GLI OMBRELLI DI NIKLAS LUHMANN
Liuva CAPEZZANI e Alessandro CECI
[1] KUHN Thomas, La struttura della rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1979
[2]https://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/?fbclid=IwAR1TjC1Z2mejD-zMJxpTyJlVhbcMwbaeLyO_QcZe8kgJO_RzxrPQssX8Aqc
[3] https://www.forbes.com/sites/iese/2020/04/14/six-takeaways-for-policymakers-from-italys-response-to-covid-19/#4d5b766843b8
[4] https://www.psy.it/il-contributo-degli-psicologi-alla-task-force-governativa-per-la-ripartenza.html
[5] ANGEL Luis Lara, su “El Diario” tradotto da SULLO Pierluigi ne “Il Manifesto”, del 11 aprile 2020
[6] KHANNA Parag, Connectography, Fazi Editore, Roma 2016
[7] CALVI M., CECI A., CECI E., Stateless, piattaforme continentali di nazionalità, nuovi scenari globali della geopolitica, Ibiskos, Empoli 2016
[8] CECI Alessandro, Intelligence e democrazia, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006
[9] CECI A., cit. 2006
[10] KHANNA P., cit. 2016
[11] ILLICH Ivan, La convivialità, Mondadori, Milano 1973
[12] BAUMAN Zygmund, Modernità liquida, Laterza, Bari 2017
[13] BAUMAN Z., cit. 2017
[14] DAHRENDORF Ralph, Pensare e fare politica, Laterza, Bari 1986
[15] FROMM Enrich, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1977
[16] VACCARO Antonino, professore ordinario alla IESE Business School e direttore accademico del Center for Business in Society, e Mario Caligiuri, professore ordinario all'Università della Calabria in un articolo su Forbes, 14 Aprile 2020
[17] Di qualche giorno fa è la nomina governativa della dott.ssa Elisabetta Camussi, psicologa sociale, per entrare a far parte della Task Force che si occuperà della fase 2.
[18] pag.50
[19] BAUMAN Zygmunt, La violenza nell'età dell'incertezza, in Mondoperaio, marzo-aprile 2003, n.2, Nuova Serie Anno 8.
Diceva Niklas Luhmann (1998), la minaccia che piova diventa un rischio per me se non porto l’ombrello. La pandemia è una pioggia incontrollabile e irrefrenabile. Spetta all’intelligence costruire gli ombrelli.
Questi ombrelli, però, possono essere costruiti soltanto da un intelligence che superi la dimensione militare e militante. Gli ombrelli possono essere costruiti da un intelligence, diciamo così, socializzato, cioè in grado di gestire i “glocal event”, eventi globali e locali che riguardano la libertà e la sicurezza della vita quotidiana di ciascuno di noi. Un intelligence che agisce, all’esterno tramite le scienze sociali (l’intelligence) e all’interno tramite la psicologia; se questa distinzione vale ancora.
1 – dimensionamento della pandemia
Gli americani denominavano un evento “unprecedented”, senza precedenti, come un Major Event: cioè “un evento incancellabile nell’archivio comune del calendario universale”, un evento che fa epoca, che modifica l’ordine logico delle situazioni reali, che determina un vero e proprio cambiamento di scala. L’ 11 settembre , per questo motivo, è ormai “una citazione”, nel senso che è uno di questi Major Event.
Un Major Event è un particolare fenomeno. Si tratta di quei fenomeni i cui impatti sul sistema sociale di riferimento determinano una alterazione definitiva, una curvatura dello spazio comunicativo e relazionale. Il dominio del Major Event diventa talmente concavo da attrarre la maggior parte della energia dell’habitat sociale di riferimento, una attrazione così forte da destabilizzare l’intervallo di sostenibilità innalzando o abbassando eccessivamente l’entropia, fino a produrre crisi implosive o esplosive di diversificato fragore. O no: nel senso che i meccanismi di tenuta sono talmente saldi da sostenere gli impatti e mantenere l’entropia dentro l’intervallo di sostenibilità dell’habitat di riferimento. È ad esempio il caso dell’Occidente, che ha meccanismi di elaborazione del lutto mediatici molto rapidi e, al tempo stesso, frequenti e ricorsivi; tanto che alla fine, qualsiasi attacco all’Occidente lo rinvigorisce e lo espande. Major Event è il crollo delle Twin Towers ma non le bombe nei mercati arabi. Si piange l’Occidente, che detiene i meccanismi della comunicazione globale, e non si rimpiange nient’altro.
Per evitare questo equivoco scientifico ed etico, abbiamo preferito distinguere tra local, global e glocal event; perché non è detto che fenomeni eclatanti siano tuttavia evidenti e sempre comunque destabilizzanti. Anzi molto spesso accade perfettamente il contrario, come il caso dei “portatori sani” del Covid 19 che non sono evidenti, non sono destabilizzanti intanto sulla organizzazione sanitaria, ma sono decisamente eclatanti per l’effetto moltiplicatore esponenziale che hanno nella diffusione del virus. Fenomeni meno eclatanti, anche perché non percepiti, producono impatti latenti molto meno sostenibili di fenomeni più clamorosi.
Il termine glocale, come punto di integrazione dei due estremi di un intervallo connettografico (da un lato il locale e al suo opposto il globale), individua un nuovo modo di fare e concepire l’Intelligence, frutto della società della comunicazione. Infatti, con il passaggio dalla società dell’informazione a quella della comunicazione, non è più possibile considerare soltanto gli estremi cognitivi dell’intelligence globale o locale. Sia il globale che il locale sono eccezioni e vanno ricondotti al loro stato di eccezionalità. La frequenza, nella società della comunicazione, è sempre quella che riguarda eventi glocali. E nelle scienze sociali ciò che conta non è l’eccezione o, come avrebbe detto Kuhn[1], l’anomalia. Ciò che conta è la frequenza e la ricorrenza. Queste due dimensioni estreme, totalmente globali e totalmente locali, devono necessariamente fondersi, o meglio, integrarsi. Sono due facce della stessa medaglia. Due declinazioni dello stesso problema della sicurezza. Non vi può essere sicurezza a livello internazionale, senza partire dalla dimensione locale e, viceversa, la sicurezza a livello territoriale deve, sempre, essere inquadrata all’interno di una strategia globale. Pandemia docet.
La società della comunicazione, glocale, aperta e sempre più interconnessa si fonda sull’elevata mobilità, anche a livello virtuale, di dati, informazioni, cose e persone e sulla connettività dei network. La realtà virtuale, la rete, ha distrutto le tradizionali dimensioni del tempo e dello spazio e ha eliminato, di fatto, la distanza fisica tra le varie parti del mondo. Ogni nodo della rete, del network, inteso come habitat sociale, può essere collocato in un “qualunque ovunque”, proprio perché ogni ovunque è facilmente raggiungibile in qualunque momento, tramite connessioni e interconnessioni. Pertanto, un evento che accade in una determinata località del globo, produce i suoi effetti a livello mondiale, divenendo così anche un fenomeno globale.
