INTELLIGENCE: LA SCOMMESSA DI BRUNO DE FINETTI



Precisamente a 50 anni, nel 1956, nato a Innsbruck, dopo essere andato a studiare al Politecnico di Milano e a lavorare a Roma, a Trieste, a Padova, perfino a Chicago dove aveva re-incontrato Enrico Fermi, Bruno de Finetti aveva ricevuto finalmente, nel 1954, la cattedra di Matematica Finanziaria e Attuariale all’università di Roma. 
A Roma, dopo due anni di regolare insegnamento, il professore aveva l’abitudine di prendere il caffè, ogni mattina, in un bar affezionato sotto casa. La vetrina del bar era sempre occupata da foglietti di carta che tentavano la fortuna e aprivano la speranza. Erano i risultati delle prossime partite di calcio. Erano pronostici. 


Si dice[1] che Bruno de Finetti si avvicinò al proprietario del bar che aspettava i clienti dietro il bancone e chiese il solito caffè. 
Si guardarono. 
Si riconobbero. 
Si conoscevano per l’abituale frequenza al rito mattutino della caffeina. Però non si erano mai parlati.

Bruno de Finetti girò con il cucchiaino il poco zucchero nella tazzina. Alzò lo sguardo e chiese al proprietario cosa fossero tutti quei pronostici. Stupito dal tono della voce improvvisa dell’assorto e assolutamente silenzioso cliente e dall’improvvida domanda, il proprietario, poggiando le braccia sul bancone che lo proteggeva, disse: “Oh, quelle sono probabilità! Lei deve essere la sola persona a Roma che non sa cosa sia una probabilità!”[2]
Bruno de Finetti sorrise. Sorseggiò il caffè. Pagò. Girò le spalle e se ne andò via sorridendo. Egli, sebbene ancora non riconosciuto, era il più grande esperto italiano di matematica applicata; apprezzato relatore, con una relazione sulla Funzione caratteristica di un fenomeno aleatorio, al Congresso Internazionale dei Matematici a Bologna; teorico riconosciuto con il noto “teorema di de Finetti”; autore di sofisticate e preziose pubblicazioni sulla probabilità soggettiva; autore del “Probabilismo, saggio critico sulla teoria delle probabilità e sul valore della scienza”, dove si espone per la prima volta soggettive ipotesi sul calcolo delle probabilità; vincitore del premio Toja per il più originale lavoro sul Calcolo delle Probabilità; era stato il più giovane libero docente dell’università italiana; conferito dall’Accademia dei Lincei il Premio della Compagnia di Assicurazioni di Milano; esperto dell’Istituto Centrale di Statistica di Roma e delle Assicurazioni Generali a Trieste; tra i fondatori dell’istituto DOXA; appena invitato dal matematico Savage negli Stati Uniti d’America, al “Berkeley Second Symposium for Mathematical Statistics and Probability”; presto sarebbe diventato socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei; presidente della Mathesis (Società Italiana di Scienze Fisiche e Matematiche); direttore dell’antico e glorioso Periodico di Matematiche; principale animatore del Club Matematico di Roma; membro dell’Istituto Internazionale di Statistica; Fellow dell’Institute of Mathematical Statistics; socio degli Istituti attuariali francese e svizzero; e che poi, nel 1961, sarà eletto al Fellow della Econometric Society. Insomma Bruno de Finetti “era una delle poche persone al mondo che nel ventesimo secolo sapeva che cos’è la probabilità”[3]. 

Non sorrise, tuttavia, per questo. Sorrise perché aveva avuto soddisfazione. Da sempre gli girava in mente una idea bislacca. Ora aveva finalmente provato la sua ipotesi: cioè che la probabilità, così matematicamente complicata, non era complessa, era piuttosto semplice e che “il metodo scientifico per fare osservazioni e inferenze non era differente dai metodi razionali a disposizione dell’uomo della strada che voglia scaldare opportunamente gli avanzi di lasagne vecchie di due giorni. Non c’è bisogno di nessun abracadabra. E neppure di un camice bianco.”[4]
Il barista ne sapeva, dunque, quanto lui. Questa era la sua ipotesi. Il caffè di quella mattina l’aveva confermato. 


