COMPLESSITA': IL GRIDO DI DOLORE DEL SOCIALISMO



Il socialismo, diceva Durkeim “è un grido di dolore”. 
Il socialismo – scrisse in una nota nel 1894 e poi nelle lezioni tenute tra il 1895 e il 1896 - non è una scienza, non è una sociologia in miniatura, è un grido di dolore e a volte di collera, di uomini che sentono più fortemente il nostro malessere collettivo. Sta ai fatti che lo suscitano come i lamenti del malato al male che lo ha colpito e ai bisogni che lo tormentano.” [1]

Perché questo grido di dolore non si sente più? 
Non c’è più bisogno? 
O soltanto abbiamo smesso di ascoltarlo? 
Forse non lo udiamo? Forse rifiutiamo di sentirlo? Perché lo soffochiamo perché non ci interessa o perché lo temiamo? Per indifferenza o per responsabilità? Per colpa? 

Eppure il dolore c’è ancora e urla forte, ma non raggiunge le nostre sonorità. 
Siamo frequentati, oppure rifiutiamo di frequentare, in qualche modo ci neghiamo la presenza di uomini spaventati perché siamo noi spaventati. Uomini fuori continente, che si sentono fuori mondo e che sanno di essere, sperano di poter essere un po’ di ghiaia nell’ingranaggio dell’economia nucleare globale; uomini terrificati dal loro stesso terrore, quello che esercitano contro chi lo esercita contro di loro, un terrore fisico che si può tagliare e che ci costringe a vivere sotto impalpabili ali nere. 
Il grido di dolore del socialismo si dovrebbe sentire ancora. Un urlo contro il grugno inerte della quantità, apparentemente indistinta e che invece è fatta di tante individualità diverse ed uguali, ugualmente diverse, ciascuno “simile come miliardi di altri simili[2]. Diceva per questo Jacques Derrida che chiunque altro è tutt’altro[3]

Il socialismo è nato così: un’idea prima urlata e poi narrata, un ideale, talvolta un’ideologia, che si scagliava contro la barbarie e le sperequazioni del mercato autoregolato che ieri come oggi proletarizzava. 
Per il mercato autoregolato l’uomo è sempre stato materia bruta, inorganica che deve essere gestita, governata. Soggetto, mai individuo. Ciascuno è deriva e derivato con un’ipotetica contabilità, con una sua calcolabilità programmata, astrazioni cifrate, regolate dal flusso e riflusso, un’immensa voracità incontinente e incongruente. Soggetto, mai individuo, mai davvero più del proprio reddito personalmente addentato o, peggio, quello impersonale, oggetto di statistica, proprio perché non personalizzato, denominato reddito medio. La carta d’identità si trasforma in un codice fiscale senza identificazione. La foto in un numero. 
I socialisti hanno sempre protestato contro tutto questo. Sempre, ogni volta che formulavano e riformulavano un verdetto apodittico contro il capitalismo: contro il più efficiente sistema di produzione della storia, artefice del massimo benessere e, al tempo stesso, talmente deficiente da essere unico responsabile dell’infima degradazione dell’umanità. Durante la rivoluzione industriale, prima di diventare progetto politico, il Socialismo è stato malamente e opportunamente considerato come un banale atteggiamento bonario di carattere etico - morale. Invece il Socialismo è sempre stato un ideale, l’ideale di un “ceto in esilio[4], di un movimento politico che ha generato i partiti operai; vere e proprie organizzazione funzionali al riconoscimento e all’accoglienza di coloro che si “contrappongono alla concezione individualistico - possessiva borghese, una nuova cultura basata sulla solidarietà sociale[5]

