INTELLIGENCE: IL PREMIO DI HANNAH ARENDT


Ormai quattordici anni fa raccontai[1] questa storia immaginaria. 
Nel 1975 Hannah girava per il mondo esausta ma non stanca. Allora era già una dei pochissimi pensatori che “reggano la prova del 1989, e dall’urto con il muro che crolla escano anzi rafforzati”[2]
Era primavera. A Copenaghen la primavera ha un sapore di rilassatezza, dopo la rigida tenuta dei rigori invernali. Non è la primavera mediterranea piena di energia, preparatoria dei fasti estivi. È la primavera di chi sa che il sole ha breve durata e che conviene cedere al riposo e al ripensamento, “alle maschere, o i ruoli, che il mondo ci assegna e che dobbiamo accettare e addirittura assumere se vogliamo in qualche modo prendere parte al gioco del mondo”[3]
Copenaghen le doveva sembrare una città accogliente e coraggiosa se, per la prima volta, il governo danese concedeva ad una donna, che per giunta era diventata una cittadina americana, il prestigioso premio Sonning attribuitole per l’opera d’ingenio offerta allo sviluppo della civiltà europea. 
In quel momento, in quella inusuale città, a quella età, dopo una vita di asprezze teoriche, politiche, letterarie, dentro amori travagliati e travolgenti, a lei spettavano improvvisamente trentacinquemila dollari e una prestigiosa onorificenza. In quel momento sentiva nell’aria la presenza di chi l’aveva preceduta, in vari campi; da Churchill a Niels Bohr, da Albert Schweitzer a Laurence Oliver; il più illustre fu, senza alcun dubbio, Bertrand Russell. 
“Altre maschere – pensava Hannah scendendo dall’aereo, prima di raggiungere l’albergo, oltre le rifrangenze di luce e di vita quotidiana che rimbalzavano sul vetro – intercambiabili e inalienabili”[4]. E decise di parlare sostanzialmente a braccio, per scontare la colpa di aver ceduto alla tentazione del premio, di aver peccato per sentirsi partecipe e partecipata, ammessa la prima volta forse alla fine della sua vita, immessa per forza nella “società delle celebrità” sorta come l’araba fenice dalle ceneri di morte e distruzione della vecchia Europa e del suo emblematico Olocausto. 
Lei aveva vissuto una vita negli interstizi della politica, della scienza, della filosofia e della poesia; il tempo passato a cercare l’isolamento del pensiero quand’era in pubblico e il pubblico quando pensava in silenzio all’azione. Eventi ed eventualità della vita che trascorrono fuori e dentro ogni persona. E fino a che noi potremo coprirci con queste maschere saremo in condizione di agire, di concludere ogni esperienza e anche questa premiazione, di usare e di abusare dei nostri “diritti individuali”. Per poi ritornare “di colpo come prima”, sola e libera “di cambiare ruolo e maschera a seconda di quanto mi verrà offerto di volta in volta dal grande gioco del mondo”[5]
Quando uscì dall’auto e salì le scale d’ingresso, Hannah si accorse che questo gioco era ormai diventato corto e difficoltoso per un corpo affaticato dall’età e dalle sigarette dannate. Fu accolta con cortesia nella pomposa sala dell’Hotel e le parve strano che quella sua presenza, quel suo “nudo questo”, fosse ancora identificabile senza mai poter essere davvero definibile. Soltanto in camera, dietro la porta chiusa si ritrovò dentro il suo interstizio di solitudine. Allora capì definitivamente e fino in fondo che l’impossibilità di definire l’umano, ogni singolo e singolare umano, era la nostra vera e unica salvezza. “Loro non vedranno il mio corpo nudo immerso nell’acqua. Mi vedranno parlare, in piedi, da un palco, coperta dalla maschera dell’occorrenza, e vedranno ciò che io non sono”. Distese il corpo. Afferrò per il lembo un foglio disperso sul seggiolino del bagno e, con una matita di fortuna scrisse: “identificabile, io spero, ma non definibile, e non soggetto alla grande tentazione del riconoscimento come questo o quello, cioè come qualcosa che noi, fondamentalmente non siamo”[6]
Uscì dal bagno. 
Ci pensò bene. 
“Dirò così”, disse. E si addormentò.

