LA SCUOLA RIFOMULATA 1 - la scuola non riformata potrebbe essere interamente riformulata

 


Alessandro Ceci 

Pare che la ministra della pubblica istruzione Azzolina abbia risposto alle Regioni italiane, che chiedevano nuova didattica a distanza, che il Governo ha “lavorato tutta l’estate per riportare gli studenti in presenza”. Peccato! Io speravo che avessero lavorato per non riportarceli più. 

Non so se le Regioni italiane abbiano o no ragione rispetto al problema della integrazione tra presenza scolastica e sistema dei trasporti. So però che, in termini didattici, l’aula, così com’è andrebbe abolita; perché, così com’è, è una prigione paradigmatica

PARTE I 

Una prigione paradigmatica è un luogo in cui si perpetuano riti insignificanti, totalmente avulsi dalle dinamiche di apprendimento sociale, dove si sviluppa un programma secondo un ordine amministrativo e burocratico, secondo uno schema predefinito in cui c’è uno che insegna e domina e gli altri che imparano se obbediscono. 
La prigione è l’aula, stretta e costretta dentro le sue quattro mura dove si susseguono, sulla base della organizzazione di vita degli insegnanti e non sulla base di una efficacia didattica, materie alternative che non si connettono contenutisticamente e che seguono, autonome, distinte e distanti, i propri singolari contenuti. La prigione è l’aula, dove gli studenti sono indissolubilmente legati al banco, pedissequamente spesso a loro banco, senza cambiare mai posto, come unico punto di osservazione che struttura la loro immutabile gestalt e stratifica la loro percezione di vita, magari distanziati, che non possono parlare tra loro per non disturbare il potere assiomatico dell’insegnate quando sono vicini, figurarsi ora che sono allontanati l’uno dall’altro. La prigione è la scuola, da cui escono allegri, finalmente liberati dalla tortura della costrizione, non tristi per assenza di conoscenza e socializzazione, ma felici di poter fare finalmente la loro conoscenza e la propria autonoma socializzazione. 

Il paradigma, invece, è la tipologia di insegnamento, non aperto, chiuso, bloccato attorno alla voce, talvolta distonica, dell’insegnante, rigidamente intrappolato in un programma, in cui la dimensione empatica in ambito di relazione, che ormai dagli inizi del secolo scorso la scuola di Palo Alto ha mostrato essere essenziale al processo di apprendimento, è affidata alla buona volontà del docente e non è valutata come competenza professionale. Il paradigma è la metodologia di insegnamento, in cui chi spiega reclami che si ripeta ciò che ha dettato, senza nessuna forma di interazione con i social network e senza utilizzare gli strumenti informatici di cui la società dispone e la cui mancata utilizzazione è oggi uno dei principali elementi e anomia fino alla alienazione sociale. Platone credeva che la stampa fosse deleteria perché indeboliva la memoria. Siamo ancora li. Il paradigma è quello di chi ritiene di essere il depositario della conoscenza e della funzione educativa, talvolta l’unico depositario, e ignora totalmente che la società della comunicazione ci impone il passaggio dal know-how, la competenza personale ed individuale, al know-out, la conoscenza che si disperde nella intelligenza collettiva della rete. Una volta usciti dalla scuola, ai futuri professionisti sarà sempre più richiesto, non di sapere, ma di sapere come sapere, di essere in grado di selezionare e assemblare le informazioni disponibili per soluzioni creative e funzionali, verrà loro chiesto di essere in grado di distinguere tra real e fake news, di saper tenere insieme le verità della complessità con la realtà della fenomenologia. Ma gli insegnanti non sanno nulla di tutto questo e richiudono gli studenti dentro l’aula-prigione per imporre la loro inutile e insignificante ragione-paradigma; la loro religione didattica. 