La dimensione glocale dell’Intelligence è quella che stiamo vivendo sulla nostra pelle
Lo dimostra il concetto stesso di pandemia.
Una pandemia è per definizione globale.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), una pandemia “è la diffusione mondiale di una nuova malattia”[2], per la quale le persone non hanno immunità e che soddisfa tre criteri: si diffonda tra persone; provochi morti; si espanda quasi simultaneamente in tutto il mondo.
A differenza dell'epidemia la pandemia “si verifica in tutto il mondo o su un'area molto ampia, attraversando i confini internazionali e di solito colpendo un gran numero di persone”[3]. La definizione di pandemia, come precisa l’epidemiologo Heath Kelly, non “implica nulla sull'immunità della popolazione, la virologia o la gravità della malattia […] Una vera pandemia di influenza si verifica quando la trasmissione quasi simultanea avviene in tutto il mondo”[4].
Tuttavia una pandemia è al tempo stesso locale.
Si diffonde in base agli usi e ai costumi dei luoghi, negli spazi affollati, nelle occasioni del calendario nazionale. Inoltre, ogni Paese reagisce mettendo in atto dei piani pandemici necessari per gestire l'organizzazione di ospedali e terapie; cerca con la sua legislazione democratica o totalitaria di contrastare un virus ad alta trasmissibilità, con indici di mortalità variabili in funzione della propria capacità di risposta, in funzione della rapidità o meno di saturazione dei posti letto in ospedale per le terapie.
Dunque la pandemia è sempre un evento glocale: una dimensione globale con impatti locali. E quando muoiono le persone, non muore un numero indefinito e indefinibile di individui: muore il parente, l’amico, il figlio, la madre il padre, l’amante, l’amore. La pandemia globale produce un dolore estremo di estrema prossimità.
A marzo 2020 l’OMS ha dichiarato lo stato di Pandemia per il COVID-19.
“Il pericolo principale è pensare al Coronavirus come un fenomeno isolato, senza storia, senza contesto sociale, economico o culturale. Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo. Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me”[5].
La glocalità è stata la matrice fondamentale di questa influenza, in modo talmente drammatico e veloce, spostandosi rapidamente da un continente all'altro (globale) a bordo degli aerei, delle navi, dei bus, dei treni (locale), facendo credere che tra le possibili cause dell’origine del virus ci potesse essere la nuova ipotesi sempre identica di ordine dietrologico: il complotto, l’interesse, la manovra legata alla produzione della costruzione in laboratorio del virus per finalità economiche o politiche.
2 – motivazioni senza movente
Sono tutte motivazioni senza movente.
Angel Luis Lara cita una serie di fonti che escluderebbero l’ipotesi del complotto e sostengono invece come il COVID-19 sarebbe l’effetto dell’incremento dell’allevamento animale industriale. Nel 2016 nella regione di Guangdong, dove tredici anni prima si era scatenata l’epidemia di polmonite atipica conosciuta come SARS, e dove a Gennaio 2020 si è registrato uno dei focolai più attivi in Cina per il COVID-19, un nuovo coronavirus uccise 24 mila suini neonati fino al maggio del 2017, provocando la Sindrome della Diarrea Acuta Suina (SADS-CoV).
Nel 2017 la rivista scientifica americana “Virus Evolution” pubblicava a nome di scienziati e virologi uno studio in cui si indicavano i pipistrelli come la maggiore riserva animale di coronavirus del mondo. Poco dopo su “Nature” si davano evidenze di come la crescita dei macro-allevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie vitali dei pipistrelli, incrementato le possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame e fatto esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali selvatici per l’alterazione dei loro habitat a causa della deforestazione. Un’ipotesi che attribuisce alla globalizzazione non solo la trasmissibilità dei virus ma anche la loro origine e che proietterebbe soluzioni sull’analisi dei percorsi geopolitici, o come meglio direbbe Khanna[6], della geografia funzionale, che girano intorno alla globalizzazione.
Qualora queste motivazioni (ed altre più fantasiose) fossero vere, quale sarebbe il movente?
Quella della cosiddetta guerra batteriologica che trasforma in laboratorio i virus in armi letali e di distruzione di massa?
Proprio la dimensione della diffusione incontrollata di massa rende questa ricorrente dietrologia assolutamente non convincente. Una guerra si vince con un esercito ed un popolo. Nessuno ha ancora mai pensato di combattere una guerra per distruggere il suo esercito e il suo popolo. Un virus diffuso come arma, come evidente anche nel caso del COVID 19, specie se – come in questo caso – incontrollato, distruggerebbe anche colui che lo emette. E, a meno che gli attentatori biologici non siano vocati al proprio martirio, è improbabile che qualcuno abbia coscientemente e razionalmente diffuso un virus che uccide anche se stesso. Chi lo ha emesso dovrebbe almeno avere il vaccino per salvarsi. Non solo lui, ma anche i suoi adepti.
Nemmeno sul piano della innovazione la guerra batteriologica è convincente. Da sempre i nemici circondati e coloro che circondavano si lanciavano reciprocamente i cadaveri dei morti in battaglia nel campo avverso, nella speranza che una pandemia di peste indebolisse lo schieramento avversato. Fino a che, anche qui, non ci si è resi conto che la pandemia del nemico non si fermava dentro o fuori le mura, ma che le travalicava anzi con la massima facilità e investiva tutti.
Non c’è movente.
E in criminologia, se manca il movente, manca il colpevole.
Tutti possono avere, infatti, la motivazione di compiere un assassinio. Il colpevole, però, deve essere cercato solo tra colore che hanno un movente, cioè una precisa motivazione ad agire direttamente.
3 – l’intelligence glocale nella società della comunicazione
La società della comunicazione ci impone il superamento della tradizionale distinzione tra Intelligence globale, riguardante, cioè, tutto lo spazio mondiale e Intelligence locale, che ha, invece, a che fare con il territorio, con la città. Ogni rel-azione, e quindi anche la rel-azione d’Intelligence, deve, inevitabilmente, essere glocale (locale e globale al tempo stesso).
Nella nostra epoca storica, fondata sulla comunicazione, ogni organizzazione, ogni habitat sociale è un network, cioè una rete. Quest’ultima non è solo virtuale, a cui siamo ormai abituati a pensare, ma è una rete sociale, la struttura entro cui vivono, oggi, gli uomini.
Ogni rete è composta da poli e connessioni.