Quello del movimento socialista, dunque, è un grido perché ha natura essenzialmente reattiva ed assume la funzione di rivendicazione degli oppressi: “Il socialismo fu appunto la reazione al processo d’industrializzazione e la risposta alla crisi di legittimità. Nasce cioè come una specie di organizzazione sistemica alternativa alla organizzazione di conservazione dei valori borghesi[6]. Dalla protesta operaia e dalla indignazione degli intellettuali radicali, il movimento antagonista si sviluppa “orientato verso la trasformazione della società capitalistica e l’edificazione di una nuova società basata sulla proprietà collettiva e sul principio dell’associazione[7]

Siamo sempre li. Siamo ancora al ruolo del Socialismo di equilibrio e contenimento dell’irrompente processo di “distruzione creatrice[8] di ogni modernizzazione: anche della nostra oggi; quella che ci sfugge nei suoi reali connotati perché la globalizzazione ci schiaccia, per paura, nel recinto della nostra località. Per ascoltare, forte e determinato, il grido di dolore del socialismo contemporaneo si deve uscire dal confine del nostro piccolo mondo nazionale e anche continentale, per ascoltare le voci planetarie che inutilmente gridano. 
Se usciamo dalla prigionia della nostra casa, per quanto possa essere estesa ed elegante, proprio perché è estesa ed elegante, ritroviamo, insuperabile il fine ultimo del movimento socialista che ancora è in grado di raccogliere a fattor comune le molteplici grida di dolore dell’umanità. In tutta la sua storia, infatti, dalle aspirazioni impotenti, dai sogni d’infanzia, al rivoluzionarismo del messianesimo giudaico-cristiano, fino al socialismo realizzabile dell’English Style, il fine ultimo del socialismo è sempre lo stesso: è sempre quello del valore-rivendicazione degli individui collocati contro la loro volontà e il loro desiderio in masse oppresse. Cambiando l’habitat storico e sociale anche il conflitto politico cambia natura. Certo sono cessati i contrasti fra interessi, aristocratici, borghesi e contadini; e stanno cessando le lotte e, per la prima volta, hanno rappresentato una forma anomala e paradossale di collaborazioni integrative nell’ambito del capitalismo trionfante. 

È sbagliato ricondurre il socialismo soltanto a una “lotta di classe cambia fisionomia” come fa Maurice Duverger[9]. Fin dalla prima urbanizzazione, la classe operaia non ha contestato soltanto la legittimità del potere – nei suoi criteri e nelle sue forme – di chi deteneva i mezzi di produzione. Questa è una riduzione marxista. Il socialismo ha sempre contestato l’intero sistema sociale, in ogni sua manifestazione, in ogni sua articolazione, indipendentemente dal fatto che fosse strutturale o sovrastrutturale. Il conflitto tra interessi privati diviene il conflitto d’interesse pubblico, da particolare a generale; quando affronta il tema dei diritti, il socialismo non è più contro le forme del potere, ma contro il potere stesso. 

È vero che, da allora ad oggi, il Socialismo ha sempre messo in evidenza l’enigma insoluto della Storia Universale: il cleavage, la demarcazione che, alla fine di tutto, ha continuamente diviso il mondo alle solo due parti in sintesi risultanti: vincenti e perdenti, sfruttati e sfruttatori, diretti e direttori, haves e have-nots. Forse, però, questo è stato davvero il profondo limite manicheo del Socialismo (e del capitalismo e di ogni forma politica cristallizzata), cui ormai possiamo riparare. Adesso sappiamo, infatti, che la vita è vissuta principalmente da uomini che non vincono e non perdono, che sono sfruttati e contemporaneamente sfruttatori o, viceversa, non sono sfruttati e non sfruttano, che non sono diretti e non sono direttori, che hanno e non hanno: passaggi in ombra che consumano la loro vita senza fruirne, che desiderano permanentemente senza mai godere. Il loro grido di dolore resta in sordina, non riesce a esprimersi politicamente. Questo non vuol dire che non vada ascoltato. Forse la nuova frontiera del socialismo è propria questa: diffondere la semantica della vita, un'esistenza che riesca a essere per tutti una produzione di significati. 
Invece il Socialismo si è sempre principalmente occupato della sintattica della vita. Ha sempre saputo che al fondo di ogni modernizzazione, nel profondo di ogni epoca storica, c’è un prezzo che pagano solo gli oppressi; i quali, contemporaneamente, sono il prodotto di quelle stesse modernizzazioni. 
In ogni caso, il grido di dolore del socialismo, il suo ideale talvolta ideologico e talaltra religioso, è tutto in questa permanente rivendicazione nella storia. Il socialismo è il nemico degli automatismi, delle cose che sono come avvengono. È il segno dell’azione umana, dell’intervento dell’uomo nella storia per fare in modo che le cose avvengano, il più possibile, come dovrebbero essere, com’è giusto che siano. Si oppone con forza al meccanismo “inumano” in cui “tutto quello che è sacro viene profanato[10], che degrada l’umanità ad un’appendice tecnologica della dinamica economica, pur nella consapevolezza – come viene scritto perfino nel Manifesto del Partito Comunista – che il capitalismo “ha creato più numerose e colossali forze produttive che tutte le generazioni assieme[11]

