SOCIALISM LIFE 2 - il fiore che manca

 


di Alessandro Ceci 


Sembra che non ci sia più futuro. 
Sembra.
Tutto ciò che può avvenire, sembra che possa realizzarsi soltanto in un eterno presente. La società prossima ventura sarà la stessa società contemporanea, con una notevole accelerazione tecnologica, in un habitat tecnocratico: ma alla fine restiamo strutturalmente sempre come siamo, nella stessa situazione di sempre. È l’ora, come dice la bella canzone, in cui del domani non si ha più nostalgia. 

Forse è vero che, in un mondo in cui la tecnologia migliora la tecnologia, chi rischia la pelle è l’umano. “Nel contempo, questi stessi motori scienza/tecnica/economia conducono a catastrofi a loro volta interdipendenti: degradazione della biosfera e riscaldamento climatico, che portano a immense migrazioni; moltiplicazione delle minacce mortali con l’incremento delle armi nucleari, delle armi chimiche e della comparsa dell’arma informatica, capaci di disintegrare le società. Tutto ciò provoca angoscia, ripiegamenti su se stessi, deliranti fanatismi.”[1]

Ci portiamo dietro, addosso come il pesante masso di Sisifo, la paura di essere distrutti dagli stessi fattori di successo che hanno consentito la nostra emancipazione e la nostra intelligenza, il nostro confort e la nostra ricchezza. Il paradosso è tutto li. Ciò che ci tutela è ciò che ci minaccia. E questo paradosso annulla totalmente la percezione che abbiamo del nostro futuro. 

Deve essere davvero pesante quel masso se un intellettuale come Edgar Morin torna a chiedersi: “che cosa è l’umano?[2]

È giusto?
No, non è giusto.

Edgar Morin se lo chiede perché siamo di fronte ad una nuova cosmogonia[3]; e quando si è di fronte a nuove cosmogonie tornano le domande principali, quelle che generano i principi primi. 
Infatti, ci hanno insegnato che gli elementi acquisitivi della vita sono i fattori della nostra forza e della nostra tutela, ma non è vero. Almeno non lo è direttamente. 
Da quando ci siamo affacciati, chissà come, sulla terra di questo pianeta, non ci siamo salvati per la nostra forza e non ci siamo tutela con la nostra tecnologia. Non è stata la relazione con gli oggetti o con gli altri animali che ci ha distinto, o meglio, differenziato. E non è stata un’intuizione improvvisa a farci passare dal sasso alla ruota, dal bastone all’arco. Il sasso, il bastone la ruota l’arco sono stati i prodotti della nostra socialità. Ciò che ci ha reso unici, più di ogni altra cosa, è stata la collettività accogliente, partecipata e condivisa, l’educazione al posto dell’addestramento che ci ha permesso di migliorare i nostri errori con tentativi ripetuti. E di trasmettere, generazione dopo generazione, come patrimonio collettivo, le soluzioni ai problemi della vita. 

Sarebbe stato più facile estinguersi agli albori della nostra specie, animali deboli ed indifesi, facile pasto di qualsiasi predatore. Ma non siamo scomparsi perché ci siamo difesi insieme, perché abbiamo costituito comunità, società, sistemi ed ora network. 

La solidarietà umana è stato il nostro fattore insuperabile di successo[4]

Per questo ogni crimine è una minaccia collettiva alla nostra sopravvivenza, perché mette in discussione il nostro vincolo solidaristico primordiale: la socialità e la sua filosofia politica, il socialismo. 

Pertanto…
Pertanto Edgar Morin si pone quelle domande fondanti e fondamentali perché siamo di fronte ad una nuova cosmogonia, ad una mutazione, la quarta, solo la quarta mutazione nella intera storia dell’umanità. Siamo passati dalla comunità alla società, dalla società ai sistemi ed ora dai sistemi ai network. Passaggi profondi e spesso incoscienti, ma fortissimi e definitivi. 
Mai, mai, proprio mai abbiamo abbandonato la nostra socialità, in nostro vincolo solidaristico, il nostro fattore d’integrazione, il nostro socialismo. La spinta a migliorare il mondo è stato il nostro ideale (non la pericolosa ideologia) di mondo migliore. Invece, questa illusione di essere in una staticità immutabile, in un presente permanente praticato da praticoni, in una concretezza da cronaca, priva e privata dalla storia, realizzata da realisti che non realizzano niente, noiosa, annoiata e insopportabile, annulla ogni ideale e cancella ogni idea. Non manca l’ossessionante ideologia. Manca l’ideale collettivo della socialità. 