Nei network moderni ogni polo riassume l’intera rete, ogni provincia, città, territorio locale, cioè, è la rappresentazione della dimensione globale, per cui è possibile agire a livello internazionale partendo dai singoli poli, dalle realtà locali, in quanto, per effetto stesso della globalizzazione, ogni fenomeno locale si ripercuote e produce conseguenze a livello mondiale.
La rete può assumere diversi connotati morfologici, anche qui all’interno di un intervallo compreso tra i due estremi del network interamente segregato, ovvero un network con un centro direzionale che controlla tutte le sue connessioni, o, all’altro polo, un network interamente integrato, cioè, totalmente privo di un centro, dove ogni nodo gestisce autonomamente le proprie connessioni.
La rete è lo spazio in cui dimensione locale e globale si incontrano e si includono a vicenda. Glocale vuol dire rendere conto delle evidenze di un determinato territorio valutate alla luce di problematiche globali. In termini di Intelligence ciò si traduce nel predisporre azioni di contrasto locali, affidate ad esempio alla polizia municipale, riguardanti il controllo del territorio e la gestione di problematiche locali, ma sempre nell’ottica di una strategia più ampia e condivisa, elaborata a livello europeo o globale.
La società della comunicazione presuppone una struttura di Intelligence che sia un network, cioè una rete, un insieme di connessioni: glocale.
Si deve pensare ad una strategia globale, europea, secondo cui all’Intelligence di ogni Stato spetta la gestione, il controllo e la garanzia della sicurezza su un determinato territorio locale, ma in una dimensione di cooperazione e partnership glocale con i Servizi degli altri Paesi.
Paradossalmente il Covid 19 potrebbe essere la drammatica occasione per riorganizzare le Piattaforme Continentali di Nazionalità[7] ripartendole, idealmente, in aree di influenza controllate dai singoli Stati (ad esempio all’Italia, insieme con Grecia e Spagna, dovrebbe essere affidato il controllo sul Mediterraneo) ma in collaborazione fra di loro e nell’ambito di un sistema di controllo integrato a livello europeo (visto che a livello internazionale è impossibile).
È necessario, indispensabile per arginare la pandemia, un dialogo tra i Servizi di Intelligence dei vari Stati e, quindi, una riorganizzazione a livello europeo. Gli Stati devono scambiarsi risorse, informazioni e dati, utili per la gestione coordinata dei propri domini territoriali.
Glocale: una strategia europea o globale insieme ad una gestione, o azione, territoriale, locale.
L’intelligence glocale deve tutelare gli interessi strategici della intera Piattaforma Continentale di Nazionalità.
A livello locale, invece, la gestione del territorio, all’interno del singolo Stato può essere affidata alle forze di polizia locali. Opportunamente riqualificate. Queste ultime, infatti, hanno maggiore familiarità con il territorio urbano, con la rete stradale, con le possibili infrastrutture critiche e, quindi, sono i soggetti più adatti a svolgere un’attività di Intelligence locale che deve, però, coordinarsi con quella nazionale e, ovviamente, con piani strategici e di controllo europei.
Anche il dialogo tra Intelligence e polizia locale può essere rafforzato ed è necessario, a questo scopo, la creazione di organi ad hoc che possano fungere da ponte, cioè produrre, gestire e controllare connessioni tra le diverse strutture. Inoltre, gli agenti di polizia municipale possono essere adeguatamente preparati per interfacciarsi con le nuove minacce asimmetriche e a utilizzare strumenti tecnologici utili al controllo del territorio locale e alle connessioni globali con il processo in corso.
È preferibile che la nuova struttura di Intelligence glocale sia segregata, ovvero, che abbia al centro un nucleo decisionale forte, composto da esperti nella decodificazione di informazioni e metodologia di analisi, in grado di interloquire con i contenuti implementati da professionalità specializzate diffuse. In questo modo è possibile ottenere in modo particolarmente efficace sia un valore sintattico (analisti di intelligence) sia un valore semantico (competenze professionali) alle informazioni da inviare, successivamente, al decisore politico. Gli analisti devono possedere competenze funzionali, devono, cioè, essere dotati di professionalità qualificate e specializzate su una metodologia di decodificazione, una epistemologia simbiotica che sappia congiungere le verità con la realtà dei fatti. Saranno gli specialisti reclutati a fornire le conoscenze funzionali ai problemi che i Servizi di Intelligence sono chiamati a risolvere.
Possiamo dunque distinguere tra competenze epistemologiche per poter riguardare ogni settore considerato strategico per la sicurezza di ogni Piattaforma Continentale di Nazionalità, garantite dagli analisti di intelligence e competenze logiche o disciplinari necessarie ad ottenere i contenuti necessari alle esigenze, dal settore economico-finanziario, a quello energetico, dal patrimonio culturale al settore della cyber security, che possono essere ricercate e assicurate nella comunità scientifica.
Alla fine l’intelligence sarà continuamente fornito di competenze logica ed epistemologiche integrate che permettano di elaborare, analizzare ed interpretare le informazioni acquisite e decodificarle affinché diventino comprensibili e possano essere messe a disposizioni del decisore politico.
Senza un’Intelligence glocale, senza una riorganizzazione della struttura e del suo funzionamento. In assenza di un coordinamento fra i Servizi dei vari Paesi della medesima Piattaforma Continentale di Nazionalità (ma, anche al loro interno), senza una collaborazione con le polizie locali, l’Intelligence si troverà sempre impreparato di fronte alle nuove minacce asimmetriche che minano la stabilità e la sicurezza. Queste ultime continuano ad evolversi e a diventare sempre più pervasive ed imprevedibili e solo un rinnovamento del modo di fare e di essere Intelligence potrà permetterci di non restare indietro.
Purtroppo però le tradizionali strutture non reggono alla pressione delle modernizzazioni sociali per due ragioni fondamentali e fondamentalmente collegate.
- La prima ragione, dal nostro punto di vista, più importante anche se meno concretamente riconducibile alla produzione di una norma giuridica, è l’avvento della società della comunicazione che modifica la natura del potere e quindi la struttura delle organizzazioni di intelligence che al potere sono necessariamente legate. Questa transizione consiste nella sostituzione del rapporto di rappresentanza tra eletto ed elettore con la relazione responsiva tra un comunicatore (input) e il suo audience (output). Nel vecchio testo “Intelligence e Democrazia”[8] le varie forme di intervento dell’intelligence per il controllo e la gestione della relazione responsiva sono state descritte. Da queste nascono nuove rel-azioni di intelligence ancora non totalmente comprese e ancora non analizzate a partire dagli effetti mediatici che produco oltre che dai loro impatti cognitivi.