Il grido socialista, allora, si scaglia contro “il dominio delle cose sugli uomini”, che è molto più reale e scientifico di qualsiasi profezia marxista. Proprio Marx, infatti, e il suo materialismo dialettico, forniscono il movimento di un’attraente profezia: “predice il declino dell’organizzazione economica privata, o, come si suol dire, dell’organizzazione capitalistica della società; e profetizza la prossima sostituzione di questa società con la dittatura del proletariato, come fase transitoria[12]. Credeva, Karl Marx, di essere scientifico perché aveva formulato l’ipotesi che i grandi apparati produttivi multinazionali, soffocando la concorrenza perfetta, avrebbero disarticolato l’equilibrio dei prezzi (i quali cioè salgono ugualmente in periodi di domanda scarsa) e disarticolano il meccanismo stesso del mercato determinando così catastrofiche e lunghe depressioni (1876, 1929). Credeva, Marx, che l’analisi scientifica prefigurasse automaticamente una soluzione evangelica: uno sforzo che “si esauriva nel predicare nel deserto in mancanza di un contatto ben stabilito con una sorgente effettiva o potenziale del potere sociale, in una predicazione di tipo platonico esulante dagli interessi degli uomini politici e, per gli studiosi dei processi sociali, non catalogabile fra i fattori operanti della storia.”[13]. La sua pretesa pretenziosa di detenere l’unico approccio “scientifico” del socialismo lo porta direttamente dentro una nuova “predicazione” secondo cui la fine del capitalismo sarebbe avvenuta da sola, senza l’agire umano, soltanto sotto il peso delle sue colpe morali. Marx ha combattuto l’automatismo del mercato autoregolato che esclude l’umano con l’automatismo del materialismo dialettico che ugualmente esclude l’umano. Contro le identiche condizione di disumanizzazione storica, si alza forte e determinato il grido di dolore, perché l’urlo del socialismo era, è e sarà un urlo anche sociale, non solo economico; principalmente un urlo politico. 
Non è vero, perciò, come spesso si è ritenuto, che Marx fornisce “una base all’azione”. Egli anzi blocca l’agire umano lasciando alla dinamica della struttura produttiva la responsabilità di collassare da sola. Perciò non si pone il problema di una nuova forma di Stato, della forma dello Stato socialista, cosa di cui lo accusa Bobbio. Se la politica è una sovrastruttura, sarà la nuova struttura comunista a determinare la tipologia di potere che, di volta in volta, serve. Una falsa rivoluzione. È piuttosto un’altra religione che appartiene “al sottogruppo della religione che promettono il paradiso in terra[14]. Il marxismo svolge la funzione delle grandi religioni di salvezza: “una civilizzazione culturale, qualcosa perciò destinato a durare per secoli se non per millenni”. È una religione, con principi inalterati senza scardinare l’intero apparato. “Il marxismo è monolitico come il mondo che lo esprime[15], ha sostenuto Colletti; la sua verità è unica e univoca, un paradigma assoluto privo e appositamente privato d’ipotesi alternative. È una forma fissa, perché - in contrapposizione al dinamismo sfrenato del capitalismo monopolistico, la sintesi storica del materialismo dialettico - la società comunista è sospesa. Come “paradiso in terra”, come la “città del sole” dove tutto è realizzato e realizzabile, il comunismo è una realtà statica ed “irreversibile”. Quest’unicità teorica - il marxismo - e questa staticità della promessa hanno una precisa funzione sociale: sono delle esigenze indispensabili (elementi caratteristici dello stato nascente) per la costruzione di un partito nuovo, “che si identificherà con lo Stato e pretenderà di essere lui stesso la società”. L’anima del proletariato è incarnata, non più da un partito - movimento, ma da un partito istituzione, quello comunista. Operai e capitalisti, dunque, non costituiscono una “comunità”; ognuno può riferirsi ad una propria “comune volontà di valori”. Due mondi che si considerano rispettivamente “evidenti”; l’evidenza capitalistica che si contrappone all’evidenza proletaria e, per la prima volta, viceversa. Resta soltanto la lotta qui ed ora per far vincere i propri criteri di legittimità contrapposti e che inevitabilmente generano altri oppressi, altri perdenti, altri sconfitti, altri soccombenti. I proletari diventano uguali ai capitalisti. Entrambi sono sostenuti da proprie legittimazioni. Sono i rispettivi nemici che si rispettano perché, seppur nella città industriale si combattono, tuttavia si alimentano in modo che sia “ciascuno la vitalità dell’altro”. 

