TURISMO: SAGGIO DI POLITICA LOCALE 1.b)

Turismo
Una esperienza mediterranea
anno 1998

1 - …una esperienza
1.a) personale
1.b) collettiva
2 - …il paradigma di riferimento
(ovvero: della connotazione situazionale)
2.a) vocazione e valenza
2.b) valenza e prevalenza
2.c) sostenibilità
2.d) identità e identificazione
2.e) il ciclo di vita
3 - …un esperimento
3.a) l’obiettivo (ovvero: dell’orizzonte strategico)
3.b) le tendenze
4 - …concludere mai. 



   


1 - … una esperienza 
1.b) collettiva


…l’unica scelta sta fra la pura sensualità e 
la pura perversione, tra il realismo magico 
vittoriosamente assonante con il ritmo stesso 
delle cose, e la rinuncia mistica, che respinge
tutto questo per inventare un cielo.
Bisogna scegliere se essere Cesare a Roma 
o un sognatore nel deserto…
                                                   M. Yourcernar





Nella storia delle nostre città il turismo è stato più subìto che scelto.
In realtà, come vedremo meglio, i fenomeni sociali che durano nel tempo non sono mai veramente
intenzionali. Sono piuttosto non intenzionali, accadono indipendentemente da ogni programmazione.
Accadono e poi vengono gestiti. Oppure non vengono gestiti, ma appunto subiti, e determinano una
moltitudine di spontanee disarticolazioni.

Così si è svolto il fenomeno turistico nelle nostre città.
L’Italia, incosciente della sua bellezza, mentre impegnava le sue principali risorse in una politica di
industrializzazione diffusa, ha accolto, inconsapevole, senza esserne preparata, un numero crescente
di ospiti; tanto da superare tranquillamente e ripetutamente il livello di presenze turistiche tollerabili.

Un fenomeno spontaneo e diffuso, in alcune epoche addirittura travolgente, tanto da disarticolare le
tradizionali programmazioni urbanistiche.
Prevalentemente lungo la nostra costa, spazio di maggiore attrazione turistica, sono sorte intere città
abusive, autocostruite, schiacciate sulla battigia; quartieri dormitorio in cui, nei due mesi annui di
ricreazione, gli standardizzati del consumo, i programmati della industrializzazione, parcheggiavano
le loro vacanze condizionate.

Tempi moderni scanditi dal ritmo ripetitivo e soffocante delle organizzazioni tayloristiche. Gli
uomini hanno consumato le loro chance di lavoro e di riposo, gomito a gomito.

Nella lobotomizzazione della vita sociale, nella suddivisione in compartimenti spazio/temporali della
vita umana che la società industriale ha prodotto, il turismo era lo spazio residuale e frivolo, il
Sabato del villaggio”, atteso disperatamente durante i grigi ritmi della routine, nelle cadenze
scandite del lavoro. E, allo scoccare della campanella, iniziava per tutti la medesima ora d’aria, la
medesima ricreazione, l’occupazione degli spazi, dei luoghi e delle località rimaste silenti in attesa.

Tutto automaticamente, naturalmente, spontaneamente, senza alcuna intenzionalità.

Meglio di altri Edgar Morin, ha denunciato il fatto che, nella società industriale moderna, il turismo
non fosse “ più tanto la scoperta dell’altro, quanto un tragitto funambolico guidato in un mondo
semifantomatico di folklore e di monumenti”. In altri termini, “il divertimento moderno alimenta il
vuoto da cui vuole fuggire[1].

Senza alcuna intenzionalità noi abbiamo subìto il turismo piuttosto che scelto.
Chi, come noi, è nato e vissuto dentro le città che si accendevano in estate e si spegnevano in
inverno, città di mare abituate a guardare il villeggiante sottocchio, come il povero guarda il ricco,
come il servo guarda il padrone, perché è dal villeggiante che traggono il loro sostentamento o il loro
reddito e perché ne avvertono la dipendenza, sa che cosa significa subire un sistema economico.Sono
città soffocate dal settore prevalente. Sono città invase ed invasate, che hanno sviluppato una cultura
dello sfruttamento individuale, una logica della rendita, che brucia il mercato ad ogni azione
imprenditiva.