- La seconda ragione, maggiormente incisiva dal punto di vista di una riforma dell’intelligence italiano, parte dalla scoperta di David Steele secondo cui l’80% delle informazioni derivano da fonti aperte e nel 20% rimanente che invece derivano da fonti chiuse, non ci sono nemmeno le informazioni strategicamente più rilevanti. Il surplus informativo a cui siamo soggetti richiede una specifica competenza alla selezione e alla interpretazioni delle notizie denotative ed in quelle connotative, scorporandole da quelle semplicemente evocative che pure in questa fase storica sono decisamente rilevanti.
Per la prima e la seconda ragione dovute alla modernizzazione sociale, un apparato di intelligence non basta.
Occorre una funzione di intelligence in condizione di realizzare una comunità di intelligence nazionale, composta di operativi, analisti e consulenti.
Non il coinvolgimento, come spesso si enfatizza, di tutti i cittadini, quindi, entità vaga e non individuabile; ma una rete cognitiva nazionale con uno scheletro interno alla struttura istituzionale di riferimento (unitaria o binaria è indifferente) e tanti poli specialistici definibili per competenze.
È opportuno che gli operativi restino, come oggi, selezionati all’interno delle strutture militari e poliziesche dello Stato, perché occorrono uomini di provata affidabilità tecnica e psicologica.
Gli analisti interni alla struttura di intelligence dovrebbero avere una specifica competenza relativa alla metodologia di decodificazione dei fenomeni complessi e nella destrutturazione interpretativa delle informazioni.
Infine, e maggiormente, è indispensabile costruire una rete cognitiva di esperti nazionali sulle più svariate materie in grado di interagire, per propri ambiti di competenza, con gli analisti interni e con la loro metodologia, e che possano essere interpellati, di volta in volta, in relazione alle emergenze nazionali ed internazionali. È auspicabile che i poli specialistici di questa rete siano principalmente individuati per la loro competenza ovunque questa professionalità venga esercitata.
Effettivamente, tuttavia, può essere valida l’obiezione principale a questa ipotesi, che riguarda la segretezza delle informazioni e la preoccupazione della eccessiva diffusione degli interlocutori che può produrre una altrettanto eccessiva, incontrollata e incontrollabile divulgazione. Questi rischi possono essere superati da 3 momenti metodologici:
- la nuova competenza dell’intelligence deve consistere nell’individuazione delle informazioni strategiche nell’universo delle fonti aperte e nella capacità di decostruzione interpretativa, capability uniche, non troppo frequenti e difficilmente replicabili;
- la parcellazione delle competenze sul territorio italiano non permette agli esperti di controllare interamente il fenomeno analizzato e la formazione di una comunità di intelligence dovrebbe sviluppare anche un’etica delle responsabilità nei confronti dello Stato;
- la competenza degli analisti interni nella gestione degli strumenti metodologici permette di interagire con gli esperti controllando il loro processo di acquisizioni delle informazioni sensibili. D’altra parte la selezione degli esperti (con una specifica loro formazione di intelligence) permette di interagire con la metodologia interpretativa interna.
4 – la minaccia che piova
Il Covid-19 è la seconda pandemia globale del secolo dopo quella dell’influenza A/H1N1 del 2009.
Sono la stessa cosa?
Innanzitutto si può riflettere e dubitare che la pandemia in sé costituisca una innovazione nel corso della storia dell’umanità e nel corso della cronaca presente. Pandemie, sia come infezione e infestazione dell’aggregazione sociale ci sono sempre state. Non bisogna necessariamente ricorrere a Manzoni, al ruolo degli untori, o, in modo più sofisticato, a Foucault che fa risalire la nascita degli ospedali ai lazzaretti, come luogo di esclusione e di emarginazione dei malati. D’altronde l’usanza di bruciare i cadaveri, si è imposta negli usi e nelle consuetudini di diverse nazioni, proprio per evitare la diffusione di diversi virus killer e possibili pandemie.
Le pandemie non sono uguali in termini quantitativi.
Nonostante le (ancora poche) informazioni certe su questo Coronavirus, l’OMS lo ha subito indicato ad alto indice di trasmissibilità, secondo cui il cosiddetto indice RO (“Erre con zero”) dell’infezione, ovvero il numero di riproduzione di base, sembra essere maggiore di quello dell’A/H1N1.
Le pandemie non lo sono nemmeno in termini qualitativi.
Rispetto alla tipologia della pandemia possiamo riscontrare due connotazioni inequivocabili:
una di carattere geografico sociale ed una di carattere psicologico.
- - Il primo elemento innovativo della pandemia COVID 19, sembra semplice ed ovvio, ma non lo è affatto. In epoca di globalizzazione quella del corona virus è la prima pandemia globale che viaggia sulle connessioni, piuttosto che sui territori. Purtroppo però la risposta che viene istintivamente proposta è di carattere territoriale. Si individuano zone rosse, si chiudono i confini della nazione, si svuotano le città. Si prende tempo. L’obiezione più evidente è che il divieto ad incontrarsi, l’obbligo a non uscire di casa per non trasmettere il virus è proprio un modo di tentare di bloccare la pandemia interrompendo le connessioni. No. S’interrompono le relazioni. Le connessioni nella società della comunicazione e dei network non possono essere interrotte. Possono essere modificate, anche governate, ma non possono essere eliminate. Ora, per l’intelligence moderno la differenza tra relazioni e connessioni è una differenza fondamentale. Quando il mondo era fatto essenzialmente di relazioni, l’intelligence aveva bisogno di spie per conoscere il potere di influenza che, in una organizzazione, ciascuno aveva rispetto ad un altro. La conoscenza delle relazioni strategiche era perfettamente funzionale alla conoscenza del processo decisionale. Di