L’OMBRELLO DELLA DEMOCRAZIA


Riprendere il pensiero politico dal cestino della carta straccia 



È dirompente senza essere minimamente prorompente. 

La situazione che si sta determinando in tutti i partiti italiani, fuori o dentro il PD, fuori o dentro la sinistra, il centro, la destra, fuori o dentro la politica è dirompente senza essere prorompente. 

Si rompono i confini e si scavano nuovi baratri, rombi di parole vuote che servono soltanto ad estendere le distanze, sfide indispensabili per creare confini. Ciascuno dice ciò che rifiuta dell’altro per non dire in realtà cosa non può accettare di sé. Si ripetono sempre gli stessi slogan appassiti, “storie fragili nate per gioco, troppo vicine e troppo distanti”, una sarabanda di giustificazioni e accuse senza idee e peggio ancora, senza ideali. 

Sono politici che starnazzano utilizzando sinonimi strani e spesso dissonanti. 

La democrazia, però, non ha sinonimi ma comportamenti; e, dunque, della democrazia non si parla. Scorre la politica italiana nel presente senza uno scopo. 

Noi crediamo davvero che i deficit strutturali della nostra vita carica di contraddizioni e paradossi si risolvano con la meteora di un leader o l’abilità di un governo, o peggio ancora, che questi sguaiati argomenti prosciugati dalle loro argomentazioni? Crediamo davvero di poter assumere decisioni efficienti senza che siano pure efficaci, con l’azzardo di un tentativo, con la scommessa occasionale contro l’enorme quotidianità della vita, nelle strade, nelle città, nei silenzi? Crediamo davvero che sia possibile gestire indifferentemente ogni presente, per resistere soltanto per esistere, senza assicurare alla storia delle nostre generazioni il diritto alla felicità? 

E che decisione prenderemo oggi, per quale società, per quale vita, a quale vita costringeremo le vite infinite e meravigliose di infiniti e meravigliosi altri? 

L’assenza di una nuova concettualizzazione politica è profonda e drammatica. 

Se scelgo questo o quel leader, questo o quello schieramento, questo o quel progetto, quale società avrò? che futuro potranno costruire le nuove generazioni per le loro nuove generazioni? Credete che una scelta, qualsiasi scelta, oltre la statistica e la mera contabilità economica, sarà in condizioni di fornire ai suoi militanti la speranza di un mondo migliore? 

Quale mondo futuro disegna chi si afferma sulla invettiva contro i nemici sporchi, brutti e cattivi? Quale società propongono i reduci di un pensiero fallito alla lunga e dolorosa prova storica? E chi ci offre la prospettiva di una società democratica e partecipata con i suoi gruppi esclusivi ed escludenti in conflitto? O quelli che, non avendo più un partito, leniscono le proprie ambizioni con il mieloso disprezzo della cronaca? O chi costruisce una nebbia, un fumo necessario per occultare i propri privilegi? Quale società dissennata ci disegna la purezza degli uguali costruita interamente sul rifiuto insensato del diverso che presto diventa nemico? 

Il tempo ci rincorre e noi consumiamo i significati meravigliosi della nostra esistenza in disperati in esaltati atteggiamenti bullistici che, ammantati dal pratico realismo dell’esistente, disprezzano le ragioni come elucubrazioni improduttive e orpelli arzigogolati di frasi. 

L’assenza della politica è tutta qui, in questo decervellamento estensivo ed esaltato di chi va avanti per andare avanti, la strada per la strada e, girando sempre intorno, non si accorgono di restare sempre e soltanto nello stesso posto. 

Non c’è. 

La speranza di un mondo migliore è scomparsa dalla prospettiva dei soggetti politici e parlarne è inutile, deridente, illusorio, noioso. 

Eppure è ciò a cui la democrazia non può assolutamente rinunciare, senza trasformarsi nella sterile retorica delle forme, delle regole e degli statuti. 
In politica ciò che ogni volta ci vincola irresistibilmente, sono le speranze che coltiviamo. Sono calamite talmente profonde nella nostra psicologia infantile, che basta una pur minima occasione, talvolta anche un solo equivoco, per riaccenderle, per scatenarle contro il realismo delle opportunità, questo avvoltoio che giace “nel cestino della carta straccia” o che guarda “giù dal tetto con vile indifferenza” e che si muove un poco alla volta “come la lancetta nera d’un orologio”, nella descrizione indimenticabile di Graham Greene. 
Aspettano le spoglie del perdente e piccano la sua minorità, blandendo il capo, replicando le sue stesse parole, non una in meno non una in più, per non sbagliare. La nostra speranza invece, nonostante questa omologazione acritica, giace silente in attesa. 

La nostra speranza rinasce nel gioco proibito dell’infinito: ogni volta che qualcuno ci dice di essere disponibile a discutere; ogni volta che chiunque altro riconosce che, per cambiare davvero il Paese, non bastano slogan elettorali; quando, pur essendo necessaria, una proposta precisa, competente, direi, professionale, non è sufficiente. E noi torniamo a sperare che si possa finalmente entrare nei contenuti, senza necessariamente prima dover entrare negli schieramenti. 