Naturalmente, come tutti sanno, ci sono pronostici e pronostici. Un conto è pronosticare la partita Barcellona/Terracina; altro conto è pronosticare il derby Roma/Lazio. 
Le probabilità, in altri termini, non devono essere soltanto conteggiate. 
In Intelligence (e, direi, in tutte le scienze sociali) le probabilità devono essere ponderate. 
Questo, come ha voluto dimostrare Bruno de Finetti, lo sanno tutti. Anzi, lo fanno tutti, anche se spesso non lo sanno. 
Nella logica delle probabilità, le informazioni pesano, le notizie hanno un loro peso specifico. Nel pronosticare il successo di questa o quella squadra di calcio, la vittoria di questo o quel cavallo, l’attentato terroristico in un periodo definito e in un determinato luogo, ponderare le informazioni, per l’intelligence, è essenziale. 
La logica delle probabilità è fatta, oltre che di numeri, anche (se non principalmente) di pesi. 
Addirittura, in Intelligence (e direi in tutte le scienze sociali) prima di saper calcolare, bisogna saper ponderare. 
Per ben ponderare dobbiamo inizialmente distinguere i dati dai valori. 

I dati vengono rilevati da indagini statistiche, ricoverati e relativamente protetti in banche di nuovo tipo, fatte soltanto da tecnologie e reti, in cui si può navigare. Un oceano enorme di dati in cui rischiamo di affogare. Per navigare in questo mare ci siamo forniti di meta informazioni come transatlantici (metodologie, classificazioni, definizioni) clusterizzati per problemi, come se fosse una crociera tematica che approda soltanto in alcuni porti. È la crociera stessa che mette in connessioni i porti, come è l’interrogazione alla rete neurale che clusterizza i dati. Bisogna saper tracciare bene la rotta,come bisogna saper definire bene il problema. 
Alla fine, sono stati generati una serie di sistemi di informazioni, come se fossero una flotta di navi con varie caratteristiche. I file di microdati sono piccoli e veloci motoscafi. Si tratta di collezioni di dati elementari relativi ad indagini definite su specifiche problematiche. Sono chiatte marine da trasporto o/e portaerei le tavole di dati, cioè collezioni di dati assemblabili e replicabili continuamente nel tempo e finalizzate alla descrizione di trend e alla comparazione integrata. Sono cacciatorpediniere le pubblicazioni, non più solo cartacee, ma ormai più spesso elettroniche e interattive, tematiche, più o meno scientifiche, che rappresentano in genere la sintesi di risultati di ricerca e la loro elaborazione. Sono raffigurabili ai sottomarini tutta una lunga serie di dati di secondo livello, nascosti da altri dati, più sofisticati e impegnativi, composti in raccolta di grafici, mappe cartografiche e di altri forme di visualizzazione dei dati statistici, o strumenti interpretativi come i modelli di micro simulazione degli effetti sociali che potrebbero rappresentare quei dati statistici. Possiamo definire, per analogia, i dati come la sintattica della informazione. 


I valori sono invece la semantica, cioè i significati che possiamo detrarre dai dati con l’intelligenza dell’analista. I valori connotano le informazioni, ne descrivono l’efficacia e l’efficienza, la loro rilevanza e la loro frequenza, la loro validità, le qualità etiche ed estetiche, le qualificazioni logiche e cognitive, l’entità di uno scambio relazionale o comunicativo, l’utilità di un dato o di una notizia, insomma la qualità della informazione. Il termine qualità, significa che nei valori vengono considerati anche gli ideali che ci orientano, i bisogni che ci inducono, i princìpi che ci conducono come individui e come soggetti sociali, i criteri con cui prendiamo decisioni e quelli che ci provengono dal nostro habitat o, come avrebbe detto Jung, nel nostro archetipo collettivo. Complessivamente Tentori ha clusterizzato tutte le connotazioni dei valori nella dizione Modello Culturale di Orientamento all’Azione[5], che per l’Intelligence è molto più esplicativo: ha appunto più valore. In questo senso, il valore indica il criterio con cui facciamo ogni valutazione, cioè con cui ponderiamo le cose, a cui diamo un peso e, pertanto, il principio che ci guida, la scelta che probabilmente prenderemo e la ragione di quella che abbiamo già adottato. I valori sono molto importanti nelle scienze sociali (e principalmente nell’intelligence) perché indicano le regole (giuridicamente le norme) del nostro habitat. Vedremo, ma qui non è il caso di insistere troppo, che sono proprio i valori, siano essi emozionali, affettivi, cognitivi, politici, economici, etici o morali, a determinare le strutture conservative con cui garantiamo la nostra sicurezza. 