più: sulla base della conoscenza delle relazioni strategiche si poteva indurre il decisore verso una scelta predeterminata. Inoltre le relazioni possono essere interrotte per bloccare un processo, per cambiare il trend di un evento indesiderato, minaccioso, pericoloso per i gruppi di potere o per lo Stato. In un mondo di relazioni se elimino colui che le detiene in modo organico, ho determinato un esito irreversibile di un progetto politico. Le relazioni interrotte non si ricostruiscono mai più nello stesso modo di prima. Infine, è evidente che le relazioni sono per definizione locali, si svolgono in determinate condizioni di spazio e di tempo, si riferiscono a quei soggetti che si sono incontrati in quel posto, quel giorno. Bisogna andarle a vedere, a sentire per capire la reale natura e il ruolo di ognuno dei protagonisti. Serve un intelligence operativo, fatto di militari e militanti, in grado di riportare più fedelmente possibile ciò che è stato visto ed udito. E bisogna addestrarli al controllo delle relazioni. Le connessioni invece vanno interpretate. Non è detto che coincidano automaticamente con le relazioni. Ad esempio, conoscere la relazione di un terrorista islamico (anche in base alla concezione che quel fondamentalista del terrore ha della donna) con la propria moglie è decisamente ininfluente se non addirittura inutile. È molto più rilevante conoscere le sue connessioni, sia in termini organizzativi che familiari. Piuttosto di sapere che cosa indossa la moglie e come il marito si rivolge a Lei, è più importante sapere se quel matrimonio rientra in uno schema di alleanze politiche o se piuttosto quel terrorista ha avuto la libertà e il rischio di decidere in solitudine e di trovare un ruolo nell’organizzazione politica di riferimento senza appoggi vincolanti. Se non si concepisce un criterio logico di decodificazione, le connessioni non si possono interpretare. Le connessioni sono globali, non possono essere circoscritte in uno spazio e vanno ponderate su un arco di tempo molto diverso per ciascuno dei protagonisti. Per un palestinese 62 anni possono essere relativamente pochi rispetto ai ritmi della propria storia; per un israeliano è tutto il ciclo di vita del suo Stato, costituitosi appunto il 14 maggio del 1948. Lo shock di un attentato terroristico eclatante, vista la capacità di elaborazione del lutto della società della comunicazione e la inflazione rapida delle news dei mass media, può durare diversamente in occidente, costruito essenzialmente sulle connessioni, rispetto a quanto possa durare in un mondo costruito essenzialmente sulle relazioni come il mondo arabo. Le connessioni non possono essere circoscritte né delimitate. Le connessioni non sono nemmeno eliminabili. Se uccido il capo di una organizzazione terroristica, elimino le sue relazioni ma non elimino le connessioni della organizzazione. Anzi, spesso le rafforzo, come il caso dell’arresto del capo mafia Provenzano, che ha rinforzato l’organizzazione criminale “Cosa Nostra” evitando una guerra di mafia per la successione. Le connessioni non si eliminano facilmente. Al limite, mutano, in un mondo di network cambiano forma, assumono, come si dice, una diversa morfologia. Infine le connessioni non si possono conteggiare, si possono ponderare; perché le connessioni pesano, alcune più di altre, e rendono “concavo lo spazio immateriale della società contemporanea”[9]. Una attività di intelligence che sappia analizzare lo spostamento dello spazio determinato da questo peso ponderato delle connessioni, può tracciare una mappa connettografica[10] di un definito evento, come ad esempio la pandemia, in modo da poter intervenire laddove il peso delle connessioni è maggiore. Occorre allora un intelligence fatto più di analisti che di militi (militari e militanti). Il virus “covid 19”, sul metallo, dura 3 giorni. Se trasporto le mascherine in una cassa di metallo non sterilizzata in aereo da Milano a Napoli, trasporto anche il virus, che si diffonde per connessioni e non solo per relazioni (come era ad esempio l’HIV). Per questo motivo interrompere le relazioni, per una pandemia che si diffonde per connessioni, è soltanto un modo per allungare i tempi affinché si trovi una cura o un vaccino. Non è certo una soluzione, che invece richiederebbe una nuova interpretazione delle connessioni con cui abbiamo costruito i network che sorreggono la nostra vita. Certo le relazioni sono sempre importanti, ma hanno una funzione e una dimensione diversa dalle connessioni. La pandemia da “Covid 19”, come le informazioni, nella società della comunicazione viaggia anche sulle connessioni ma soprattutto sulle connessioni manifesta i suoi principali effetti. Si veda ad esempio la trasformazione del lavoro dello psicologo: da sempre fondato essenzialmente sulla costruzione di una relazione terapeutica, che all’interno di un setting territorialmente specifico predispone connessioni temporalmente, simbolicamente ed oggettivamente estese, è convertito ai tempi del Covid-19 in “smart working” online, ovvero in una connessione che virtualmente riproduce una relazione, piuttosto che, all’inverso, generare una relazione che produca una connessione. Per connessioni si trasmette di tutto. L’infezione passa dal fisico alla psiche. Ed un altro modo per ucciderti, isolandoti, emarginandoti, costringendoti a fare i conti con te stesso, solo, senza un nemico, o con un nemico che non vedi perché è un tarlo che ha infettato il tuo corpo e la tua mente. Questo è il dramma patetico delle connessioni: ti infetta anche chi non conosci, chi non vorresti e devi accettare. Non lo possiamo evitare. Una paura che trascini nel tempo, atavica, una paura ancestrale che rinasce di fronte alla bestia che ti corrode, ti sbrana e ti smarrisce. Il virus nella tua psiche è superiore al pericolo della febbre o della tosse secca. È un virus che ti denuda nella impossibilità di combattere il male che fuori e dentro di noi.