Sarà ancora una illusione? 

Forse. 

Tuttavia la speranza che si forma sempre in noi trasforma irrimediabilmente il tentativo in una tentazione. Ed io torno a porre (se non posso proporre) due questioni propedeutiche ad ogni decisione politica nella società della comunicazione. Si tratta di questioni finora inascoltate ed anzi decisamente trascurate. 

La prima riguarda i fattori morfologici. Ripeto: per riformare le società moderne, nell’era della comunicazione, bisogna operare principalmente su 3 fattori. Nella lunga e remota affermazione dell’umano gli habitat sociali erano costituiti dal potere orizzontale delle comunità che garantivano la sopravvivenza. Poi il potere verticale ed egocentrico della rappresentanza ha trasformato gli habitat umani in società, dalla polis all’urbs. Nella società industriale il potere sul controllo della vita per la produzione sformata e il consumo sfrenato ha trasformato i nostri differenziati habitat in sistemi. Con l’avvento della società della comunicazione, con la rappresentazione del potere multidimensionale e ologrammatico, i nostri habitat sociali sono diventati essenzialmente network. I network tendono costantemente a modificare la loro forma: sono di morfologia mutante. Alla fine, la loro condizione provvisoria è dettata da 3 fattori (che sono sempre gli stessi, per cui costituiscono strutture conservative di energia sociale e politica): il fattore fiscale per il recupero delle risorse; il fattore elettorale per la selezione del ceto politico; il fattore culturale per la produzione delle idee. La morfologia dei network democratici moderni dipende dalla connotazione e dalle interazioni di questi 3 fattori. Ad esempio, è inutile fare una riforma del mercato del lavoro per recuperare occupazione senza cambiare il fattore fiscale; è inutile inventarsi regole aggiuntive sulla corruzione senza modificare il fattore elettorale; è perfettamente inutile attendersi una qualificazione del nostro senso civico e della nostra attenzione al patrimonio senza una produzione culturale ampia e generalizzata, dalla istruzione alla informazione, fino alla comunicazione. 
Nella società della comunicazione i sistemi sociali sono diventati network e la loro forma cambia complessivamente e nei diversificati suoi domini, spingendosi di volta in volta verso l’autocrazia o verso la democrazia. La maggiore autocrazia può talvolta essere un rimedio, ma solo ma maggiore democrazia è sempre una soluzione. 

La seconda questione, naturalmente meno amministrativa e di più lungo periodo, ma altrettanto fondamentale per me, è dunque quella di riformulare, senza dover necessariamente rifondare, il pensiero democratico. Le elaborazioni storiche che conosciamo sono nate e si sono sviluppate nella società industriale e, prima, nella ampia cosmogonia dell’egopower, del potere egocentrico, che va dal regno egiziano fino al rinascimento italiano. Anzi, per essere più precisi, abbiamo avuto diversi concetti di democrazia rispetto alle diverse cosmogonie storiche. Dalla conquista della posizione retta all’impero egiziano, democrazia era compartecipazione comunitaria alle risorse e alle decisioni. Dall’impero egiziano alla rivoluzione industriale, democrazia era una delle forme di organizzazione della politica. Dalla rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino, la democrazia è una condizione giuridica di organizzazione della società e delle sue istituzioni. Da allora ad oggi, siamo passati dal rapporto di rappresentanza (ti voto e tu mi rappresenti) alla relazione responsiva (ad un input comunicativo risponde un output elettorale). 

Che cosa è oggi la democrazia? 

In tutte queste enormi epoche storiche il concetto di democrazia è stato ben diverso in una epoca rispetto all’altra; tanto da dover parlare di democrazie al plurale e in relativo, piuttosto che usare una dizione singolare assoluta di democrazia. 

Che cosa è oggi? 

Viviamo nella quarta mutazione, con l’avvento della società della comunicazione, il concetto di democrazia naturalmente cambia ancora. Solo che noi non la pensiamo più, o almeno non la pensiamo più in modo collettivo. Abbiamo bisogno indispensabile di una nuova produzione concettuale sulla democrazia. 
Non possiamo tornare indietro. 
Quello che c’è, c’è. 
Per andare davvero avanti, allora, abbiamo indispensabile bisogno di un pensiero politico nuovo sulla democrazia della comunicazione. 

Questo pensiero non c’è ancora. 

Quando si discute, ci si riferisce ad un solo concetto, sempre lo stesso, avulso totalmente dal contesto storico sociale e avulso dalle mutazioni strutturali della società. Vi si aggiunge semplicemente un capitolo sulla informazione, ma una distinzione tra la democrazia delle comunità, la democrazia della società, la democrazia delle istituzioni e la democrazia della comunicazione, non c’è. L’assenza di questo pensiero politico collettivo ci lascia indifesi e incoscienti nelle mani della autocrazia e non potremo mai costruire gli istituti e le istituzioni democratiche necessarie, all’altezza dei tempi. 