Sono città di cui non si conosce il confine, città aperte che spesso non hanno nemmeno un orizzonte.
Sono città senza cittadini, che aspettano la marea, senza alcuna trincea, senza barricate e senza
nessun muro. Città di traverso, che si attraversano. Senza percorsi e senza itinerari. Talune sul mare,
altre di mare, sono città smemorate, ormai ignare della propria identità, deflorate dalla
massificazione estiva e dalla confusione.

Sono città stordite, con economie provvisorie ed occasionali, precarie di lavoro e di affetti,
circoscritte attorno all’avvento turistico estivo, coinvolte da un solo evento.

Sono città rapaci, che rapiscono, che confidano sulla interdizione del passante, sia turista o
viandante.
Città dove si cambia ciclicamente vita, dove per alcuni mesi l’anno si vive in uno stato di liminalità;
dove cioè, per un certo periodo, si altera il tempo e si destruttura lo spazio. Città invadenti, che si
lasciano invadere; che ti tolgono la casa. Città affollate, ovunque occupate da passanti occasionali
che, dentro il tuo letto, dentro il tuo bagno, in tutte le tue stanze, vivono la tua vita. Senza più alcuna
intimità. Nella promiscuità e nella solitudine. Perché sono città dipendenti, fatte di cittadini
aggrappati a quel reddito, uomini e donne che devono trovare i soldi per svoltare l’inverno. E si
lasciano invadere, accumulando risentimento, impotenza, cinismo, disaffezione e indifferenza[2].
Città che, come puttane abituali hanno perduto il controllo del proprio corpo, troppe volte sfruttato,
ed hanno svenduto la passione per ogni gesto d’amore. Città invase ed invasate. Talvolta con te.

Talvolta senza di te. Talvolta contro di te.

Sono città costrette, per capitalizzare, ad aggredire, non il mercato, ma il singolo consumatore; che,
per capitalizzare, devono ridurre al minimo le spese; che, per capitalizzare, devono evitarsi qualsiasi
superflua qualità aggiuntiva; sempre per capitalizzare, devono escludere e devono escludersi a
qualsiasi rischio imprenditoriale; per capitalizzare presto, devono evitare ogni investimento di medio
periodo: perché, infine, comunque, poi, si spengono, si addormentano, cedono all’inerzia, al falso
riposo dell’attesa. Tutti: operatori balneari, ristoranti, bar, commercianti, artigiani, ogni cittadino,
tornano alla loro situazione abituale, all’inverno. Chi tenta altre occupazioni, chi trascina la sua
impresa come un sacco morto, chi aspetta, chi si riposa, chi si rilassa nella tranquillità dell’assenza,
nella lentezza e nel silenzio di una provincia spoglia. La solitudine della provincia che
deresponsabilizza ciascuno. Ad altri spetta riordinare la stanza che la folla ha scomposto.

Giorno dopo giorno il turismo, che doveva essere una gioia, si è trasformato in una croce dolorosa.

DA OSPITI A INVASORI

Il processo di trasformazione e banalizzazione turistica:
Fase di Idillio (o di Gauguin): pochi turisti fortunati pacificamente immersi nella società ospitante
                                                  ne condividono lo stile di vita e le infrastrutture;
Fase di competizione: i turisti, in numero consistente, si spartiscono le infrastrutture esistenti: i due
                                     gruppi, sebbene ancora in contatto, mal si sopportano a vicenda;
Fase di separazione: i turisti, spesso più numerosi dei residenti, dispongono di infrastrutture ed
                                   entrano in contatta con i residenti solo attraverso canali codificati
Fase di assimilazione: Con totale capovolgimento dei ruoli, gli interessi della comunità turistica
                                      prevalgono su quelli della locale, che si riduce a un guscio vuoto al servizio di
                                      forze estranee alla propria tradizione.
                                                             (In BISCELTA Marco, Il turismo alla scoperta della "via", Il Sole 24 Ore, Lunedì 20 Ottobre 1997).