- E quindi veniamo al secondo aspetto innovativo, che è proprio di carattere psicologico. Un mondo fatto di più di connessioni che relazioni esaspera o genera diverse nuove patologie. Una di quelle emblematiche si esprime nella condotte di ritiro sociale isolamento degli Hikikomori, che rifiutano ogni forma di relazione ma continuano ad avere connessioni tecnologiche e mediatiche. In epoca di pandemia siamo tutti Hikikomori. Tutti possiamo sperimentare quale è il limite e la possibilità, la debolezza e la forza di essere ritirati sociali. Tramite gli strumenti manteniamo le connessioni, ma perdiamo moltissime relazioni. Le perdiamo perché le selezioniamo o le dimentichiamo? E dimenticarle è un modo per selezionarle? Inoltre, l’esorbitanza delle connessioni rispetto alle relazioni è un deficit psicologico per l’uomo moderno? Ivan Illich[11] affermava che la società è conviviale quando lo strumento non supera l’umano. In questa epoca di ritiro sociale collettivo dovuto a pandemia, lo strumento ha certamente superato l’umano. Rispondiamo al telefono quando vogliamo, accendiamo gli schermi quando non ci disturbano; ma tutto questo ritirarsi non solo non aiuta a riflettere e comprendersi ma anche a proteggerci. Se l’isolamento e il distanziamento sociale da una parte offrono una misura di difesa dal virus per la vita, dall’altra alla vita sottraggono le più connaturate forme di sintonizzazione psicobiologica della vicinanza. Da sempre gli storici dell’evoluzione della specie, luminari della ricerca psicobiologica, da Darwin a Bowlby, da Tronik a Wilson, da Liotti a Porges, hanno fondato le loro ipotesi sull’altro meccanismo di difesa della vita e della sua salute, cioè propriamente l’ingaggio sociale. I due meccanismi di difesa della vita, il distanziamento e l’ingaggio sociale, entrano in conflitto perché ugualmente attivi, uno per necessità contingente, l’altro per istinto innato. Tutti sentiamo quanto sia innaturale restare in quarantena e privi dell’espansione delle nostre relazioni. D’altra parte la pandemia sta mettendo in evidenza un altro tipo di conflitto interno che riguarda il solo meccanismo di ingaggio sociale. Chi vuole o può uscire dalla quarantena imposta in questi giorni è indiscriminatamente perseguito come untore, come trasgressore irresponsabile. Chi fortuitamente si incontra lungo la strada che porta al più vicino supermercato, come concesso dal DCPM del 22 Marzo 2020 per condizione di necessità, in fondo viene guardato con sospetto. L’incontro e la vicinanza sono contemporaneamente sistema di difesa e di minaccia, condizione di desiderio e di rifiuto, di libertà e di controllo, di legittimazione e di persecuzione, di diritto e di pena. Oltre la perdita di una stabile e pertinente percezione dell’identità individuale e dell’appartenenza collettiva, questa anche sulla base di un comune condiviso e invisibile fattore di rischio, il rischio è che al ritiro ci si abitui per rinuncia, per astensione, per senso di scarsa autoefficacia percepita nei confronti di un problema globale dove nessuna relazione singolarmente nella sua unità minimale può intervenire. Le risposte di vicinanza e di lontananza sono entrambe necessarie alla consolidazione del sé e del noi. La loro disorganizzazione è una reale minaccia alla stabilità della persona. In questi casi la pandemia viene sentita come una sconfitta dell’umanità e il ritiro sociale diventa autoreferenziale: più mi ritiro, più desidero ritirarmi e questo ulteriore ritirarmi mi conduce al definitivo adattamento all’isolamento. È il deficit psicologico dell’era moderna che la pandemia mette chiaramente in evidenza: stare nell’impotenza come in una zona di comfort. Non si combatte più. È più facile e comodo cedere senza concedere. Si rinuncia alla relazione, all’impegno, alla responsabilità, all’amicizia, al sesso, al cibo, ma anche ad un sorriso e quindi alla vita con l’illusione di preservarsi da un’infezione con cui invece, stante le informazioni attuali, saremo destinati a convivere. Quindi, se lo strumento ci supera, e se le connessioni finiscono per sostituirsi alle relazioni e alle sue qualità sensoriali, prossemiche cinetiche, rischiamo di non essere più umani. Lo siamo talmente poco che, come si dice, ci attacchiamo più alle cose che alle persone; sviluppiamo cioè una emozionalità degli strumenti. È più facile godere di postare su un social la foto di una pizza fatta in casa appena sfornata, che rimpiangere quella volta in cui ci siamo negati alla compagnia di una cena in pizzeria. Il computer diventa essenziale. Il telefono pure, il libro, la casa ordinata, gli oggetti che costituiscono il simbolo junghiano di sé. Dimentichiamo gli altri. La nostra psiche si affolla di cose più che di persone, visto che possiamo vivere tranquillamente da soli, salvi dalla minaccia che gli altri ufficialmente costituiscono per noi e salvi dell’affollamento di quelle cose e strumenti diventiamo dipendenti per autoregolarci emozionalmente. Non potendo correlarci in modo interattivo. La dipendenza dallo strumento, a differenza di quella dalle persone, ci rende autoreferenziali e ancorati alle gratificazioni di uso e consumo immediato, ovvero incapaci di una progettualità di gratificazione sul lungo termine che invece è implicata nei più prolungati e profondi processi costruttivi delle relazioni interpersonali.
L’autoreferenzialità è un loop di vita, egocentrico e solipsistico, riduzionistico.
4 – costruire gli ombrelli
Come possiamo uscirne?
Come ottenere che il sistema di connessioni non subentri completamente a quello relazionale ed evitare, quindi, che scoppi un conflitto tra i due sistemi? Come evitare un conflitto all’interno dello stesso sistema relazionale dove l’ingaggio sociale può diventare al contempo persecutorio e salvifico?
Dovremo abolire e abrogare gli oggetti che hanno sostituito le persone per ritrovare il ruolo fondamentale delle relazioni sulle connessioni, delle persone sulle cose?
O potremo ri-orientare sia le connessioni sia le relazioni, il nostro meraviglioso network di convivialità, selezionando coscientemente persone e cose sulla base dei significati che ci fanno fruire della vita senza consumarla?
In questo il ruolo della psicologia (e della filosofia, come sostiene Galimberti) è fondamentale, perché è fondamento e fondazione.
È fondamento perché diventa il centro della ricostruzione del sé, una riappropriazione della propria umanità, sia relazionale che connettiva, in grado di riempire, senza eccedere mai, di significato le cose.
È fondazione perché c’è sempre una nuova psiche da scoprire, nuove dimensioni del proprio essere, ciò di cui davvero si ha bisogno, una capacità d’introspezione che non rappresenti la giustificazione del proprio isolamento: l’essenza della propria esistenza.
Avremo bisogno di una psicologia della riappropriazione della relazione nell’epoca dei network, che sono fatti essenzialmente di vuoti in cui possiamo cadere in ogni momento, come soggetti sociali e come individui, per poi finire all’estremo in un mutismo che rapidamente e involontariamente potrebbe trasformarci in criminali (quando le cose hanno più valore delle persone, si preferisce ammazzare le persone per tenersi le cose).
Il circuito ambiguo socializzazione contemporanea rende la vita dura, l’insostenibilità pesa dentro e fuori di noi. Nei vuoti dei network, cioè senza relazioni e connessioni, si sviluppa e cresce una underclassman, una classe di uomini soli, che stanno fuori e sotto il grande e perverso turbillon della comunicazione e della legittimità ad una vita autorealizzata. Gente fuori rete, che prima veniva raccolta e assistita nelle organizzazioni sociali di sorveglianza e contenimento della famiglia, della chiesa, del sindacato. Gente che oggi invece muore, fisicamente muore scivolando verso il basso, nel vuoto della tossicodipendenza, dell’alcolismo, degli psicofarmaci, di una pandemia o semplicemente della solitudine. La società liquida[12] brucia competenze e umanità in vite scartate[13], esubero ed esclusione di un numero crescente, incontrollabile, di individui fuori dalla vita e che guardano un mondo eppure reclamato in ogni speranza millenaria.