Niklas Luhmann sosteneva che la minaccia che piova diventa un rischio per noi se non abbiamo gli ombrelli. La democrazia è il nostro ombrello. La minaccia del potere anarchico sta diventando un rischio drammatico per tutti noi perché non abbiamo più l’ombrello della democrazia a proteggerci. O, per dirla meglio, perché l’ombrello della democrazia che abbiamo non è più sufficiente per la nostra protezione. 
Sotto quell’ombrello non ci stiamo più, non ci ripara più, non c’entriamo tutti. La democrazia, nella società della comunicazione, ha perduto la sua capacità inclusiva. La forza irresistibile della democrazia è sempre stata quella di assorbire le sue stesse contestazioni. L’esempio storico più noto è quello del compromesso socialdemocratico. Le battaglie sindacali contro la democrazia liberale e industriale hanno alla fine incluso i contestatori nella produzione legislativa e rafforzato ed esteso la liberal-democrazia industriale. Oggi la dimensione inclusiva della democrazia è scomparsa perché i sistemi di autocrazia della comunicazione tendono a vanificare le contestazioni e le diversità, ad isolarle, a sterilizzarle in un’area sanitaria di quarantena e di vacuità relazionale. 
L’ombrello della democrazia non è più sufficiente perché nessuno lo ha aggiustato o cambiato: il deficit della democrazia è, appunto, assenza di falsificazione della democrazia – direbbe Popper -;quindi per impossibilità di autoriforma, per aver perduto la storica capacità di includere, tramite un confronto politico diretto, nella democrazia la stessa contestazione alla democrazia. Se prima la democrazia si alimentava dei suoi deficit, secondo la formula di Bauman per cui la società più giusta è quella che pensa di essere ingiusta, oggi non lo fa più. Muore di stenti, anoressica. Oggi, nel potere omologante delle autocrazie non c’è più il pensiero. Troppo faticoso, troppo noioso, meno immediato, meno affermativo e auto-confermativo di un tweet. Si può essere divergenti, a patto che si sia poco influenti. Nella società della comunicazione basta non essere ascoltato, per essere occultato. E la democrazia non ha più risorse per migliorare se stessa, per pensare se stessa in sintonia con le mutazioni storico-sociali, proprio perché ne viene occultato il lessico. La democrazia non ha più luoghi di formazione della sua sintassi e della sua semantica. Per dirla con Rorty, non c’è più un vocabolario né una narrazione della democrazia per la società della comunicazione che occupi le cognizioni e le dizioni del ceto politico. 

Non è questo un impegno all’altezza dei tempi? 

Non credete che sia indispensabile produrre un nuovo pensiero democratico? 

Certo dovrebbe essere il tema ricorrente del partito dei democratici; ma non solo e tanto meno esclusivamente. Naturalmente la discussione sulla democrazia coinvolge tutti i cittadini. Questa responsabilità di chiarire i significati è una responsabilità che spetta a tutti. 
In una poesia bellissima, che si intitola “Sa vendicarsi” di qualche anno fa Mario Benedetti esprimeva perfettamente questo concetto di emarginazione escludente dell’altro: “Chiudo gli occhi / e il prossimo /non esiste / hanno fine / la lotta / il mare di oltraggi / i padroni del denaro / la nuvola minacciosa / han fine i tranelli / i fuchi che comandano / la legge / gli eruditi / in odio / e quella frusta / che taglia l'aria / chiudo gli occhi / e il prossimo non esiste / però sa vendicarsi / adesso / o quando ne ha voglia / può chiudere gli occhi / solo chiudere gli occhi / e allora / io / non esisto”. 
Chiedo di non chiudere gli occhi, di tenerli ben aperti, di spingere quel dibattito proficuo, entro il quale esclusivamente è possibile trovare le ragioni della politica, in un’epoca in cui la politica sembra non avere più ragioni, sempre più intenta a costruire scenari di verità che non sono per niente corrispondenti con la realtà della vita nuda e cruda dei cittadini. Il dramma è che, in deficit di coscienza democratica, si trasformano le verità indotte in realtà prodotte a cui tutti si adeguano in un sistema di vita strutturalmente incontrollato e incontrollabile. Niente più della comunicazione critica ci permette di sconfiggere la comunicazione autocratica. Solo una cultura democratica può sconfiggere l’omologazione della informazione invasiva. 

Questo compito è spettato tradizionalmente ai partiti. 

I partiti, però, non hanno seguito il cambiamento della società e si sono trasformati in mere agenzie elettorali. Per il resto non fanno più nulla. Basta constatare il fatto che i congressi si aprono e si chiudono con rapidità ed esaltazione, in una boriosa baldoria, solo in prossimità del voto. Il dibattito sulla nuova democrazia spetta allora alle associazioni e ai cittadini interessati. Ai democratici di qualsivoglia occasionale schieramento che siano in condizione di sfidare le grida per un soffio di ragione senza alibi.

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