INTELLIGENCE: LA LEBENSWELT DI EDMUND HUSSERL



Dopo tanti anni, studiando il totalitarismo come nuova realtà politica del novecento, Hannah Arendt, ci ha informato che l’epoca della forma e delle organizzazioni era definitivamente conclusa. L’affermazione è: “ la politica nasce nell’infra e si afferma come relazione[1]

La forma e l’organizzazione 

In realtà, lo scontro tra la forma e l’azione è di antica provenienza e quasi un dominus nella filosofia politica. 

Ha cominciato Cristo, se mai è esistito, o chi per Lui, proponendo una società senza forme, senza istituti e senza istituzioni, costruita interamente sulla relazione tra se stessi e gli altri in cui possiamo, dobbiamo, riconoscerci. La società cristiana è una società interamente relazionale, governata dall’accoglienza di se stessi tramite gli altri e degli altri tramite se stessi, attraverso una generale e generalizzata relazione d’amore. 
Direi che questa è una connotazione tipica delle religioni di matrice araba. Nemmeno i monoteismi sono tutti uguali. Le religioni di provenienza araba, nella loro matrice primigenia, tendono a destrutturare le forme organizzate. Il cattolicesimo invece ha acquisito una concezione politica occidentale costruita quasi interamente sulla forma e sul principio di rappresentanza. Il Papa è appunto il rappresentate di Dio in terra. Sono organizzazioni verticali, fatte di ruoli, funzioni e prestazioni indispensabili al contenimento del potere. La leadership cattolica è il prodotto della organizzazione e della rappresentanza politica. La leadership cristiana era il prodotto della relazione e della partecipazione sociale. Il cristianesimo si riconosceva nell’altro, che è il volto di se stessi. La leadership islamica è, invece, il prodotto dell’azione e della rappresentazione. Ogni islamico pensa: “io sono Maometto e la Sunna è la mia guida”. Ogni azione islamica deve rappresentare (nel senso di mostrare e dimostrare) questo assioma: vietato giocare; vietato mangiare diversamente da come era solito fare il profeta; vietato tutto ciò che è vietato dalla Sunna; la lunghezza della barba è calcolata con i centimetri di lunghezza del profeta; i vestiti sono gli stessi del profeta; dello stesso colore; perfino la dizione è una imitazione della dizione tradizionale. Soltanto azione e rappresentazione. Il cattolicesimo, al contrario, è organizzazione e rappresentanza. Cristianesimo, però, se fosse stato ciò che avrebbe dovuto essere (e non è stato), sarebbe stato interamente ed esclusivamente relazione e partecipazione. Pertanto, il cristianesimo e l’islamismo hanno dovuto dotarsi di leadership situazionali legittimate da principi morali (l’islamismo) o etici (il cristianesimo). Il cattolicesimo, essendosi a suo modo occidentalizzato, ha realizzato leadership funzionali di strutture gerarchiche legittimate dalla appartenenza (il battesimo) e dalla identificazione. 
Come vedremo: in quanto l’islam è azione, è informazione e notizia; in quanto il cristianesimo è relazione, è comunicazione e cognizione; in quanto il cattolicesimo è organizzazione è narrazione e concettualizzazione. 

Per tanti anni questo scontro è stato vinto, direi dominato, dalle organizzazione e dalla loro forma istituzionale. Il logos politikos è passato interamente dentro le forme per circa 6000 anni. Tutta la cultura egiziana è una cultura delle forme, le forme verticali e piramidali. I due assiomi fondamentali erano: 
  • · la esaltazione osannata del Faraone, Dio e uomo, ma non dio fatto uomo. Il Faraone è Dio e uomo al tempo stesso, proprietario dei sudditi e di ogni altra cosa. Una concezione che, per me, come ho scritto in un altro libro del 2011[2], è il presupposto di tutti e 3 i monoteismi noti; 
  • · l’altro assioma politico degli egiziani era quello relativo alla cultura dei morti, l’idea ossessiva, cioè, che bisognasse seppellire i propri genitori e se stessi nel luogo in cui si era nati. Una ossessione a cui dedicare l’intera vita e che probabilmente è il fondamento culturale delle polis greche. 


Le polis greche poi sono l’esaltazione della forma e della organizzazione politica. Nascono sulla base di leggi di fondazione, leggi che stabiliscono i connotati delle varie città secondo 3 principali categorie: il governo di uno, la Monarchia; il governo di pochi, l’Aristocrazia; il governo di molti, dei molti demos in cui era divisa Atene, la Democrazia. 

