COMPLESSITA': I CODICI DOMINANTI DELLA POLITICA AI TEMPI DEI NETWORK; INFORMAZIONE E/O COMUNICAZIONE



 Vorrei sfatare il mito, che è stato talmente ripetuto da diventare un rito, che alcuni partiti, oggi, fondino il loro consenso sulla paura, o addirittura sul terrore. In genere questi partiti rappresentano fenomeni politici glocali, cioè globali e locali allo stesso tempo, che utilizzano principalmente, prima per emergere dall’anonimato e poi per mantenere l’elettorato, i mass media.
Qualche anno fa, in un’epoca estranea a ogni equivoco di schieramento, Marcuse[1] spiegava che i mass media racchiudono i mezzi capaci di mantenere una forma di totalitarismo che non si fonda sul terrore ma opera attraverso creazioni e manipolazioni di falsi bisogni: di divertimento e di distensione, d’informazione e di consumo individuale, di sicurezza.
Sembra una differenza piuttosto accademica e irrilevante, ma non lo è per niente. Ad esempio, in Italia la stabilità elettorale della lega è spiegata proprio da questa differenza tra lo sfruttamento della paura e l’induzione dei bisogni. Anche la ripetizione ossessiva di argomenti oggettivamente falsi, come ad esempio l’invasione d’immigrati e la frequenza dei reati commessi da stranieri, il rifiuto dei dati reali per insistere ripetutamente su toni assurdi, tracciano proprio la differenza tra il terrore indotto e il bisogno prodotto. I bisogni si radicano in noi indipendentemente dai riscontri effettivi degli slogan proclamati e delle bugie divulgate. Anzi, proprio quelle affermazioni apodittiche e mai documentate imprimono dentro di noi dei bisogni che, soli, possono orientare il nostro comportamento elettorale.
Perché qui si sostiene che questa induzione è pericolosa e, addirittura, totalitaria anche se è certamente più corretto chiamarla autocratica?
Perché la forma della tirannide nella democrazia della comunicazione è il vuoto. Le forme vuote della retorica, il vuoto dell’azione politica fine a se stessa, il vuoto cognitivo e intellettuale, il vuoto d’umanità che accompagna l’efficienza sfrenata, il vuoto tra un potere che prende decisioni tecniche e cittadini che ne subiscono le conseguenze.
Per lo stesso motivo, in un network autocratico contemporaneo i soggetti politici prevalenti sono totalmente privi e scientemente privati di una dichiarata filosofia politica. Scrive Nicola Matteucci che “la filosofia politica ha come campo interpretativo – per usare i concetti del Montesquieu – la natura (la struttura del potere) di un governo e il principio (la cultura politica), che lo anima dall’interno. Non dimenticando che la comunità politica si fonda sul linguaggio, perché è comunità-comunicazione delle esperienze di tutti, e pertanto il suo sapere non è un sapere specifico. La filosofia politica è una filosofia pubblica, che si afferma in una sfera di pubblica comunicazione”[2].
Comunicazione appunto, non informazione; e questa differenza fa tutta la differenza.
L’informazione è un’azione.
La comunicazione è una relazione.
La distinzione tra un concetto e l’altro, ormai nota, è nel feedback, di cui l’informazione non necessita e da cui, invece, la comunicazione non può prescindere. 
La televisione, i giornali, compiono una azione informativa unidirezionale.
La comunicazione in internet o quella telefonica non inizia se qualcun altro non risponde.
La notizia è l’essenza della informazione.
La biunivocità relazionale è l’essenza della comunicazione.

Senza farla troppo lunga, dai Greci in poi, noi sappiamo che la conoscenza non sta nella accumulazione dei dati, ma nello scambio relazionale. Sappiamo di più se parliamo, non se studiamo. Più di tutto naturalmente se studiamo e poi parliamo. Meno di tutto se soltanto osserviamo. So bene che esiste tutta una vasta letteratura sul cosiddetto apprendimento osservativo che sostiene perfettamente il contrario, cioè che l’osservazione è tanto efficace quanto l’azione. È possibile, lo ammetto; ma questo avviene quando l’osservazione è almeno anche una azione di apprendimento. Non succede quando l’osservazione è soltanto uno scrutare o, peggio ancora, un semplice guardare; spesso anche distratto. Socrate era il più sapiente proprio perché, sapendo di non sapere, parlava.
Tuttavia non si tratta soltanto di una questione educativa, cognitiva. Si tratta principalmente di una questione politica. Naturalmente in una società in cui la questione cognitiva è anche una questione politica e, viceversa, una questione politica è anche una questione cognitiva (epipower), questa decostruzione è un po’ forzata. Ci aiuta però a capire meglio il problema.