Elegante e austera Hannah Arendt fu chiamata a tenere il suo discorso per la cerimonia di premiazione. Indossava l’abito nuovo che la sua amica e accompagnatrice Mary McCarthy aveva tanto insistito che comprasse. In platea aveva riconosciuto qualche parente venuto direttamente da Berlino, ansioso e fiero di una fama riflessa. Vedendo la prima fila di personaggi e parenti sentì che il padre sarebbe stato orgoglioso degli allori della sua unica figlia. 
A sessantanove anni, prima di parlare, mentre con calma raggiungeva il palco per l’orazione, Hannah Arendt fu presa, una delle rare volte nella sua vita di parole e concetti, dall’inconfondibile grumo di commozione alla gola. I fogli si sparsero sul leggio. La sua voce sembrò tremare. Quel nervosismo era uno scherzo dell’età, contro di lei, abituata alla durezza del confronto in platee focose e agguerrite. Quella volta, per la prima volta, Hannah era di fronte a se stessa, premiata per ciò che era stata, per essere stata rifiutata. Era il 18 aprile del 1975 e lei era lì perché aveva pensato, perché aveva sofferto, perché aveva scritto, perché non aveva mai cercato alibi da tedesca, da francese, da europea, da americana, da apolide, da donna, da ebrea. E disse: “sono un individuo ebreo femini generis, come vedete, nata e educata in Germania, come potrete riscontrare, e sono stata in parte formata da otto lunghi anni abbastanza felici passati in Francia”[7]. Raccontò dei suoi maestri e ricordò i suoi amori. Ostentò la sua autonomia e proclamò di non aver “mai cercato appartenenza”[8]. Abbassò gli occhi sulle sue mani. In genere sono le mani il primo sintomo dell’età per le donne. Le mani rugose e corrucciate dalla fatica e dal dolore, sono una presa di coscienza del tempo irreversibile e inclemente. Si ritrasse dalla platea e confessò la solitudine del pensiero planetario di ogni orfano: “l’origine che, per altri, rinviava ad un paese, forse a un paesaggio, a un insieme di abitudini e di tradizioni e soprattutto a una certa mentalità era rappresentata per me dalla lingua”[9]. Apolide. 
Non aveva uno Stato, non una Nazione; né quella di nascita tedesca, nemmeno quella appositamente costruita in Israele e tantomeno quella americana acquisita; ma la lingua, il veicolo della cultura e del pensiero, lo strumento della comunicazione, la tecnica necessaria a poter vivere politicamente nell’infra e di affermarsi come relazione. La lingua, che si esprime con mille diversi linguaggi verbali o sensitivi, razionali o emozionali, materni o specialistici, la lingua è il paradigma di ogni relazione. La lingua è l’unica possibilità che abbiamo di agire nella società contemporanea, è l’humus della identità nell’universo della comunicazione e nella democrazia che sopravvive all’assenza dello spazio fisico. Perché la lingua serve all’azione per costruirsi uno spazio politico nella quarta modernizzazione della storia dell’umanità. La lingua, cioè l’azione nella società della comunicazione, è il sistema vivente dei moderni che ne garantisce l’identità - di ebrea e tedesca - e l’unità – di cittadino politico del mondo. Alla fine della sua vita, di fronte e dentro il nobile popolo danese che, a differenza di chiunque altro, si era rifiutato di aderire alle richieste di deportazione ebraica dei nazisti e che li aveva “sconfitti proprio da ciò che sopra ogni altra cosa disprezzavano: le parole, semplici parole pronunciate il libertà e pubblicamente”[10], di fronte al suo premio più prestigioso, Hannah Arendt proclamò involontariamente l’essenza della sua modernità, l’ultima parola di chi sa che il passato ci spinge avanti e il futuro ci chiama indietro e si sente permanentemente nel vuoto, nell’assenza di fisicità dell’azione comunicativa insorgente.” 