Improvvisamente e forse per vendetta, Platone dimentica una delle 3 forme politiche con cui si organizzavano le polis, quella democratica, e trasforma così il logos tripolitikos in logos duopolitikos: la Repubblica e la Monarchia. Sarà Seneca poi a dimenticare opportunamente la repubblica, a farci passare al logos monopolitikos, soltanto la Monarchia. Da allora il problema politico è diventato quello della legittimazione del potere: se cioè la legittima attribuzione al comando fosse una concessione di potere da parte del popolo o da parte di Dio. Successivamente Machiavelli ripristinerà la forma del logos duopolitikos, principato e repubblica; finchè Bodin e Hobbes torneranno al logos tripolitikos della Monarchia, della Aristocrazia e della Repubblica, sebbene restasse il problema centrale della legittimazione del potere, da parte di Dio (per Bodin), da parte del popolo con il contratto sociale (per Hobbes). 
Sempre organizzazione, sempre forma. Un percorso che si conclude in qualche modo con il maggior interprete contemporaneo del pensiero liberale, Hans Kelsen che appunto afferma che la democrazia è la forma[3]

L’azione e la relazione 

Dopo tanti anni, una donna, una grande filosofa moderna, ripristina nel pensiero occidentale, nonostante il suo ebraismo ateo, il messaggio di Cristo, nel bene e nel male: prima dei network, ci dice che i network sono il prodotto delle connessioni e che la loro morfologia è variabile, in funzione della interazione e della integrazione delle sue componenti. È nell’infra, in cui gli umani agiscono, che si costruiscono queste relazioni sociali e politiche. 




Inizia l’epoca dell’azione e della relazione. 

La relazione, come voleva Georg Simmel, è il fondamento sociale dei network. Tanto è vero che la protesta moderna è “l’anima della forza desituante dell’atopia[4]. Si intende per condizione atopica quello stato che “deriva dal non riconoscersi o dal non sentirsi riconosciuto come appartenente e adatto a un luogo circoscritto e definito[5]. Si tratta di una vera e propria protesta politica, quella dei ritirati sociali, degli hikikomori, dei NEET. Sono individui rimasti da soli che scivolano nel vuoto dell’assenza di relazione, nel silenzio e nella estraneazione della liminalità. Non è una classe, non è un gruppo, non è un ceto, né una associazione sindacale o religiosa. Sono persone abbandonate perché malate o emarginate, escluse dai ritmi della quotidianità e sole. Debolezze che desiderano una cura spesso soltanto per sentirsi in contatto, per sperare di essere riconosciuti. 
È quanto stiamo vivendo oggi; trasformati tutti in Hikikomori, rinchiusi in casa in quest’epoca di pandemia. Proprio ora noi dovremmo evitare che, a causa della informazione specializzata, a causa dell’annullamento della comunicazione relazionale e della estraneazione in setting sociale collettivo, dovremmo evitare il mutismo del malato patoligizzato, uomini che scivolano nel vuoto della solitudine e della alienazione perché, sapendosi malati, sentendosi privati del bene prioritario della salute, sono insicuri. Hanno paura. Paura di morire. 



Riporto sempre, quando parlo della fondamentale centralità della relazione nella società contemporanea un racconto di Vaclav Havel[6], il quale si chiede, andando al mercato, come mai appariva scritto sul banco delle mele lo dlogan enfatico: “il comunismo è bello”. Credo che il suo interrogativo spieghi benissimo cosa avviene, non solo nella politica, ma nella società mediatica in cui viviamo. Il totalitarismo comunista, con quello slogan ci forniva una informazione inequivocabile e, principalmente, indubitabile. 

L’informazione è una news senza relazione.

La comunicazione è una relazione che seleziona news.

Il rischio e la minaccia di nuovi strumenti di oppressione, più sofisticati e meno evidenti, penetranti, direi, pervasivi è proprio nella distinzione tra informazione e comunicazione. È la stessa differenza che c’è tra un fatto e un atto giuridico. Un fatto giuridico avviene indipendentemente dalla manifestazione di volontà, avviene da solo e produce effetti giuridici. La comunicazione non esiste senza una volontà di comunicare. La televisione, ad esempio, emette continue informazioni in cui chi parla può o non può essere ascoltato, l’azione resta. Il telefono no, se non c’è la relazione l’azione non parte nemmeno. Il cinema è informazione. Il teatro è comunicazione. Paul Watzlawick sbagliava. La volontà di non comunicare non è ugualmente una comunicazione. È una informazione. E questa differenza fa tutta la differenza. 
Nella realtà contemporanea, in primo luogo, sia l’informazione che la comunicazione superano la dimensione politica, sono esorbitanti, travolgono la società intera. Addirittura la società si forma dentro la sindrome di Shannon, l’ingegnere che ha inventato il mitico bit. È una sindrome da surplus di informazioni che soffocano la comunicazione. 
In secondo luogo, l’informazione, quest’azione senza relazione, diventa facilmente un atto totalitario, un potere esercitato che non permette critica, che genera doxa ma non epistemè, notizie senza conoscenza e quindi omologazione e affidamento da parte dell’utente. 
In terzo luogo, la comunicazione, questa relazione che non si afferma se non agisce, produce una vacua e insignificante delegittimazione dei ruoli e delle funzioni, un potere critico invalidante che disorienta perché non sa selezionare notizie, una enormità ideologica che non ammette né accetta falsificazioni. 
Naturalmente, ora che abbiamo acquisito la logica quantistica, sappiamo che sono assolutamente fondamentali i dosaggi: quante informazioni (azioni) ci sono nella comunicazione e quanta comunicazione (relazione) c’è nelle informazioni che si trasmettono e si compongono per generare una nuova forma sociale (organizzazione). 