Il socialismo non è solo questo. La vera rivoluzione non è infatti nella coscienza scientifica che “la società capitalistica è incapace a risolvere i problemi operai”, non è nella individuazione del profitto come “il motore del capitalismo e il generatore inevitabile di barbarie[16]. Questo lo sapevano e lo sanno anche i capitalisti. La vera rivoluzione è il riposizionamento dell’umano, è “una concezione del mondo o, addirittura, una cosmologia”. 
Non si può circoscrivere il socialismo a un’epoca storica o a una teoria - giustificazione dell’ascesa del proletariato intero. Né alla stupidità di una religione. Il Socialismo è rivoluzionario se rappresenta una reale discontinuità culturale dell’ordinatore capitalistico. E la reale discontinuità culturale dell’ordinatore non è data dalle sue contraddizioni, dalle sue esasperazioni. È dato dalla meccanizzazione della società che esclude l’azione e la relazione umana, sia come individuo, sia come soggetto, sia anche come organizzazione. Una società fatta di strutture e sovrastrutture che s’incastrano, le seconde dipendenti dalle prime, non considera l’umano e la sua irrefrenabile capacità di esistere adattandosi ai diversi habitat e, viceversa, costruendo habitat in cui sia più comodo adattarsi. Nel comunismo marxista, l’intelligenza che organizza il mondo organizzando se stessa di Piaget non c’è. Il modo è il prodotto di forze storicistiche che configgono dialetticamente e che si alternano. E che si eguagliano. Che si oppongono e si riconoscono. Che s’identificano reciprocamente. In questo senso, quindi, con il marxismo il socialismo perde il suo grido di dolore. Resta muto e afono, troppo impegnato in discorsi di legittimazione politica che ne indeboliscono decisamente le corde vocali. La scala dei valori, la cultura socialista, senza la sua ribellione urlata, non trova più punti di coagulo. La rivendicazione di una giustizia planetaria, la pretesa di ridurre ovunque il dolore che le modernizzazioni inevitabilmente producono, svanisce. 