Secondo John Searle “la razionalità in quanto tale non richiede né ammette giustificazione[11]; non perché‚ "il pensiero e il linguaggio, quindi l’argomentazione, già la presuppongono[12]; ma perché la presuppone l'azione se è vero che il comportamento di chi non argomenta come gli animali è pur sempre logico (anche se non sempre razionale) relativamente al loro stato. 
Se la logica è nei fenomeni e noi la acquisiamo per adattamento, la differenza tra l’uomo e l’animale è l’intelligenza; l’azione animale è logica, quella umana, oltre ad essere logica, è intelligente. 
L’intelligenza umana è il prodotto di 4 dimensioni logiche. Per ora. L’uomo ha la capacità di detrarre significati, può leggere dentro le cose e agire, può cambiare il mondo perché, come sosteneva Piaget, “l’intelligenza organizza il mondo organizzando se stessa[13]. Anzi, meglio, l’uomo può leggere dentro le cose perché agisce e agendo comprende. L’intelligenza si autogenera: è autopoietica. 

Logica e azione: i due volti opposti e complementari dell’intelligence. 
Avremo modo, e in parte abbiamo già avuto, durante questa discussione di definire sempre meglio la logica per un nuovo intelligence, con tutto il suo armamentario di metodi (distinzione tra informazione e comunicazione; il connessionismo per il comportamentismo e/o viceversa; definizione dei metalivelli; processo di differenziazione funzionale dal base line all’accrescimento, dall’alterazione all’insorgenza; individuazione dei livelli di realtà dentro l’orizzonte dell’ambiente, dell’habitat, del contesto, del dominio e dell’intorno; percezione degli eventi minor e major; analisi dell’entropia e sostenibilità sistemica, ecc… ecc…), di tecniche (la decostruzione delle informazioni e la loro ricostruzione sulla base dei relazioni comunicative) e gli strumenti (il COMP: Complex Order Multiphasic Program). 
Metodologia, tecnologia e strumentazione a disposizione dell’epistemologia (intelligence strategico alla scoperta di realtà), dell’analisi (intelligence operativo per la definizioni delle ipotesi) e dell’indagine (investigazione per la falsificazione e, quindi, per la oggettivazione). 
Naturalmente il tutto in sintesi e nell’ambito dello spazio che il testo, utile a fare un punto sulla ricerca svolta, consente. 
Tuttavia, il discorso resta cognitivamente monco, indipendentemente dalle sue ristrettezze, se dimentichiamo the dark side of the intelligence, l'altra faccia dell'intelligence che, appunto, spesso è stata anche la più oscura: l'azione. 



Qualche anno fa, negli interstizi del dibattito scientifico di ordine sociologico e politologico italiano, anche sulla scia della moda che ha accompagnato il successo e la notorietà relativa di Hannah Arendt, è stato affrontato un tema che non è stato ancora sufficientemente traslato dalla teoria alla pratica della politica. 
Si tratta della collocazione che Jurgen Habermas ha proposto del pensiero politologico di Hannah Arendt. Secondo Habermas l’opera di commiato dell’autrice tedesca, Vita Activa[14], sarebbe "l’architesto della teoria dell’agire comunicativo, al quale va attribuito il merito di aver riscattato l’agire politico da una troppo salda connessione con l’agire strumentale[15]. Architesto, cioè il testo archetipico, il primo testo, le origini della teoria dell'agire comunicativo. 
Questa questione non si è dipanata. Sarà colpa del faticoso stile letterario di Habermas; sarà perché‚ la filosofia politica vive nello snobismo della realpolitick; sarà perché‚ effettivamente non è utile comprendere; o infine perché‚ l'intelligenza pesa di responsabilità, come si dice, l'intelligenza obbliga a comportamenti coerenti; in ogni caso l'argomento è rimasto dov'era: negli interstizi del dibattito scientifico. 
Eppure qualcuno di noi (io per intenderci) si aspettava che, dopo il fragore assordante delle Twin Towers, l'11 settembre 2001, questo tema assumesse la rilevanza opportuna e che, specie i grandi esperti di intelligence che non hanno saputo ascoltare l'incubazione terroristica altrettanto fragorosa, facessero un attimo il punto della loro inefficienza. 

In che senso? 