Ralph Dahrendorf ha denominato underclassman – la sottoclasse – quella categoria di soggetti alienati, esclusi dai sistemi di socializzazione, dai centri di partecipazione. “Indubbiamente – egli scriveva – la tecnologizzazione porta, fra l’altro, a una estrema qualificazione del lavoro. Questo fatto, però, non solo riduce i posti di lavoro disponibili, ma soprattutto fa si che a restare sulla strada siano coloro che sono privi di una qualificazione superiore per mancanza di occasioni o anche di talento. Sono tanti, e diventano sempre più. Gente addestrata per l'industria meccanica torna allo stadio di apprendista nell'industria elettronica, ridotta a fare gli operai ausiliari, quindi ben presto lavoratori a tempo, poi disoccupati saltuari, e infine disoccupati definitivi. Dal momento che la società ufficiale continua a girare intorno al lavoro, a considerare la vita come determinata dalla professione – dalla pensione al prestigio sociale, dalle possibilità educative al sentimento di sé – colui che viene a trovarsi in una situazione del genere rispetto al suo lavoro non ha più reti protettive, e scivola attraverso ogni maglia verso il basso”[14].
La pandemia svela questo arcano mascherato dalla volontà e dalla pretesa di poter avere tuto per sé senza essere nulla in sé[15]. Un’ingiustizia semplice occultata dalla frenesia dei media, che non si vede perché è fuori dalle connessioni e dalle relazioni. Era la stessa ingiustizia del capitalismo nel primo novecento, del mercato che non ha saputo dividere equamente la terra e il raccolto per essere sostenibile nei confronti del lavoro e della fame. Oggi la pandemia, già solo per il controllo e la distribuzione della salute, già solo nella scelta di chi aiutare a non rischiare e chi lasciare da solo a combattere per sopravvivere, mostra che ancora non vengono divise con equità le chance di realizzazione di vita per evitare che il nostro futuro pandemico non ci costringa a scartare, scaricare, cestinare umanità (Bauman). Una ingiustizia semplice , immateriale, nascosta dietro la salubrità e la sanificazione, che già oggi ci evita la frequentazione senza un attestato di purezza, senza il privilegio della immunità e che è ovunque, in ogni casa, in ogni comune, in ogni provincia. Un nemico virale che, come in un film di fantascienza, seleziona gli umani in base ad una nuova purezza: non più di appartenenza storica e tradizionale, non più d’identificazione economica fra classi, non più di partecipazione politica e/o etnica, ma fisica, apparentemente dettata dalla salubrità o della infezione.
Il rischio della pandemia intorno a noi è un rischio perché entra in noi e infetta più il nostro cervello dei nostri polmoni. È intorno e, peggio ancora, dentro di noi, un rischio evanescente che non possiamo relegare ipocritamente nella prigionia di un discorso estetico ed intellettuale per esimerci dalla responsabilità politica di debellarlo. O almeno di tentare.
Il compito dell’intelligence contemporaneo è quello di costruire gli ombrelli affinché la minaccia che piova non divenga un rischio per noi.
La pioggia acida e logorante sta cadendo sulle nostre teste, nelle nostre province, come una ingiustizia di nuovo tipo, in queste sere di quasi estate, quando cominciano a fiorire gli alberi da frutto e sulla strada passano ombre di uomini, lavoratori occulti, occultati perché ciononostante ancora sfruttati, senza protezione alcuna soltanto per essere nati altrove o per un diverso colore di pelle.
Ci sono strategie di contenimento.
Sembra che l’Italia ne abbia finora adottato 5 diverse per affrontare l’emergenza del Covid[16]:
- Dare priorità alla salute e al benessere dei cittadini. Mentre alcuni paesi come il Regno Unito proponevano l’immunità di gregge e nessun isolamento l’Italia ha difeso il diritto fondamentale alla vita e al benessere di ciascun cittadino, sebbene poi si sia trovata impreparata di risorse sanitaria sacrificate da pregresse politiche economiche.
- Enfatizzare la comunicazione trasparente. Mentre all’estero molte informazioni venivano diffuse senza controllo delle fonti scientifiche in Italia fin da subito tutti i media si sono adoperati per persuadere la popolazione ad affidarsi solo alle fonti istituzionali dell’Istituto Superiore di Sanità, del Ministero della Salute della Protezione Civile e dell’OMS.
- Concentrarsi sulla flessibilità e adottare un approccio integrato. Molte aziende hanno convertito la propria attività per la produzione di mascherine e materiale utile alle professioni sanitarie ad esempio, Geox, Prada, Calzedonia. La Protezione Civile si è coordinata con le associazioni di volontariato e Ordini Professionali compreso lo stesso Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi.
- Il rapido sviluppo di un efficace sistema logistico di emergenza. Nel coordinamento tra istituzioni militari e civili, sono stati sviluppati sistemi di trasporto di emergenza per salvare la vita a molte persone che non potendo essere ospitate in alcuni ospedali del nord sono state trasferite nelle strutture ancora disponibili del centro e del sud, come pure sono stati ri-organizzati o costruiti in fretta ex-novo "ospedali COVID" ad hoc.
- L’esercizio della vocazione alla responsabilità professionale. Medici infermieri psicologi sono intervenuti nello spirito delle loro vocazioni con abnegazione compromettendo la loro stessa vita quando era necessario intervenire pur in assenza dei presidi DPI, altri che da pensionati o attivi in altre attività hanno rimesso il camice chiamati da un senso d’innata responsabilità verso la vita. Molte di queste scelte si devono alla cultura italiana di stampo prevalentemente umanistico e all’efficacia della formazione di molti atenei italiani che purtroppo hanno bisogno di tempi medio-lunghi di preparazione ma ottengono notevoli gratificazioni scientifiche e pratiche dai progetti di cui si parlava. Sui numeri: la Protezione Civile italiana ha recentemente lanciato un bando per chiedere l'aiuto di 500 infermiere volontarie. In meno di 48 ore, ha ricevuto oltre 9500 domande.
- Chiedere una risposta internazionale coordinata. Un fatto: durante l'incontro a Bruxelles il 13 febbraio, il governo italiano ha espresso la necessità per tutti i paesi europei ad avvicinarsi alla crisi COVID in modo integrato e di prendere in seria considerazione anche la situazione africana.
Ci basta questo?
O non è, per caso che il COVID 19, ci pone di fronte all’incoscienza di aver pensato al calcolo costi/benefici dei bilanci piuttosto che alla sicurezza nella vita quotidiana dei cittadini?
E l’ombrello che l’intelligence deve costruire, con l’ausilio delle competenze nazionali e internazionali, non è forse più consono, per evitare la prossima pandemia, alla costruzione di uno scenario di sviluppo in cui la verità sia epistemologicamente simbiotica alla realtà?
Questo lo si può fare senza riformare gli apparati, togliendoli dalla connotazione fortemente militare per farli entrare in una militanza scientifica e culturale che ci aiuti a capire, in questo mondo confuso e confusionario di notizie, non solo quali siano le fake news, ma anche quale sia un percorso scientificamente credibile per la salvaguardia e la salvezza delle vite umane, oltre ogni rappresentazione apocalittica del mondo?