Pensavo che tutto questo stesse finendo, definitivamente e finalmente, grazie alla disponibilità del giovane ministro Azzolina e alla drammatica occasione di distruzione creatrice del virus pandemico. Evidentemente non è così. La testarda volontà di insistere sulle lezioni in presenza, mostra l’assenza di una aperta sperimentale volontà di riforma della nostra scuola. Tuttavia, credo che finirà lo stesso, perché la scuola obsoleta e avulsa dalla natura profonda della evoluzione sociale è un istituto governa mentale, come lo chiamava Foucault, obsoleto e in via di constante e continuata delegittimazione, perché ancora espressione del vecchio biopower, il potere del controllo dei corpi, e per niente attento all’avvento dell’epipower, il potere della mente critica per una conoscenza autonoma e per niente automatica. 

Sono anni che mi batto per un nuovo progetto didascalico che sia aperto alla wetware pedagogy; anche perché temo che una scuola non riformata rischia di essere interamente riformulata.

PARTE II 

Ho sempre ritenuto, che la vita fosse una produzione di significati. Questo è un po’ il mio motto. Sono significati dolorosi certo, talvolta anche pericolosi. Significati che segnano e che marcano il corpo e l’anima delle persone, che bruciano in un solo granaio il lavoro sudato e faticoso del raccolto, significati spinosi e acerrimi, significati allucinati e allucinogeni, illimitati e illuminanti, che ti sprofondano nella giornata buia o che ti illuminano la notte, ma anche significati che ti salvano, che ti accompagnano, amici che ti passano e ti ricordano, che non hanno mai verità vere, qualche inganno, che hanno un tempo e non hanno uno spazio, infiniti e spietati, significati scellerati per i mille anni che verranno, visioni dell’anima del mondo. Sono passaggi e passaggi di concetti e di concezioni, sono senso e sentimento, il valore che sappiamo dare alle cose. Sono Archetipo

Una metodologia in grado di trasformare il clichè in archetipo, questo può essere la pedagogia nella società della comunicazione. 

Secondo Bertrand Russell[1] il potere sta alle scienze sociali come l’energia alla fisica. Con il potere possiamo dotarci dell’energia che ci serve a sopravvivere civilmente nelle notti fredde dei nostri inverni o possiamo costruire una bomba nucleare in grado di spazzare via il nostro pianeta dall’universo. 
Anche con il potere della pedagogia o, meglio ancora, con la pedagogia che è potere, possiamo trasformare l’archetipo in clichè o, come è auspicabile, il clichè in archetipo

L’archetipo è una forma a priori, è l’originario e l’originale, l’esemplare, l’esistente nel corpo, nella mente e nell’anima, nell’aria e nel panorama, nelle cose create, nel significato di ogni attimo. L’archetipo è semplice e complesso, o è semplicemente adeguato alla complessità del tempo e dello spazio, costituisce la stessa natura umana, è un ordinatore di rappresentazioni. Il bambino non ha imparato il modo attraverso il quale nascerà; egli lo possiede a priori. 

Il cliché, invece, è una consuetudine che si ripete “in modo automatico e vagamente simbolico”, è un rituale separato dal mito che consente agli esseri umani di compiere gesti senza scopo. Il cliché è sintomo e sintomatico, si estende alla massa, una sorta di allucinazione somatica collettiva che costringe ognuno a ripetere pedissequamente i comportamenti degli altri, gente che vive nel pregiudizio, in alto grado di fissità, in costanza, per abitudine, per comodità, spesso senza sostanza. 

L’archetipo può essere solo, ma non solitario. Non è un’opinione. È una scelta. È una esigenza. È una diversità, talvolta un’eccezione, talaltra un fallimento. È un dolore, “il selvaggio dolore di essere uomini[2]. Spesso è una proposta, ingenua, una speranza, un desiderio. L’archetipo è il silenzio di chi abbassa la testa, senza piegarla, la sera, quando torna a casa e non può sapere cosa accadrà domani. 

