INTELLIGENCE: L'ONTOGENESI DI MATURANA E VARELA


Per chi tenta di affrontare le questioni della sicurezza e dell’intelligence con il cipiglio e la pervicacia della scienza, della scienza politica, Londra, più che Madrid e, forse, più che New York, ha avuto il sapore di una prova.
Mi riferisco agli attentati terroristici, naturalmente.
Londra più che Madrid e, certamente, più che New York, ha dimostrato l’ontogenesi delle società aperte. 

Marturana e Varela hanno definito l’ontogenesi di un sistema (unità) come la storia dei suoi cambiamenti di struttura che non determino trasformazioni della sua natura, una situazione che non cambi la connotazione, un mutamento che non sia una mutazione. 
Per quanti significati in ordine sparso ci raggiungono sempre dopo una esplosione, il più preponderante è l’immediato rifiuto, fu allora proclamato da Tony Blair prima e subito dopo dalla Regina Elisabetta. Nell’immaginario collettivo quell’attentato minacciava una trasformazione della way of life della democrazia inglese: certo nessuna trasformazione delle istituzioni politiche; ma nemmeno una restrizione degli istituti sociali e delle consuetudinarie regolarità su cui fonda la civiltà extragiuridica di una società aperta. 
Dentro lo squarcio di socialità che ogni esplosione porta con sé, i leader della più antica democrazia del mondo non nascosero lo shock. Di fronte alla fisicità della morte collettiva la preoccupazione del cittadino occidentale trasborda. Ma, oltre l’inequivocabile e triste superficialità dell’intelligence, loro, allora, riaffermarono l’ontogenesi della democrazia inglese, la storia di quei cambiamenti occasionali (come durante la seconda guerra mondiale) indispensabili per affermare il permanente valore della democrazia. 
Ci sono dei mutamenti che non necessariamente determinano una mutazione. 


Uno di questi mutamenti deve avvenire nell’intelligence.
Con una leggera forzatura linguistica lo definirei un mutamento ontogenetico, un cambiamento di situazione indispensabile per rafforzarne la connotazione nelle democrazie moderne. 
Londra docet.
Sia chiaro: non intendo sostenere il banale argomento della inconsistenza degli apparati di Sicurezza Occidentali. Dopo il 1989 il mondo è cambiato e la riconversione delle menti è molto più difficile di quella dei confini. Tanto meno intendo avanzare questo argomento per l’Italia, oggi che siamo passati, con un duro lavoro di legittimazione, da gruppi di insicurezza funzionali a strutture istituzionali di sicurezza. Non partecipo alla letteratura della catastrofe, cosciente del fatto che il clamore si addensa sulle evidenti sconfitte piuttosto che sulle vittorie occulte. È così per tutti quelli che lavorano. La fatica del quotidiano resta occulta. Appare soltanto, talvolta, l’eccezionale successo e l’irriverente sconfitta. I fattori che determinano l’una o l’altra sono davvero minimi. Tuttavia non sono imperscrutabili. E noi non possiamo esimerci, anche per rigore scientifico, dallo scrutarli. 
Un lavoro che avremmo dovuto fare a Londra più che altrove; non fosse altro perché, dopo 4 anni di conflitto globale asimmetrico, una certa esperienza dovevamo essercela fatta. Avremmo dovuto sapere che quello del G8 era un incrocio spazio – temporale tatticamente e strategicamente rilevante. Se la soluzione è stata quella di abbassare il livello di allerta, o siamo stati folli o siamo stati superficiali. In questo caso allora l’intelligence, che per definizione non dovrebbe essere folle, è stato quanto meno superficiale. E la superficialità è proprio un lusso che non possiamo permetterci. 

Da che cosa è derivata quella distrazione?

Dalla particolare tipologia dell’intelligence anglosassone, costruito su un sistema di informazione diffusa, piuttosto che, come l’intelligence mediterraneo (di cui quello italiano è emblematico), su una rete di relazioni comunicative. 
L’intelligence anglosassone non ha ancora compiuto il passaggio dalla informazione alla comunicazione che invece, forse senza saperlo, hanno istintivamente compiuto i servizi di sicurezza italiani e israeliani. Non entrerò nel dettaglio di questa transizione, laddove è avvenuta e laddove è storicamente assente, per non perdere di vista l’argomento centrale, per me, della trasformazione dell’intelligence. 

La differenza tra informazione e comunicazione è ormai nota e consiste nel passaggio dal fatto all’atto, dall’azione alla relazione. 
La televisione, i giornali, compiono una azione informativa unidirezionale. 
La comunicazione in internet o quella telefonica non inizia se qualcun altro non alza la cornetta. 
La differenza, come si sa, è nel feedback, di cui l’informazione non necessita e da cui, invece, la comunicazione non può prescindere. 
La notizia è l’essenza della informazione. 
Il feedback, cioè la biunivocità relazionale, è l’essenza della comunicazione. 

Senza farla troppo lunga, dai Greci in poi, noi sappiamo che la conoscenza non sta nella accumulazione dei dati, ma nello scambio relazionale. Sappiamo di più se parliamo, non se studiamo. Più di tutto naturalmente se studiamo e poi parliamo. Ma, dovendo necessariamente scegliere, è meglio un contatto significativo che una sofisticata banca dati. Era vero per Socrate, che era il più sapiente proprio perché il non sapere lo induceva a parlare, figurarsi per noi che abbiamo fatto della comunicazione il fatto sociale totale delle nostre società complesse. 
La comunicazione pretende la percezione dell’altro, non solo la tolleranza. 