Il socialismo è uno di questi fiori che mancano, uno di questi ideali senza ideologia che ci restituisce la percezione di futuro che il revisionismo orwelliano moderno ci ha espropriato. 
Con l’immagine di un futuro ideale, il socialismo ci restituisce la dimensione dell’umano che il triangolo dei fattori acquisitivi scienza/tecnologia/economia ci ha sottratto. 
Non potremo avere una nuova percezione di futuro se non avremo una nuova dimensione dell’umano e una nuova funzione del suo vincolo solidaristico. Naturalmente non possiamo derogare ad una dimensione planetaria. Il Covid ha fatto, ad oggi, più di un milione di morti nel mondo. Senza una dimensione planetaria l’umano non è più percepibile. 

Volendo seguire Bhaskar Sunkara e la sua ambizione di costruire un “Manifesto socialista per il XXI secolo[5], da questo dobbiamo partire, dalla dimensione planetaria dell’umano: “L’idea di fondo che emerge è che l’umanità è costitutivamente incompiuta, anche come specie. E che costitutivamente incompiute e molteplici sono le manifestazioni, individuali e culturali. Perciò la sfida per il futuro, in pericolo, dell’umanità è elaborare la coscienza di una «comunità di destino» di tutti i popoli della Terra, nonché di tutta l’umanità con la Terra stessa[6]

Dunque, per non essere schiacciati ed espulsi dalla quarta mutazione della comunicazione dobbiamo rinforzare il nostro vincolo solidaristico genetico. Il vincolo solidaristico è sempre stato circoscritto dentro le mura delle comunità, chiuso dentro i confini delle società, rinchiuso negli esclusivi ed escludenti moduli dei sistemi. Nel mondo dei network, in cui i confini paradigmatici vengono sostituiti da mobili orizzonti cognitivi, il vincolo solidaristico o è planetario o non è. Questo ci fa capire quanto è arretrata e pericolosa l’autarchia culturale urlata in difesa della propria paura. La chiusura razzistica e populistica all’altro è la vera minaccia alla sopravvivenza dell’umanità intera, che diventa un rischio quando prende forma nelle decisioni politiche. 

Il primo capitolo di un ipotetico manifesto per il socialismo nel XXI, allora, deve essere quello che riguarda “un nuovo umanesimo planetario, che solo potrà nascere dall’incontro fra le culture del pianeta, dalla capacità di pensare insieme unità e molteplicità[7]
Per convenienza elettorale questo tema è stato abbandonato dai falsi progressisti nel mondo. 
Eppure è un tema che riguarda la sopravvivenza della nostra specie, come la recente pandemia ha abbondantemente dimostrato. 

Se i socialisti riprenderanno questa prospettiva senza equivoci e con la forza dell’equilibrio politico (la concordia ordinum di Cicerone), allora l’ideale di mondo migliore, nel presente per il futuro, sarà probabile; perché non farà appello alle forze di oggi (scienza/tecnologia/economia) ma al vincolo solidaristico genetico in quanto ragione storica di sopravvivenza dell’umanità. 


28 settembre 2020

ooo/ooo

[1] MORIN Edgar, Prefazione, in CERUTI Mauro, Il tempo della complessità, Raffaelo Cortina Editori, Milano 2018, p. VII
[2] MORIN E., cit. 2018, p. VIII
[3] CECI Alessandro, Le cosmogonie del potere, Ibiskos, Empoli 2011
[4] Wilson O. Edwuard, La conquista sociale della terra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014
[5] SUNKARA Bhaskar, Manifesto socialista per il XX secolo, Laterza, Bari 2019
[6] MORIN E., cit. 2018, p. VIII - IX
[7] MORIN E., cit. 2018, p. IX

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