Il cliché, o stereotipo, ha un campo molto ampio. Sono forme che, più di frequente, si riscontrano nelle sindromi schizofreniche. Lo stereotipato mostra dei sintomi classificabili. Qualcuno li ha anche classificati in correlazione con altri sintomi. La prima tipologia appartiene a quelli che, ad esempio, usano toccare ripetutamente parti del proprio corpo. In questo caso si tratta di movimenti di difesa contro allucinazioni somatiche. La seconda tipologia si tratta di movimenti interattivi con uno scopo chiaro solo al malato: manierismi. La terza tipologia appartiene alle condotte cerimoniali, come questo libro, che fa riferimento a spunti deliranti. Infine ci sono i momenti residuali, come per esempio quelli professionali. Il cliché è sempre in compagnia, è sempre il comportamento di un gruppo, un pregiudizio sociale collettivo, un modo di essere comune, prevedibile. 

Finora è stato così. La scuola è stata così. Finora il potere della pedagogia è servito a trasformare l’archetipo in clichè. E quel clichè ci ha anche in qualche modo salvato. Abbiamo imparato a posizionare il nostro corpo in qualche posto, in qualche casa, su qualche cosa, dentro un’espressione ripetuta ogni volta per la stessa occasione. Abbiamo provato a muoverci come sappiamo, come sappiamo di sapere, come abbiamo imparato, per proteggerci. Scriviamo lettere abituali, ci accomodiamo sul frasario collettivo di amori apparentemente individuali, dentro le strofe delle canzoni di moda, che conoscono tutti, perché i libri sono luoghi più ostici e difficoltosi in cui depositare la sensibilità preordinata. La musica è più facile, si ricorda prima, si sente subito. La situazione non conta. Conta il rituale senza rito, “automatico e vagamente simbolico”. Solo vagamente e niente di più. Perché il cliché è un’opinione precostituita, una mancanza di fantasia e di immaginazione, la percezione usuale di giudizi usuali. 
Però. 
Però oggi è diverso. Il vincolo del dogma centrale è caduto e noi possiamo riscoprire l’umano senza imporgli una ragione dominante, senza una pedagogia sociale finalizzata all’assimilazione. Possiamo riprenderci il potere di cogliere i significati. Se insegniamo una metodologia critica perfino di se stessa e accogliente, non delle ragioni esaustive, ma dei significati, del simbolo, del senso e del sentimento del nostro mondo a semantica variabile, allora quel potere cognitivo potrà essere utile a trasformare il clichè in archetipo
Oggi è possibile e opportuno, cambiare la struttura conservativa del sistema educativo e del suo potere pedagogico al fine di favorire il processo di adattamento dell’habitat all’ambiente. Uno di questi cambiamenti riguarda proprio il rapporto con gli strumenti della socialità. Ivan Illich sosteneva che una società è convivale quando lo strumento non supera l’umano. Per evitare che accada ciò che temiamo, cioè che lo strumento superi l’umano e la società perda la sua convivialità, è indispensabile trasformare i mezzi della nostra comunicazione in strumenti cognitivi, contenitori contenenti contenuti, cioè significati indispensabili per affrontare la vita, la vita vera, non erudizione, ma conoscenza della conoscenza nella vita, lebenswelt, la scienza della vita. E in questo la scuola sarebbe assolutamente indispensabile. 
Oggi è possibile e opportuno cambiare la funzione di controllo della pedagogia nel sistema educativo di adattamento; è possibile e probabilmente opportuno, cambiare la natura e fare in modo che i significati autonomi della vita che gli umani riescono a produrre, a differenze di ogni altra specie di viventi, diano vita a tutta un’altra vita piena di significati. E in questo la scuola sarebbe assolutamente indispensabile. 
Lo ripeto: si tratta di costruire un progetto didascalico in grado, tramite la pedagogia, di formare le nuove generazioni ai tempi nuovi, ai loro tempi, di essere cioè, come diceva Ortega Y Gasset, di essere all’altezza dei tempi. 

