, obsoleta, una foglia morta desueta che un giorno, non sapendo essere riformata e non potendo essere riformulata, verrà semplicemente abrogata. 


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[1] LUHMANN Niklas, Sistemi Sociali. Fondamenti di una teoria generale. Il Mulino, Bologna 1990 
[2] LUHMANN Niklas e SCHORR K. Eberhard, Il sistema educativo. Problemi di riflessività. Armando, Roma 1999 
[3] Vedi: BRUNO Francesco e CECI Alessandro, Elementi di metodologia dell’analisi e della valutazione dell’azione. Psicologica e pedagogica. Nozioni di docimologia. Aiasu, Roma 2007 
[4] CECI Alessandro, Imitation of life, Edizioni CeAS, Roma 2005 
[5] CECI Alessandro, Intelligence e democrazia, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006.

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