Almeno nel senso che la realpolitick, in merito alla capacità di leggere dentro (inter legere) i fenomeni storici e politici, serve a poco. È molto più utile acquisire i contenuti di un agire politico, che è agire comunicativo, piuttosto che agire strumentale. Hannah Arendt ce lo ha insegnato, Habermas ce lo ha spiegato ed è strano che l'intelligence non si sia occupato e ancora non se ne occupi. 
Eppure, se è vero che “la politica è il fare dell’uomo che più di ogni altro tocca tutti e riguarda tutti[16], l'intelligence, che è parte inscindibile della politica, non può prescindere dall'azione, dalla prassi. Normalmente invece si riconduce l’intelligence ad una dimensione del dire, alla “raccolta di ogni tipo di informazioni notizie, documenti e materiali che interessano non solo la formulazione e l’esecuzione della politica militare, ma anche della politica estera, della politica economica e della politica finanziaria del Paese, nonché la difesa da pericoli esterni di aggressioni contro la sicurezza dello Stato ed il benessere civile, economico e sociale della sua comunità[17]

Al più, dunque, l’azione di intelligence è stata ricondotta alla semplice attività di raccolta di informazioni, in varie tipologie e con varie metodologie. 
D’altra parte oggi, sotto la pressione della cronaca politica, si è sviluppata la tendenza alla generalizzazione della necessità di un’azione intelligence. Si reclama un approccio universale e l’applicazione di pratiche di intelligence ad ogni ambito della vita sociale. C’è la tendenza a parlare di cultura dell’intelligence intesa come “la cultura della conoscenza e di come questa non solo si utilizza ma si crea[18]
L’intelligence, che giustamente “ricade in pieno nell’area della comunicazione istituzionale[19] per facilitare il processo decisionale e per favorire il consenso democratico, finisce per essere la giustificazione di ogni curioso. E, anziché‚ assicurare meglio il progresso economico e la sicurezza, rischia di degenerare le relazioni sociali con l'improvvisazione e la genericità. 
Il troppo storpia e storpia principalmente la democrazia. 
Logica e azione, invece, sono i due aspetti dell’intelligence. 
Riservo ad altra trattazione la discussione sulla logica e sull’azione, singolarmente intesi, in intelligence. Il nostro modello, stabilita sinteticamente la reciproca funzione integrativa, può spartirli per analizzarli, decostruire la metodologia senza subire alcuna privazione. 


prossimo testo: "l'ontogenesi di Maturana e Varela"

ooo/ooo

[1] CECI Alessandro, Intelligence e democrazia, Rubettino, Soveria Mannelli 2006.
[2] FLORES D’ARCAIS P., Hannah Arendt – estetica e libertà – Donzelli Editore, Roma 1995
[3] dattiloscritto del discorso di accettazione del premio Sonning, Congresso, inYOUNG- BRUEHL E., Hannah Arendt 1906 – 1975 – per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990
[4] dattiloscritto del discorso di accettazione del premio Sonning, Congresso, in YOUNG- BRUEHL E., Hannah Arendt 1906 – 1975 – per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990
[5] YOUNG- BRUEHL E., Hannah Arendt 1906 – 1975 – per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990
[6] dattiloscritto del discorso di accettazione del premio Sonning, Congresso, in YOUNG- BRUEHL E., Hannah Arendt 1906 – 1975 – per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990
[7] dattiloscritto del discorso di accettazione del premio Sonning, Congresso, in BOELLA L., Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995
[8] dattiloscritto del discorso di accettazione del premio Sonning, Congresso, in BOELLA L., Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995
[9] dattiloscritto del discorso di accettazione del premio Sonning, Congresso, in BOELLA L., Hannah Arendt , Feltrinelli, Milano 1995
[10] YOUNG- BRUEHL E., Hannah Arendt 1906 – 1975 – per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990
[11] SEARLE R. John, La razionalità dell’azione, Cortina, Milano 2003
[12] SEARLE R. J., cit. 2003
[13] PIAGET Jean, Epistemologia genetica, Laterza, Bari 2000
[14] ARENDT Hannah, Vita Activa, Bompiani, Milano 1989
[15] HABERMASS Jurgen, Teoria dell’agire comunicativo, vol 1 – 2, Il Mulino, Bologna 1997
[16] SARTORI Giovanni, La Politica, logica e metodo in scienze sociali, Sugar, Milano 1980
[17] STEELE R. David, Intelligence, Rubettino, Catanzaro 2002
[18] CALIGIURI Mario, Introduzione, in Steele R. D., Intelligence, Rubettino, Catanzaro 2002
[19] Caligiuri M., cit. , Catanzaro 2002

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