L’uomo non può immaginarsi nel mondo se non legato ai significati della vita. Questa è stata la sua primigenia condizione di accoglienza senza artificio. C’è sempre un’alba timida, una pioggia in campagna, o al mare, una splendida giornata di sole a darci il benvenuto nel mondo. E ci sono i volti degli altri che compaiono e scompaiono, ma resistono; rivediamo chi abbiamo frequentato, chi ci ha aiutato, chi ci ha condannato e chi ci ha punito. 
Ci può essere una metodologia di interpretazione delle cose che sottragga ciascuno dalla sua no man’s land, la terra dove non c’è nessuno, il luogo dove non pascolano le speranze, i timori, le angosce, le ansie, qualche sogno, qualche piccola ambizione. Ci può essere un potere pedagogico che doni a ciascuno una metodologia in grado di dare un senso al dolore, in grado di costruire archetipi. Ci può essere una pedagogia del profondo, una metodologia che ci renda uno spazio dove depositare e rivisitare i ricordi, le immagini, gli angoli di un quartiere, di quel quartiere infantile, le strade di una città, gli spazi inusuali proprio di quella città, i rifugi legati all’esperienza, i residui relegati di quel nostro invadente, invasivo amore. Il potere della pedagogia può aiutarci a costruire, nella confusione della comunicazione ossessiva, un luogo inaccessibile, il posto dove si esercitano i pensieri, la stanza disordinata dentro di noi che le telecamere laser della società contemporanea stanno definitivamente svelando. E in questo la scuola è assolutamente indispensabile. 
La vita è una produzione di significati. 
La pedagogia può aiutarci a sfuggire dall’insignificante, dall’inconsistente. 
L’uomo può imparare ad essere indispensabile a se stesso. 
Può. 
Può darsi una metodologia che ci aiuti, conformemente agli insegnamenti della vita, a trasformare clichè in archetipi senza sfuggirsi, senza superarsi, senza annullarsi nella calma schiacciante di un tempo infinito in una terra senza uomini. 
La pedagogia può insegnarci a cambiare una vita consumata con una fruita che abbia una sua propria luce di significati e un particolarissimo odore di convivialità. 
Quella della metodologia della nuova pedagogia, della wetware pedagogy sembra essere proprio una soluzione accettabile. E la scuola in questo sarebbe assolutamente fondamentale. 

PARTE III 

Come ha sostenuto Derrik De Kerckhov, le nuove tecnologie costituiscono delle vere e proprie psicotecnologie, ovvero delle estensioni del pensiero umano, che si manifesta attraverso il linguaggio, a sua volta estensione della mente. Quest’ultima ha la caratteristica capacità di avvalersi in maniera ottimale di strumenti presenti nell’ambiente, per immagazzinare, accrescere, trattare rapidamente i dati, supportare le informazioni. 
In ogni epoca sono dominanti forme differenti di pensiero e di apprendimento, che si modificano con l’imporsi di nuovi media. De Kerckhov ha individuato il succedersi di 4 fasi, nello sviluppo storico, del pensiero orale, del pensiero scrittura, del pensiero schermo e del pensiero delle reti (l’era attuale). 

Mediante l’interconnessione mondiale si è verificata una sorta di moltiplicazione delle conoscenze. Nell’era attuale l'informazione è disponibile costantemente nei monitor che sono nodi dell’immenso reticolo della conoscenza umana. Il sapere di una moltitudine di intelligenze umane è incessantemente in evoluzione e si distribuisce facilmente di computer in computer in quel mare magnum che è Internet. Oggi, ciascun soggetto può accedere a tale archivio collettivo glocale, come se si trattasse della propria memoria: ciò informa l’attuale wetware
È possibile concepire Internet come una sorta di cervello capace di apprende ininterrottamente e di riaccomodarsi con enorme flessibilità. Si è venuto a creare uno spazio pubblico glocale, privo di confini geografici. Si tratta di una nuova "intelligenza collettiva" a cui gli individui possono attingere, da qualunque luogo e in qualunque istante della sua giornata, sviluppando una nuova forma mentis, una nuova gestalt psicologica. 