Pesano sulle spalle della città questi abitanti che da venti anni, per venti anni, nei soli due mesi
estivi, sono passati da poche decine di migliaia a tante centinaia di migliaia.

Per una piccola città di provincia, aggiungere un semplice zero, talvolta, diventa un passaggio
travolgente. Si tratta di un vero e proprio cambiamento di scala.
La città viene messa letteralmente a soqquadro. Il coraggio di protestare, di investire su strutture di
tenuta e di qualificazione non c’è; troppo più semplice, immediato e comodo lo sfruttamento.

Qualcuno, dopo questa incontrollata confusione, nel periodo del nostro riposo, se vorrà, forse,
rimetterà in ordine. Noi intanto viviamo in piazza, silenziosi e pigri, soggiacenti alla generale inerzia
ed in preda ad un delirio da reprimenda.

Ci si scaglia e ci si scatena contro altri, preferibilmente contro gli amministratori e i dirigenti, i capri
espiatori della nostra insufficienza. Per molti è il breve riassunto dei malumori. Ed è una scena che si
ripete troppo di frequente.

Di frequente, abitualmente, puntualmente, siamo costretti a verificare, poi, l’asservimento, il
sostegno, se non addirittura l’ausilio, tra accusati e accusatori; perché nella reciproca contestazione,
cittadini e politici locali, si giustificano.

Il turismo, nelle nostre città costiere, è diventato una nevrosi collettiva.
Ma fino ad un certo punto. Tutto questo, in una provincia, in ogni provincia italiana, può avvenire
fino ad un certo punto.

Le generazioni successive, in genere, avvertono il peso del complessivo sistema di sfruttamento che
grava anche sulla loro individuale prospettiva, che si trasferisce ad ogni relazione sociale, familiare,
affettiva. Una vita non può contabilizzare ogni atto, ogni gesto, ogni pensiero perché tutto deve
essere finalizzato ad uno sfruttamento occasionale e provvisorio, comunque soffocante. Il salubre
clima dell’ambiente naturale si trasforma in un alibi per lo stagnante microclima dell’habitat sociale.

Si sente il peso di un sistema economico dipendente.
La cappa della generale inerzia è insuperabile.
Per il singolo, per l’uomo impegnato in una attività stabile e continuata, il rischio dell’economia
provvisoria a cui viene sottoposto è altissimo, minacciato in ogni attimo dalla invincibile
concorrenza dell’abuso irregolare che qui imperversa.

Pochi sono i servizi autonomi che possono davvero essere programmati, quasi nulla progettato e
concluso, perché le azioni innovative spesso non riescono a superare la soglia della loro stessa
genesi.

Uno da solo certamente non può. Occorre uno sforzo generazionale.
Per affrontare adeguatamente il problema turistico locale, allora, è necessario riferirsi alla città
intera[2], a tutta la collettività che, giorno dopo giorno, trasmette e si trasmette i contenuti del
vantaggio competitivo. Uno sforzo generazionale nella comunità urbana che eviti ogni forma di
sfruttamento egemonico sul precario e sul frammentario.

Contro una economia di passaggio.
Contro una socialità di passeggio.

Anche figurativamente i centri commerciali di queste città si situano, senza alcuna intenzionalità,
lungo la strada di maggior transito e non negli angoli turisticamente più rilevanti.
Da questo punto di vista, modificare il modello culturale di orientamento all’azione, e prima ancora
la visualità che una città ha di se stessa[3], trasformando quelle strade di transito automobilistico
in isola pedonale e restituendo alla socialità ed alla fruizione altri luoghi e piazze, è già una
grandissima innovazione.