La relazione d’intelligence 

Questo dosaggio, in epoca di logica quantistica, riguarda principalmente il rapporto tra potere e potenza, riguarda l’intelligence. 

All’intelligence si chiede di considerare la relazione come un elemento fondamentale del potere e della potenza, del governo e della governance, e quindi di concentrarsi sulle integrazioni, sulla relazione politica e sociale. 

All’intelligence si chiede di risolvere il problema scientifico della relazione fondendo diversi orizzonti conoscitivi. Si chiede di integrare diverse ma utili competenze: come le scienze matematiche e fisiche, per le statistiche, ad esempio; le scienze biologiche per le analisi; quelle umane per la significazione delle esperienze; quelle sociali per la organizzazione e l’assistenza del servizio. 

Se l’intelligence invece agisce sulla base della forma, convinti di rispettare il proprio ruolo, di tutelare la loro professionalità e di proteggere la loro competenza, se l’intelligence non agisce dentro la relazione con l’altro, diventa inefficiente e inefficace nella società contemporanea. 


In molti non si rendono minimamente conto che il rifiuto di comunicare, di gestire la relazione comunicativa è un deficit profondissimo per la stessa loro conoscenza. Ormai viviamo, come ho già detto altre volte, nella società del passaggio dal Know-how al Know-out. La conoscenza non è più in noi, è nel dominio relazionale in cui siamo immersi, nel campo cognitivo che ci supera e ci assorbe. Anche le nostre capabilities tecniche o specialistiche, addirittura il cervello, è ormai fuori dal corpo, dalla sua stessa fisicità, in un network che è al tempo stesso relazionale e cognitivo; che è cognitivo proprio perché è relazionale. In quel network c’è tutta la nostra intelligenza che, come voleva Piaget, organizza il mondo organizzando se stessa[7]. La fusione di orizzonti, come diceva Gadamer[8], cambia notevolmente i percorsi della conoscenza nella società. Ci estendiamo sempre di più dentro concetti metodologici di pluri-problematicità e di multidisciplinarietà. Infatti sempre più ci si avvicina a forme nuove di studio, come la possibilità di iscriversi contemporaneamente a corsi di laurea omogenei tematicamente. Non più imprigionati dentro una cornice di un paradigma incommensurabile kuhniana. Sempre più oggi possiamo integrare i nostri domini relazionali, gli insiemi dei nostri reciproci saperi, connetterci dentro intervalli cognitivi di ordine e dimensione quantistica, che rappresentano habitat di conoscenza più ampi: orizzonti di cognizione e competenza fusi. L’epistemologia moderna c’insegna che un problema scientifico può essere risolto soltanto fondendo diversi orizzonti di conoscenza, per restare sempre in simbiosi con la vita, per realizzare una vera e propria lebenswelt: la scienza della vita. 
Questo punto è epistemologicamente centrale nell’interessante transizione del mondo di oggi. Viviamo la quarta dimensione della logica quantistica. La scienza precedente alla nostra, quella che derivava dalla logica computazionale, reclamava una epistemologia del know-how, fatta di saperi individuali specializzati. Naturalmente non intendo dire che le competenze specialistiche non servono più. Le logiche non si escludono. Le dimensioni logiche si assemblano. In un mondo integrato, in cui la conoscenza è data dalla morfologia delle connessioni, in cui la pedagogia, la scienza dell’educazione, la didattica e perfino la docimologia è rappresentata da un mappa connettografica[9] di ordine cognitivo, l’epistemologia diventa simbiotica della intera complessità della vita. Lebenswelt. L’epistemologia sta sulla vita, dentro la vita, nella vita e con la vita a ri-orientare il posizionamento individuale dell’umano in funzione della sua condizione esistenziale. La relazione comunicativa insegna perché è epistemologicamente simbiotica con le esigenze di vita. 

Lebenswelt, dunque: la scienza della via. 


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[1] ARENDT Hannah, Che cos’è la politica, Einaudi, Torino 2006 
[2] CECI Alessandro, Cosmogonie del potere, Ibisco, Empoli 2011 
[3] Vedi: LOSANO Mario, Forma e realtà in Kelsen, Comunità, Milano 1981. 
[4] Rella F., cit. 1987 
[5] CARROZZINI Giovanni, Sulla nozione di atopia a partire da Socrate. Ripensare l’ambiente-mondo, in LA DELEUZIANA – ONLINE JOURNAL OF PHILOSOPHY – ISSN 2421-3098 
[6] HAVEL Vaclav, Il potere dei senza potere, Castelvecchi, Milano 2013 
[7] PIAGET Jean, Epistemologia genetica, Laterza, Bari 1970 
[8] GADAMER Han Georg, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2001 
[9] KHANNA Parag, Connectography, Fazi Editore, Milano 2016

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