De Kerckhove ha evidenziato come nella realtà contemporanea concreta, internet, nella sua veste di porta privilegiata verso la conoscenza, gravido di risorse distribuite, rappresenti una forma di estensione dell’intelligenza e delle memoria personale ma di portata collettiva, poiché gli internauti lavorano con le stesse modalità adoperate nel lavoro di gruppo, cooperando con altri senza rinunciare alla propria identità personale. 
La scuola dovrebbe riflettere su questi aspetti per proporre un’offerta formativa congruente con tali premesse, mirando a facilitare i processi di apprendimento, così come si sono venuti trasformando nell’era del pensiero delle reti. La proposta di una wetware pedagogy va proprio in questa direzione e risponde senz’altro alle esigenze formative e di apprendimento che si sono diffuse prepotentemente nell’era di Internet e della glocalizzazione.. Il wetware è il cervello umano considerato in particolare riguardo alle capacità logiche e computazionali; si riferisce quindi alla capacità elaborativa complessa, potenziata dalle reti telematiche. La wetware pedagogy ha il pregio di fondarsi sulla considerazione primaria delle caratteristiche dell’attuale wetware dei nativi digitali, gli attuali studenti. 

Oggi, in ambito educativo, si tratta di avvalersi delle opportunità offerte dalla nuova intelligenza connettiva, emersa dallo sviluppo di internet, che, appunto, mira alla connessione, al collegamento, alla messa in relazione delle intelligenze. Altro che lezioni in presenza. 
L'intelligenza connettiva è in costante movimento, applicandosi alla risoluzione di problemi specifici, riuscendo a accrescere le intelligenze, grazie al suo carattere di rete aperta. 
All’interno dei contesti scolastici sarebbe quanto mai opportuno cercare di dar luogo a forme di pratiche didattiche in grado di avvantaggiarsi dell’intelligenza connettiva, avvalendosi dei nuovi strumenti dell’e-learning e favorendo la formazione di un apprendimento aperto, pronto ad arricchirsi nello scambio di informazioni e di esperienze e in grado di imparare ad apprendere in contesti aperti e collaborativi. 

Questa è la proposta innovativa e certamente potenzialmente prolifica della wetware pedagogy, capace di fornire un quadro metodologico in grado di fronteggiare e cogliere le opportunità che l’era di Internet offre. L’era attuale, definita da me e Liliana Montereale l’epoca della relazione, in cui è emerso il pensiero delle reti, che si sta affermando mostrando le sue caratteristiche in modo via via più pervasivo e sta informando di sé l’intero orizzonte del vivere quotidiano, specie tra i più giovani. 
La diffusione di una wetware pedagogy potrebbe consentire a ciascuno studente di estendere le proprie capacità cognitive e apprenditive, ben oltre la forma del sapere scritto o della cultura dello schermo televisivo, in quella che si potrebbe chiamare la nuova “zona di sviluppo prossimale”, secondo la nota espressione di Lev Vygotskij. Il sapere e l’apprendimento sono processi e possono derivare da azioni di co-costruzione sociale, oggi potenziate in maniera esponenziale dalle possibilità pressoché infinite di interconnessione di intelligenze rese possibili da internet. 
Nei contesti scolastici dovrebbe aver luogo quella messa in relazione delle intelligenze che dovrà portare a modificare la natura e la funzione della pedagogia. La mente di ogni singolo studente verrebbe così a potenziarsi e ad essere sostenuta dalla rete delle intelligenze interconnesse mediante la forma a rete interattiva, sul modello della rete web. Occorre sempre, infatti, tener presente il fatto che la mente umana, nella fattispecie “la mente del fanciullo, non è un vaso da riempire, ma una fiammella da alimentare”, come aveva affermato, nel I secolo dopo Cristo, Quintiliano. Per alimentare tale “fiammella” in maniera adeguata la wetware pedagogy si propone di modificare le teorie ed i metodi educativi attraverso il cambiamento di prospettiva e l’attuazione di forme di apprendimento collaborativo sostenuto da programmi di connessione dello sforzo di apprendimento. Ciò può verificarsi grazie alla creazione, nei contesti educativi, di una intelligenza connettiva, dinamicamente volta alla creazione di nuova conoscenza che coinvolga attivamente gli studenti e assecondi le loro attuali modalità conoscitive. 