Certo il compito delle pubbliche amministrazioni consiste sempre nel miglioramento dei servizi
interni ed esterni, nell’attività promozionale generale, nell’arredo urbano, nella organizzazione
urbanistica e nella complessità di atti possibili o necessari per sostenere lo sviluppo. Ma la scelta
turistica vera e propria, quella che riguarda la valenza di una città e non semplicemente la sua
vocazione, la motivazione di fondo, la definizione dei segmenti di mercato e la tipologia dell’offerta,
è una scelta che viene comunque compiuta, ogni giorno, dai comportamenti e dall’azione dei
cittadini, siano essi imprenditori, commercianti, tour operators, o quanto altro attinente direttamente
ed indirettamente con il turismo.

È il caso specifico del confronto in cui ci siamo impegnati agli inizi del 1998, rivolto alla esigenza di
istituire un sito universitario nella città di Terracina.

Ora, come allora, insisto: i network urbani complessi superano ormai i confini delle municipalità.
Pur mantenendo una propria autonoma entità amministrativa, tendono a strutturarsi in una rete di
relazioni interattive. Assieme costituiscono bacini di servizio e di attività produttive, cioè i
distretti, che rappresentano ancora il modello vincente, studiato ed imitato, della piccola e media
impresa italiana.

La forza attrattiva delle aree di maggior sviluppo, come i dati dimostrano, è direttamente
proporzionale al tasso di integrazione dei servizi territoriali offerti in un determinato hinterland. Per
questo esiste ancora un Sud, fuori dai circuiti reticolari dello sviluppo, e un Nord, sempre pi
integrato e specializzato.

Ora, come allora, consiglio - se mi è permesso. Dalle maggior parte delle indagini per le regioni
Nord-Est sugli spazi di intervento professionale nelle aree in cui si rilasciano diplomi universitari e
che risultano essere ampi e promettenti nei distretti di riferimento, emergono decisamente gli aspetti
relativi alle effettive logiche di sviluppo dei sistemi locali, con la esigenza di progettare un percorso
formativo in accordo con le attività territoriali prevalenti per evitare la identità sfuocata del diploma
non specializzato e privo di connotati distintivi.

Ora, come allora, affermo che, geograficamente la distanza non fa differenza in termini di ricaduta
territoriale dei servizi in aree specializzate e limitrofe. Infatti, il processo di integrazione delle
specializzazioni territoriali (VALENZA), oggi, nella società postindustriale, cioè in quel sistema
sociale che fa dell’informazione e della conoscenza il fattore strategico di successo, può essere
governato da un modello di università diffusa lungo una provincia longitudinale e variegata, cioè
potenzialmente ricca. Ma è questo un tema soffocato dal tabù del campanilismo che acceca i suoi
sostenitori e di più i suoi emancipati censori. Un tema utile a spostare i termini del confronto e che
evita di vedere perfino che il piccolo comune di Urbino è sede Universitaria di alcune facoltà più
note della sua stessa dimensione.

Ora come allora, pertanto, a me sembra evidente che nella amministrazione dei sistemi urbani
complessi l’idea di far qualcosa purché si faccia, non è consona con le esigenze dello sviluppo. Oggi
è indispensabile selezionare, scegliere e collocare proposte e decisioni nell’ambito di un
complessivo, generale (non generico) progetto. Dobbiamo selezionare ciò che vogliamo. Questo è il
vero, nuovo salto di qualità, il cambiamento di scala nell’azione dei decisori. Gestire l’esistente è
soltanto un modo, e nemmeno il migliore, di sopravvivere.

La provvisorietà della raccolta indistinta di occasioni trovate per caso, denuncia dunque una non
chiara idea di sviluppo. Le strutture urbane e le decisioni urbanistiche devono seguire la vocazione
economica, sociale e culturale dei territori.