Marx però non è durato molto. Il grido universale di dolore del socialismo ha resistito perché, anche quando era flebile, ha insistito. La società capitalistica ha realizzato, sebbene violentemente, la funzione di legittimazione degli opposti, senza integrazione. Il comunismo è stata la sponda complementare di questa violenta legittimazione senza integrazione. Con il capitalismo e con il comunismo resta, ineliminabile, il conflitto tra “dislocati” e “integrati”; resta la possibilità, addirittura la probabilità dello scisma sociale, “cioè la frattura orizzontale e verticale fra coloro che si identificano ancora con l’antico regime ... e coloro che hanno esplicitamente voltato le spalle alla tavola dei valori vigente[17]. Al capitalismo organizzato si contrappone un’altra organizzazione, che raccoglie la solitudine e l’insicurezza degli sradicati, la trasforma in una situazione rivendicativa, in un’accusa infamante che mina la natura perbenista del sistema e nel contempo rafforza la protesta proletaria, fornendola di un significato e di una giustificazione. Ciascuno però resta circoscritto, chiuso e concluso nel suo piccolo mondo paradigmatico. 

Il socialismo rompe quei confini, quelle cornici. Ancora il suo urlo di dolore determina il passaggio degli individui da “spostati” e “indotti” a “uomini di risentimento”: dalla lotta soffocata e nascosta alla protesta reclamata, dal mondo chiuso dell’emarginato illegittimo al mondo aperto della rivendicazione sociale e riforma globale, da nemico potenziale della società a suo avversario istituzionale. È il passaggio dal grido all’urlo, dalla sofferenza alla sfida. “Così gli esclusi, - scrive Pellicani - grazie alle loro lotte spesso sanguinose, sempre terribilmente costose, fecero il loro ingresso nella Città con le loro specifiche istituzioni di lotta - il sindacato; il partito; lo sciopero - e con essi i tribuni della plebe, interpreti permanenti dei loro conculcati diritti ed i loro interessi disconosciuti.[18]. Questa condizione, interamente concentrata sulla capacità prettamente umana di re-lazionarsi, cambia la società e affievolisce il conflitto. Il grido di dolore si trasforma, prima, in urlo di sfida, poi diventa la parola della protesta e, infine, la rivendicazione della proposta. È il compromesso socialdemocratico, che risolve definitivamente il problema dell’integrazione. A conclusione di questo percorso, se mai si può considerare terminato, quella della classe operaia non è più una cultura altra, estranea al sistema, ma una cultura che genera una società nuova, dove i diritti politici, economici e sociali proclamati, contestati e contesi, dei socialisti si sono trasformati in indicatori di civiltà. 

Possiamo credere allora che quel grido di dolore del socialismo si sia definitivamente spento perché, nel novecento, da un lato è fallito nella sua presunta e presuntuosa versione scientifica e perché si è invece realizzato nella sua pretesa e pretenziosa versione socialdemocratica? 
Siamo davvero rimasti muti? 

Ritrovo il Socialismo in questa sera dell’umanità novecentesca o in questo strano mattino del XXI secolo. E so che questo suo non parlare quando non significa necessariamente tacere. 
Socialismo è riconoscimento dell’altro nel mondo, l’individuazione dell’umano, come soggetto collettivo e non soltanto come singolo individuo. Con il Socialismo l’umano si è riposizionato come protagonista della propria storia. Nella pluralità dello spazio pubblico, si costruiscono infinite rel-azioni politiche tra ansie e incertezze, “le abitudini e le anime / e quel dialetto di allusioni / che ogni gruppo umano va ordendo”. Il Socialismo non ha più bisogno “di mentire privilegi”, come dice il poeta; poiché “Ciò è raggiungere il più alto, / quello che forse ci darà il Cielo; / non ammirazioni né vittorie / ma semplicemente essere ammessi / come parte di una Realtà innegabile, / come le pietre e gli alberi.[19]. Il Socialismo realizzato è ormai una realtà innegabile. È pietra. È albero. 