Nel mondo reticolare di internet, in cui si collegano tante tecnologie e tante menti che danno luogo ad una mind connect, in cui però occorre sapersi orientare, saper selezionare le informazioni per non essere schiacciati da una valanga di informazioni. Se si potrà accedere alla rete in qualsiasi momento, collegandosi alla mente interconnessa, bisognerà soprattutto essere capaci di andare oltre i percorsi di ricerca suggeriti dai link presenti nei testi, per seguire percorsi creativi nel pensiero connettivo. La wetware pedagogy propone istituisce un modo nuovo, una sfida pedagogica moderna di accrescere l’intelligenza umana in tempo reale. E in questo la scuola sarebbe assolutamente indispensabile. 
Da un punto di vista pedagogico, nell’epoca della relazione in cui viviamo, assume valore culturale il network glocale della conoscenza in cui agiamo e siamo immersi. Ma gli agenti educativi tradizionali continuano ad ignorate tali mutazioni epocali. L’organizzazione della prassi didattica prescinde, ignorandolo, dal fatto che i nuovi studenti sono ormai dei “nativi digitali”, sicché nelle scuole si impongono ad essi programmi oramai obsoleti, insegnati attraverso metodologie didattiche estranee alle grandi mutazioni logiche e tecnologiche della realtà contemporanea. In effetti, nella concreta prassi scolastica si ignorano i processi di apprendimento reali, che invece devono essere concepiti nella loro essenza processuale, nella loro complessità. Con il modificarsi del contesto sociale e delle stesse modalità di pensiero si sono modificate anche le forme e le esigenze di apprendimento. Ciononostante, ancora lo scopo della didattica attuata è la trasmissione agli studenti di stratagemmi per essere in grado di superare interrogazioni ed esami. Si trascurano, in particolare, le azioni volte a migliorare le loro capacità di apprendimento e, soprattutto, quella di imparare ad imparare, attraverso lo sviluppo di competenze metacognitive di cui avvalersi nella partecipazione all’intelligenza connettiva. 

Sarebbe importante che le agenzie formative traessero insegnamento dalla conoscenza delle nuove teorie dell’apprendimento, per conformarvi la prassi didattica. Tra queste teorie, una è quella proposta dal modello Dreyfus, in cui si rileva una similitudine fra l’apprendimento informatico e le acquisizioni cognitive in tutti i settori professionali. I nativi digitali sono epigeneticamente adattati al proprio contesto culturale e quindi hanno interiorizzato una comune metodologia di apprendimento. Nella società della conoscenza connettiva si richieda la capacità di un costante apprendimento di nuove competenze e strategie cognitive. 
Secondo il modello Dreyfus nello sviluppo delle abilità e competenze, nella fase iniziale (del novizio), vi è l’applicazione meccanica di regole e norme, per arrivare infine (nella fase dell’esperto) ad abbandonarle quando abbiamo piena padronanza del campo e ci si affida all’intuito. In particolare, in ogni processo di apprendimenti e in ogni compito si attraversano cinque livelli: novizio, principiante, competente, provetto, esperto. L’esperto in una attività è in grado di gestire la complessità, con efficienza, ha la capacità di fare previsioni e pianificare, è capace di creare procedure e routines, non solo di applicarne di già esistenti. 
Come mostrato dal modello Dreyfus, l’apprendimento è un processo, non una azione meccanica, che richiede capacità di automonitoraggio dei processi cognitivi, ovvero competenze metacognitive. I corsi scolastici e universitari dovrebbero adeguarsi alle nuove acquisizioni nel campo degli studi cognitivi sullo sviluppo della conoscenza, per condurre gli studenti dal livello di novizi a quello di esperti. 