Se l’intelligence non si pone la complessiva esigenza di una transizione dalla informazione alla comunicazione, come metodologia prevalente (non assoluta naturalmente), noi saremo condannati ad analizzare gli attentati piuttosto che a prevenirli, a sapere senza capire. 
Lo hanno già fatto gli israeliani, che infatti sviluppano molta più psicologia che tecnologia; lo stanno facendo gli italiani che, per sensibilità culturale, capiscono molto più di quello che sanno. È necessario che lo facciano tutti, che tutti consumino il definitivo passaggio dall’intelligence della informazione a quello della comunicazione. Infatti, mentre nell’intelligence dell’informazione le irregolarità delle notizie occultano il fenomeno, nell’intelligence della comunicazione l’irregolarità relazione viene percepita automaticamente come alterazione. 
Ne è un tipico esempio il dibattito post attento. Personalmente trovo allucinante il fatto che pochi si siano concentrati sulla regolarità degli attentati del terrorismo islamista, sulla coerenza simbolica e organizzativa del loro programma: sempre i mezzi di trasporto (forse perché frequentati di più e quindi meglio conosciuti); sempre un sincronismo esplosivo; sempre un gruppo (piuttosto che il singolo come invece avveniva in Iraq); sempre potenziale esplosivo sotto soglia per non essere visibile in fase di preparazione; sempre nel momento di massima affluenza; sempre uno shock da panico urbano che trasforma la città in una miriade di palline impazzite (forse per fuggire meglio); sempre obiettivi sociali e mai militari o politici; sempre un lungo periodo di incubazione; sempre l’attesa che un funzionario zelante abbassi il livello di allerta per propagandare sicurezza. Da anni sempre lo stesso comportamento comunicazione. Eppure, ogni volta, siamo disorientati da commentatori puntuali che ci spiegano l’ultima micro evoluzione dei terroristi internazionali, con nomi sorti dal nulla che certamente non corrispondono a personaggi reali, che forse ignorano gli stessi attentatori. Fino a dire che il nemico contro cui abbiamo combattuto strenuamente in questi anni paurosi, l’incubo dell’aria condizionata delle nostre notti, la nebulosa islamica, forse non è mai esistito. Si tratta degli stessi analisti che hanno disquisito e disputato, con dovizia di informazioni documentate, sulla data di genesi del movimento guidato dal Califfo virtuale, se la riunione di organizzazione fondamentale fatidica fosse avvenuta nel febbraio o nel giugno del 1998. 

Tante informazione senza comunicazione. 

Tante micro notizie che non aiutano a capire il macro problema.

Sennonché i fenomeni sociali significativi, quelli visibili e incisivi, nel bene o nel male, sono fatti di frequenze, di ricorrenze, di regolarità, non di eccezioni. 
Il comportamento comunicazione di ogni soggetto, organizzazione o individuo che sia, è fatto di una miriade di cose permanenti e di rarissime eccezioni. Questo lo sa perfettamente chi è abituato ad analizzare i pattern comportamentali, chi si preoccupa della relazione comunicativa, piuttosto che della azione informativa ormai definitivamente preda di surplus e virus. 
Una relazione si costruisce sulle ricorrenze, sui tempi di movimento, sulla toponomastica connettiva, sui modi di dire incontrollati, sul modo di mangiare, di vestire, di ritirare il resto alle biglietterie: su una sensibilità percettiva, cioè, che solo la conoscenza dell’altro e non la semplice tolleranza, può dare. 


Soltanto l’intelligence della comunicazione, cioè un network di relazioni comunicative, può darci la conoscenza, cioè la professionalità necessaria per prevenire, oltre che curare la regolare evoluzione delle organizzazioni del terrore da codice di presentazione (New York) a codice di influenza (Madrid) al codice di partecipazione (Londra). 
Per l’intelligence della comunicazione, individuare il trend evolutivo della organizzazione terroristica permanente è determinante perché quella evoluzione indica la relazione dominante (quella cioè che determina il dominio su cui investigare). 
La relazione risulta evidente incrociando i connotati ricorrenti delle esplosioni note: quale delle nazioni ancora salve del programma terroristico ha una nervatura cognitiva sociale che un terrorista conosce per frequentazione ricorrente, indistinta e di massa (quindi non necessariamente di trasporto) tale che un attentato può dimostrare l’affermazione di un codice di dominio? E come realizzare una relazione comunicativa con gli islamici per fare in modo che l’intelligence percepisca la fibrillazione pre attentato che necessariamente deve riversarsi, dagli estremi verso in centro a ritmo decrescente? Come percepire una alterazione relazionale? 
Naturalmente queste sono le tecniche di intelligence della comunicazione che, penso, già si utilizzano. Ma è un approccio metodologico su cui bisogna insistere per realizzare la indispensabile sicurezza della complessità per le moderne democrazie. 
Questa è una delle lezioni che lo studio dell’attentato di Londra ci ha lasciato.

A fianco all’altra lezione, più definitiva e più determinante. 
Le società aperte, per sopravvivere, devono mantenere una forte ontogenesi: devono essere in grado di cambiare strutture senza cambiare natura. La minaccia permanente alla democrazia rischia di farci chiudere, con legislazioni speciali, le nostre società. 
L’unica soluzione che vedo, in grado di reggere in equilibrio sicurezza e apertura dei nostri habitat, è l’intelligence della comunicazione a servizio e a garanzia, finalmente, non più del potere, ma della democrazia.

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