C’è, però un Socialismo ancora da realizzare. C’è un urlo, ancora un urlo di dolore che dobbiamo imparare ad ascoltare e che spesso siamo costretti a strillare. Un urlo che viene normalmente tacitato dai clamori della politica locale e globale, negli ultimi anni della società della comunicazione. 
È un mutismo ingiustificato. 
Diceva Ortega y Gasset che ogni generazione deve fare i conti con le proprie fraudolenze. 
Le fraudolenze dei socialisti non sono così eclatanti. Sono fraudolenze che riguardano la cronaca, anche se amplificate dai mezzi di comunicazione di massa. Non sono crimini che sfregiano il volto della storia. 
La storia non ricorderà, i socialisti, come i costruttori di forme di terrore, come i sacerdoti di qualsiasi totalitarismo. I socialisti non sono mai stati né i fautori, né gli adepti di regimi dispotici o di sistemi di sterminio e di controllo di massa. La storia li ricorderà come laici e libertari, come una comunità litigiosa di ragioni che non finiscono di finire. La storia li ricorderà come dei modernizzatori, dei riformatori democratici, socialisti e socialdemocratici, incappati nelle perverse maglie del potere. Ciò naturalmente non giustifica nulla e nessuno. L’etica nella politica è un comportamento qualitativo, non un contenitore quantitativo di atti e fatti. Ma se non giustifica nemmeno colpevolizza. 
Per questo motivo, proprio per questo motivo, è tantomeno giustificato il loro mutismo, nel momento in cui tutto il mondo sviluppato si è sviluppato dentro la politica socialista. Rispetto alla storia (alla cronaca certamente no) non aveva torto chi ripeteva insistentemente che i socialisti sono la radice e non il cespuglio. Tutto però sta a capire dove viene piantata questa radice, se nel ricco terreno del dolore planetario e della rivendicazione dei diritti, o nell’acido vaso della localizzazione autocratica, nel deserto arido della interdizione e della esclusione della realpolitick, nel limbo di “coloro che son sospesi”, un po’ di qua un po’ di là, a piacimento, mentre proprio la loro ignavia e la loro inerzia gravi lutti già adducono all’umanità. Tutto sta a vedere dove piantiamo la radice prima del socialismo, giacché l’ambiente cambia i viventi, li trasforma, li tramuta in qualcosa di altro, di diverso e di pericoloso, come già ampiamente vissuto. 

Oggi più che mai i socialisti devono parlare; in questa epoca che ha annullato la speranza e l’ambizione per ogni progetto futuro, in cui primeggia “la diuturna fatica dell’ambizione personale[20]. Nella “microfisica del potere[21], che si esercita prevalentemente nelle province e nei nostri comuni, sopravanzano i grandi despoti del quartiere, i nuovi tutori di vecchie supremazie, i giovani sacerdoti di riti antichi per la manutenzione del privilegio, i cultori dei benefit, pronti a qualsivoglia mediazione pur di resistere. Non frequentiamo neppure l’antica arte del compromesso. 
Il compromesso è il nobile incontro fra diverse opzioni. 
Spesso i nostri amministratori non pensano, perché non conviene. Semplicemente gestiscono le parole emergenti, gli slogan che la pressione sociale cavalca. Nessun compromesso perché nessuna possibilità di scelta; mediocre mediazione tra gruppi di pressione e lobbie locali (nazionali). Credono di dirigere e sono diretti dalla mano invisibile del gruppo dei pari, come ha ben descritto Riesman. Solo che il gruppo dei pari della società della comunicazione sono i social network che frequentano dizioni comuni, intuizioni prevalenti e talvolta banali, trasmissibili con facilità ad ogni possibile elettorato. Nel bene e nel male i socialisti non sono mai stati così. Questa è una forma di modernizzazione che oggi, a destra e a sinistra, primeggia essenzialmente nei paesi autocratici. Ancora soltanto una sintattica senza semantica. Nelle nazioni laiche, democratiche, moderne, per gran parte europee, questa sintattica è riempita da una semantica della relazione sociale e dello spazio di pluralità pubblico della comunicazione. Viceversa, laddove la sintattica è lasciata sola alla univocità di televisioni generaliste bloccate, come in Italia, emerge un comportamento da autocratico, diseducativo, insignificante, confessionale che soltanto con il grido socialista contro il dolore esistenziale della folla di uomini solitari è possibile bandire. 