I processi di apprendimento sono sempre più importanti nel contesto contemporaneo, che nella IV cosmogonia ha assunto i caratteri di un’epoca della relazione, della interconnessione glocale, in cui si sono sviluppate nuove comunità psichiche, i domini relazionali, in cui l’integrazione fra tecnologie e pensieri dà luogo a nuove configurazioni psicologiche ed è sempre più importante apprendere ad apprendere in interconnessione. La sfida della wetware pedagogy si innesta proprio su questa nuova configurazione psicologica, in cui lo scambio delle conoscenze nell’ambiente glocale è in grado di potenziare l’intelligenza umana, a patto che questa metta in atto strategie di selezione e interpretazione creativa delle informazioni. In questo senso la scuola e le università debbono adeguarsi, divenendo tramite effettivo tra studenti e mondo reale, in cui è disponibile una enorme quantità di conoscenze, sviluppando riflessioni teoriche necessarie ai docenti per ottenere delle linee guida per l’insegnamento on-line. Le istituzioni formative moderne devono rendere gli individui capaci di apprendere nel nuovo contesto relazionale e avvalersi delle potenzialità della comunicazione interpersonale, sviluppando l’autoriflessività cognitiva e intelligenza connettiva, di cui servirsi nel mondo reale e del lavoro. I processi di apprendimento nel nuovo ambiente della interconnessione dei cervelli sono già posseduti dai nativi digitali, ma i contesti educativi seguono pratiche didattiche ormai inadeguate, con risultati generalmente scadenti. 
L’impatto innovativo di internet sulla struttura sociale si è rivelato forte, inducendo nuove logiche di acquisizione della conoscenza. Le istituzioni educative dovrebbero tener conto di queste nuove logiche sviluppatesi nei più giovani, socializzati in un ambiente informato dalle tecnologie della comunicazione glocale e dalle nuove comunità psichiche. I nuovi criteri di apprendimento comportano la necessità di una nuova didattica e di una nuova metodologia, che devono essere fatta propria dalle istituzioni educative, per renderle idonee ad assolvere alla loro funzione sociale nel nuovo contesto. L’alternativa è la decadenza della scuola e delle università, la loro marginalità formativa rispetto ai nuovi contesti virtuali basati sullo scambio di conoscenza in rete, frequentati dai nativi digitali e da essi ritenuti più formativi e stimolanti. Le agenzie educative devono divenire meno burocratiche, semplici diplomifici, in cui si cerca soltanto l’agognato “pezzo di carta”. Oggi l’apprendimento continuo è reso più agevole dall’emergere dell’attuale network glocale della conoscenza, in cui importante diviene la capacità di selezione delle informazioni, per evitare di esserne sommersi. Su tali potenzialità si va a costruire la wetware pedagogy

Gli studenti oggi preferiscono frequentare i social network, i forum tematici e consultare lo sconfinato mondo di conoscenze in internet; così che questi ultimi sono divenuti le nuove agenzie educative, rispetto alla proposta di un sapere precodificato delle istituzione scolastiche, vissuto come costrizione e imposizione. Nell’universale scambio della rete gli studenti apprendono e formano il sapere e, al tempo stesso, formano le loro strutture cognitive. Fino al paradosso che perfino genitori ed insegnanti, per contestare l'utilizzo dei social network, utilizzano il social network.

Per adattare l’offerta educativa alla forma delle strutture cognitive dei nativi digitali, la wetware pedagogy risulta oggi indispensabile, quale nuova pedagogia che si avvale delle tecnologie telematiche, per stabilire rapporti individualizzati con tutti gli studenti, rispettandone le necessità personali, consentendo nuove sperimentazioni metodologiche. Avvalendosi, a tal fine, di aule virtuali sempre attive, della verifica costante delle conoscenze e competenze acquisite, della co-costruzione connettiva di nuovo sapere, promuovendo l’automonitoraggio delle emozioni. 