A questo punto abbiamo capito che, specie in termini di Intelligence, il linguaggio matematico, su cui Bruno de Finetti aveva eretto la sua costruzione teorica, non basta. Nelle scienze sociali in generale e nell’Intelligence in particolare, come si dice, la matematica è necessaria ma non sufficiente. 
La matematica ha definitivamente perduto la sua certezza. 
Potrei ripeterlo così: nella nuova epistemologia simbiotica (tra verità e realtà), in ciò che Husserl ha giustamente chiamato lebenswelt (la scienza della vita), il linguaggio della matematica non è sufficiente, occorre necessariamente quello della logica. 
È più difficile, ma è più preciso. 

Bertrand Russell lo ha tramandato a tutti, qualche anno fa. 
Non per caso, prima del monumentale Principia Mathematica pubblicato con Whitehead tra il 1910 e il 1913, nel 1903 il filosofo inglese pubblicò un testo meno voluminoso intitolato The Principles of Mathematics, dove comparve la prima versione del suo noto paradosso logico e la tesi che la matematica sia soltanto una parte della logica. Necessaria, dunque, ma non sufficiente. Si tratta di “una prima (imperfetta e parziale) realizzazione del programma logicista, volta a fornire una definizione in termini logici dei concetti fondamentali della matematica pura”[6]. 

Sottoposto alla pressione polemica di diversi paradigmi, l’ipotesi di Russell, che in pratica faceva della matematica un sottoinsieme della logica, motivo per il quale potevano essere definite perfettamente corrispondenti (cioè identiche nelle parti comuni ma non complessivamente uguali), divenne decisamente impopolare. “Essa fu dapprima impopolare, a causa della tradizione che associava la logica con la filosofia e con Aristotele, per modo che i matematici sentivano la logica estranea ai loro interessi, e coloro che si consideravano dei logici accettavano malvolentieri di essere costretti ad impadronirsi di una tecnica matematica nuova e piuttosto difficile. [...] (poi) dal fatto che, se si accettasse la fondazione logica della matematica, ciò giustificherebbe o tenderebbe a giustificare molte ricerche, come quelle di Giorgio Cantor, che da vari matematici sono considerate con sospetto a causa dei paradossi insoluti che tali ricerche hanno in comune con la logica.”[7]  
È impopolare ancora oggi, con modelli di intelligence totalmente dominati ancora da equazioni matematiche piuttosto che da relazioni logiche. 


Invece, nei modelli di Intelligence che utilizziamo noi, senza entrare nel troppo nel dettaglio, il riferimento alla “logica delle relazioni” di Russell è fondamentale, sia in termini di calcolo quantitativo, sia in termini di valutazione qualitativa. Si tratta di un altro approccio. Entriamo in un altro universo analitico, dove i dati vengono ponderati, i metalivelli deformati, le dimensioni logiche integrate. Una diversa competenza metodologica che considera essenziali altri strumenti interpretativi. 

Lo vedremo meglio noi, prossimamente. 

ooo/ooo

[1] vedi HACKING I., The Taming of Chance, Cambridge University Press, Cambridge 1990
[2] LAD Frank, Probabilità: il linguaggio della gente! … il linguaggio della scienza??, in CAPRIA Marco Mammone (a cura di), Scienze Poteri e Democrazia, Editori Riuniti, Roma 2006, p.117
[3] LAD F., cit. 2006, p. 125
[4] LAD F., cit. 2006, p. 125
[5] TENTORI Tullio (a cura di), Antropologia delle società complesse, Armando Editore, Roma 1999
[6] DI FRANCESCO Michele, Introduzione a Russell, Laterza, Bari 1990, p. 28
[7] RUSSELL Bertrand, I Principi della Matematica, in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1978, vol. XXXI, pagg. 399 e 407-408

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