L’ombrello di cui abbiamo bisogno è essenzialmente cognitivo rispetto alla realtà, alla inoppugnabile eloquenza dei fatti.
5 – conclusione
Sembra che tutti abbiano adottato finora, non avendo soluzioni effettive, soltanto strategie di contenimento della fase 1 dell’emergenza finalizzate a prendere il tempo necessario per capire da che parte andare.
L’intelligence sembra aver lavorato essenzialmente su vettori relazionali.
Le mappe connettografiche della pandemia, uniche che ci permettono di prevederne l’evoluzione, non ci sono.
Il peso delle misure d’isolamento finisce nell’aggravare la sindrome del burn-out dei medici e degli infermieri, caricati di lavoro eccedente rispetto al numero di casi da aiutare e trattare. Senza mappe connettografiche che sappiano prevedere con una approssimazione tollerabile il trend della pandemia si finisce per trascurare la programmazione di interventi istituzionalizzati di prima linea da parte delle professioni di sostegno come quelle psicologiche.
Le professioni psicologiche, infatti, già in fase 1 dell’emergenza, avrebbero potuto mitigare l’impatto traumatico degli eventi critici recenti con interventi mirati di contenimento delle angosce, defusing e debrifing. Invece la buona notizia è che certamente saranno impiegati nella fase 2 di ripresa e ricostruzione[17]. Da oggi inoltre l’INAIL ha avuto il mandato nell’emergenza di occuparsi del tema salute e sicurezza nei luoghi di lavoro potendo attivarsi una collaborazione INAIL-CNOP con indicazioni procedurali per tutte le Autorità preposte (es. Regioni, Aziende sanitarie), a sottolineare la necessità di affidare questa attività agli Psicologi, di reclutare Psicologi ove non presenti o sufficienti. Tutto ciò indica, come sottolinea ancora il CNOP, “una maggiore presenza degli psicologi nei contesti sociali significativi, nel mondo del lavoro, nei servizi per la salute” (16/03/2020).
Tuttavia, mentre le stesse professioni psicologiche potranno essere attivate in fase 2 anche per il trattamento dei disagi dello spettro traumatico, postumo ad eventi critici meno recenti, la fase 2 dell’emergenza in modo paradossale prevederà non solo ancora lavoro da remoto per gli psicologi, ma anche l’uso di droni e app per controllare gli spostamenti e le connessioni tra persone e cose nella finalità di allertare sui possibili rischi di contagio.
In altri termini la professione psicologica, che per eccellenza è la professione delle relazioni e del benessere intra e interindividuale, interverrà quando la stessa relazione potrà diventare meno ricca di variabili utili per la sintonizzazione e la regolazione emotiva ma anche una minaccia all’interno di possibili connessioni. Il rischio è che la stessa professione psicologica, già in smart working, venga percepita come snaturata o un rischio per la salute piuttosto che come un beneficio.
Una sfida per l’intelligence potrebbe essere quella di raccogliere valutare e far implementare interventi per la promozione di una psicologia di riappropriazione della relazione che consenta la promozione della convivenza con i rischi percepiti.
La necessità è un male – come diceva Epicuro – ma non c’è nessuna necessità di vivere nella necessità.
Il mondo travolto da dirompenti e crescenti pandemie ci sprofonda di nuovo in una necessità che pensavamo di aver sconfitto con il mercato capitalistico e i suoi meccanismi di regolazione. Il virus è il nostro nemico, sia esso fisico o informatico.
Però, paradossalmente, il virus può diventare anche la dolorosa e drammatica cura.
Siamo ancora di fronte a noi stessi. E quando si è di fronte alla propria vita, alla propria sopravvivenza, di fronte ad un nuovo salto, non più atomico ma biologico, si destrutturano le forme di sicurezza in cui viviamo, c’è una vera e propria destrutturazione dello spazio e del tempo. È ciò che è avvenuto.
Ora sappiamo ciò che è socialmente rilevante.
Sofski sosteneva che “ciò che è socialmente rilevante non è fissato da contratti o da accordi, ma da presupposti cognitivi”[18]; da nuovi vocabolari performativi, cioè di quei termini che generano la realtà che nominano.
Noi siamo di fronte a un cambiamento d’epoca, ad una mutazione già avvenuta, mentre “I meccanismi politici della sicurezza sono stati concepiti per combattere il disordine, per regolare il mutamento, per imporre geometrie euclidee al posto delle dinamiche organiche”.
In questa incertezza, siamo circondati da parole che rimbalzano di bocca in bocca e che si ripercuotono di cervello in cervello.
Uno di questi termini è stata, secondo Bauman[19], certamente violenza.
Sicurezza è un altro.
Intelligence, che non lo era, lo è diventato.
ooo/ooo
[2]https://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/?fbclid=IwAR1TjC1Z2mejD-zMJxpTyJlVhbcMwbaeLyO_QcZe8kgJO_RzxrPQssX8Aqc
[3] https://www.forbes.com/sites/iese/2020/04/14/six-takeaways-for-policymakers-from-italys-response-to-covid-19/#4d5b766843b8
[4] https://www.psy.it/il-contributo-degli-psicologi-alla-task-force-governativa-per-la-ripartenza.html
[5] ANGEL Luis Lara, su “El Diario” tradotto da SULLO Pierluigi ne “Il Manifesto”, del 11 aprile 2020
[6] KHANNA Parag, Connectography, Fazi Editore, Roma 2016
[7] CALVI M., CECI A., CECI E., Stateless, piattaforme continentali di nazionalità, nuovi scenari globali della geopolitica, Ibiskos, Empoli 2016
[8] CECI Alessandro, Intelligence e democrazia, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006
[9] CECI A., cit. 2006
[10] KHANNA P., cit. 2016
[11] ILLICH Ivan, La convivialità, Mondadori, Milano 1973
[12] BAUMAN Zygmund, Modernità liquida, Laterza, Bari 2017
[13] BAUMAN Z., cit. 2017
[14] DAHRENDORF Ralph, Pensare e fare politica, Laterza, Bari 1986
[15] FROMM Enrich, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1977
[16] VACCARO Antonino, professore ordinario alla IESE Business School e direttore accademico del Center for Business in Society, e Mario Caligiuri, professore ordinario all'Università della Calabria in un articolo su Forbes, 14 Aprile 2020
[17] Di qualche giorno fa è la nomina governativa della dott.ssa Elisabetta Camussi, psicologa sociale, per entrare a far parte della Task Force che si occuperà della fase 2.
[18] pag.50
[19] BAUMAN Zygmunt, La violenza nell'età dell'incertezza, in Mondoperaio, marzo-aprile 2003, n.2, Nuova Serie Anno 8.

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