Mi rendo conto, purtroppo, che il turismo non è nel cuore dei nostri politici. C’è sempre un’altra cosa
da fare prima; si può sempre fare qualcos’altro invece; è sempre opportuno decidere cose diverse
assieme; poi il turismo verrà, con le sue possibilità permanenti, autonome, automatiche, inevitabili.
L’illusione dell’avvento senza avvenimento, della invasione permanente e meccanica, ci attanaglia e
ci demotiva: si trasforma in un alibi per la nostra pigrizia intellettuale e per il conservatorismo di
maniera su cui ci sentiamo accomodati.

Sennonché il turismo non è una possibilità ma una scelta, una volontà prioritaria e costantemente
affermata. Ciò di cui proprio non abbiamo bisogno è che altro ci distragga. Noi abbiamo bisogno di
specializzazione e la specializzazione significa scelta. Lasciamo ai bambini capricciosi la pretesa di
voler tutto e finalmente dedichiamoci a selezionare le nostre illusioni secondo precisi indirizzi
politici. L’energia positiva dei nostri comportamenti vada indirizzata, in funzione della
specializzazione dei bacini territoriali, verso gli obiettivi che la nostra città reclama. In una prossima
campagna elettorale, in un prossimo dibattito o confronto, da cittadino, mi piacerebbe ascoltare
coloro che si candidano a rappresentare le nostre ambizioni e le nostre speranze dire, non più
abbiamo ottenuto…”, ma finalmente “abbiamo voluto…”.

Sarà forse un discorso generico!
A me sembra però che, nella scelta del proprio modello turistico, questo dell’atteggiamento culturale
collettivo di una comunità sia il primo, propedeutico, argomento. Perché soltanto la capacità di agire
e reagire è la certezza del modello di sviluppo. Soltanto l’azione intelligentemente condotta[4] offre
le necessarie garanzie allo sviluppo imprenditivo.



ooo/ooo

[1] d’altronde questo risentimento antituristico non è una novità. URBAIN J.D., L’idiota in viaggio,
 Aporie, Roma 1997, pag.10 ne riconosce le prime manifestazioni già all’interno del sistema delle 
relazioni sociali del XX secolo e ne evidenzia la saldezza e la costanza storica quando afferma che 
il rifiuto del turista prevarrà anche sulla consapevolezza dell’interesse economico”. In Ogni 
regione di accoglienza si propaga un sentimento di diffidenza che spesso è un vero e 
proprio risentimento. L’autoctono avverte un forte senso di inferiorità e “diffida di questo 
sconosciuto ozioso che viaggia senza motivazioni apparenti”. Il passaggio “dalla ostilità larvata alla 
opposizione dichiarata” è molto breve. Tanto breve che sono quasi immediatamente apparse teorie 
del rifiuto, che appunto rappresentano il turista come una specie particolare di imperialista (NASH 
D., Tourism as a form imperialism, in SMITH, A Form of Imperalism in SMITH V. L.,The s and
 guests. The osts and guests. the Antropology  of tourimUniversity of Pennsylvania Press, 1977)
 Che sia dolce (BERCHET J.-C., Le voyage en orient. Anthologies des voyage en orient voyage en 
Oirent.  Antropoligia e Antologie del viaggio Francese all'inizio del secolo,  Paris, R. Laffont, 1985) 
o più violento, questi teorici  interpretano il fenomeno turiscome una nuova. Vir-tuale, occulta, 
moderna strategia di colonizzazione.
[2] Perché appunto “è con la città, non contro di essa che bisogna cambiare la vita”. Pasolini P. P.,il sogno 
del centauro, Editori  Riuniti, Roma, ottobre 1993.
[3] ciò che chiameremo , perché viene così denominata, GESTALT.
[4] Sartori Giovanni, la politica
[5] Morin Edgar, TERRA-PATRIA, Cortina Editore, Milano 1994, pag.82

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