ooo/ooo


[1] DURKHEIM Èmile, Il socialismo, Franco Angeli, Milano 1973, p. 183 
[2] REYES Alina, Lucie’s long voyage, Minerva, Roma 1993, p.8 
[3] DERRIDA Jcques, Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003 
[4] PELLICANI Luciano, La società dei giusti, Rubettino, Soveria Mannelli 2012, p.19 
[5] PELLICANI Luciano, Il mercato e i socialismi, Sugar, Milano 1979, p.35 
[6] PELLICANI L., cit. 1979, p.42 
[7] PELLICANI L., cit. 1979, p.48 
[8] SCHUMPETER Alois Joseph, Capitalismo socialismo e democrazia, Rizzoli Etas, Milano 2001 
[9] “Schematicamente non oppone più i nobili ai borghesi, ma i proletari delle città a una alleanza tra nobili, borghesi e contadini”. DUVERGER Maurice, Lettre ouverte aux socialistes, Parigi, Albin Michel, 1976 
[10] AGUSTONI Alfredo, Intorno al mondo nuovo, Aracne, Roma 2008 
[11] MARX Karl – ENGELS Friedrich, Manifesto del partito comunista, Feltrinelli, Milano 2003, p.8 
[12] PELLICANI L., cit. 1979, p.59 
[13] PELLICANI L., cit. 1979, p.60 
[14] PELLICANI L., cit. 1979, p.61 
[15] COLLETTI Lucio, Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1979, p.25 
[16] Per massimizzare i profitti, i capitalisti cercano di accrescere al massimo la produttività del lavoro, costringendo gli operai ad un surplus di ore lavorative rispetto alle ore-valore stabilite dal mercato, un plusvalore che il mercato tende ad aumentare. Il proletario si difende dallo sfruttamento con le proprie organizzazioni di lotta che costringono il padronato ad aumentare i fattori tecnologici (per mantenere il proprio tasso di plusvalore) ed inesorabilmente, assottigliandosi il capitale investito in salari operai (il consumo), il capitalismo è destinato a crollare. Le crisi cicliche sono, quindi, il prodotto di una sfrenata accumulazione e della eccedenza di produzione che determina l’impossibilità di reperimento capitali nuovi da investire, provocando recessioni sempre più lunghe e gravi, fino al crollo finale. Il colpo mortale è però esclusivamente riservato alla classe che, nel suo moto di ribellione dallo sfruttamento, finisce per colpire con inesorabile determinazione l’ingranaggio vitale della produzione capitalistica. 
[17] PELLICANI L., cit. 1979, p.63 
[18] PELLICANI L., cit. 1979, p.68 
[19] BORGES Jorge Luis, Semplicità, Fervore di Buenos Aires, 1923. Si apre il cancello del giardino / con la docilità della pagina / che una frequente devozione interroga / e all’interno gli sguardi/ non devono fissarsi negli oggetti
che già stanno interamente nella memoria. / Conosco le abitudini e le anime / e quel dialetto di allusioni /che ogni gruppo umano va ordendo. /Non ho bisogno di parlare / né di mentire privilegi; / Bene mi conoscono quelli che mi attorniano ,/ bene sanno le mie ansie e le mie debolezze. / Ciò è raggiungere il più alto, / quello che forse ci darà il Cielo:/ non ammirazioni, né vittorie / ma semplicemente essere ammessi / come parte di una realtà innegabile,/ come le pietre e gli alberi. 
[20] YOURCENAR Marguerite, Le memorie di Adriano, Einaudi, Torino 201
[21] FOUCAULT Michel, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977

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