CONCLUSIONE 

John Dewey aveva affermato che la vita doveva entrare nella scuola, per preparare alla vita stessa gli studenti. Orbene, il contesto della vita odierna è dominato dallo scambio comunicativo in rete, dalla interconnessione, mentre la scuola è divenuta un mondo a se stante, separato e dissimile dalla realtà sociale circostante, basato su una organizzazione temporale rigida e burocratica. L’e-learning rappresenta il presente e il futuro della paideia, mentre l’attuale organizzazione delle agenzie educative tradizionali le relega nel passato. La wetware pedagogy, vuole implementare l’e-learning, utilizzando l’intelligenza connettiva della rete. Le attività formative dovrebbero fare in modo di sviluppare le potenzialità logiche e computazionali della struttura cerebrale degli allievi, il loro wetware, l’integrazione del cervello umano con il cervello connettivo in Internet. La conoscenza nella nostra era si trova fuori dall’individuo, ma quest’ultimo deve essere formato per avvalersene nel migliore dei modi e per accrescere a sua volta il patrimonio di conoscenze da condividere con gli altri, in un continuo scambio. 

La wetware pedagogy è in grado di far sviluppare negli allievi la capacità di come e quale conoscenza utilizzare, tra quelle presenti nel contesto, per risolvere un problema reale. D’altronde, la wetware pedagogy è senz’altro glocale, in quanto, prospettandosi come una didattica e una metodologia che si avvalgono dell’intelligenza connettiva globale, vuole aiutare gli studenti a risolvere problemi reali locali con la propria azione. Gli studenti solo comprendendo il rapporto indissolubile tra la realtà globale della rete e quella locale in cui risiedono, possono sviluppare una visione comprensiva, olistica, della realtà sociale, culturale, economica e politica in cui sono immersi. Solo se il locale interagisce attivamente e quindi se gli individui interagiscono nei riguardi della intelligenza connettiva globale è possibile sviluppare lo spirito critico ed evitare l’omologazione culturale, a tal fine la wetware pedagogy è in grado di assicurare lo sviluppo delle capacità creative individuali, nel rispetto delle differenze personali, da favorire e non scoraggiare, come nelle agenzie educative tradizionali spesso avviene. 

Infatti, la wetware pedagogy considera ogni cervello come un nodo della rete globale e, al tempo stesso, della rete locale, ma soprattutto considera ogni cervello come un luogo di apprendimento. Spesso la conoscenza del contesto locale si trascura nelle scuole, ma si vive di fatto in una realtà complessa, definibile come inscindibilmente glocale. La wetware pedagogy è pressoché sconosciuta ai più nell’ambito accademico, in quanto si è trascurato l’impatto dei nuovi media sulle strutture di apprendimento dei nativi digitali e le conseguenti problematiche educative. Servono strategie didattiche on-line, per conformarsi alle nuove strutture di apprendimento degli allievi. Occorre far apprendere all’allievo un metodo, una logica, delle capacità comunicative, per consentirgli di essere autonomo nel processo di apprendimento e nella produzione di contenuti. 

D’altronde, la prospettiva del wetware si sviluppa in maniera autonoma all’interno dei network glocali moderni. Sarebbe quanto mai opportuno che le istituzioni educative accolgano al loro interno tale prospettiva e divengano capaci di proporsi come strumenti utili e indispensabili per la formazione nell’era del pensiero connettivo glocale. Occorre superare metodologie didattiche divenute ormai improduttive e sterili, per adottare la prospettiva della wetware pedagogy, per essere in grado di affrontare la sfida pedagogica contemporanea ed essere in grado di escogitare soluzioni per accrescere l’intelligenza umana in tempo reale. 

…e in questo la scuola sarebbe assolutamente indispensabile. 










[1] Russell Bertrand, IL POTERE, Feltrinelli, Milano 1978 


[2] Pasolini Pier Paolo, BALLATA DELLE MADRI, in BESTEMMIA, Garzanti, Milano 2003

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