Il problema è semplice. La comunicazione è il fatto sociale totale delle nostre società complesse. L’informazione è parte della comunicazione. Se resta solo informazione senza una epistemologia di controllo di quanto gli scenari di verità siano corrispondenti ai panorami di realtà, la società tende a comportamenti politici autarchici. Se resta solo comunicazione, senza le opportune informazioni di controllo, la società tende ad un opinionismo populistico teocratico. La democrazia è data da un mix equilibrato, direbbe Cicerone, di informazioni e comunicazioni epistemologicamente controllate e validate.
Se la politica non si pone la complessiva esigenza di un equilibrio integrato tra informazione e comunicazione, noi saremo condannati al populismo mediatico dirompente della Autocrazia: credere di sapere senza mai capire.
Nelle democrazie tradizionali i cittadini avevano una spiccata sensibilità culturale e, dunque, capivano molto più di quello che sapevano. Ho paura che in questa epoca di transizione incontrollata verso la società della comunicazione, un uso non epistemologico (e non pedagogico) dei media, induce gli utenti non più cittadini a sapere molto di più di quanto possano capire.
L’informazione è il luogo dove si raccolgono notizie. In un’epoca di eccessiva produzione mediatica le informazioni costruiscono scenari di verità che non sono quasi mai corrispondenti alla realtà. Spesso servono a nascondere la realtà, ad occultarla. Il surplus informativo trasforma i protagonist in figuranti, senza una relazione di confronto che permetta di individuare la fonte, la motivazione e la validità del messaggio.
La comunicazione invece è uno spazio pubblico di relazione politica in cui si acquisisce la consapevolezza che le informazioni, strette e costrette dentro enormi banche dati, sono necessarie ma non più sufficiente alla conoscenza. In una relazione comunicativa si cerca di scomporre – decostruire – un caso emblematico per comprenderne la regola. Con il rischio di considerare generale un piccolo particolare. Il rischio del sistema delle relazioni comunicative è che una notizia occasionale si trasformi in situazione collettiva; che un fatto irregolare, tramite i mass media, si costituisca come alterazione sociale. Se una madre ammazza il figlio in un paese italiano, non significa che tutti i bambini sono minacciati soltanto perché tutti i cittadini partecipano a macabro spettacolo. La regolarità è che le mamme difendano i figli.  Questa regolarità è la nostra sicurezza. Quella irregolarità non è una alterazione sociale. I nostri figli non sono costantemente minacciati da noi.
Tante informazione senza comunicazione.
Tante micro notizie che non aiutano a capire il macro problema. Sennonché i fenomeni sociali significativi, quelli visibili e incisivi, nel bene o nel male, sono fatti di frequenze, di ricorrenze, di regolarità, non di eccezioni. Il comportamento-comunicazione di ogni soggetto, organizzazione o individuo che sia, è fatto di una miriade di cose permanenti e di rarissime eccezioni. Questo lo sa perfettamente chi è abituato ad analizzare i pattern comportamentali, chi si preoccupa della relazione comunicativa, piuttosto che della azione informativa ormai definitivamente preda di surplus e virus.
Una relazione si costruisce sulle ricorrenze, sui tempi di movimento, sulla toponomastica spaziale, sui modi di dire incontrollati, sul modo di mangiare, di vestire, di ritirare il resto alle biglietterie: su una sensibilità percettiva, cioè, che solo la conoscenza dell’altro e non la semplice tolleranza, può dare.

Nella democrazia all’epoca dei network le relazioni communicative possono fornirci la conoscenza, cioè la professionalità necessaria inserirsi nelle organizzazioni sociali tramite codici di presentazione, codici di influenza, codici di partecipazione. La democrazia non è un atto, ma un trend evolutivo attorno alle relazioni dominanti[3] (fattori morfologici) e si descrive incrociando i connotati ricorrenti.
I nuovi programmi politici hanno valenza se esprimono almeno una nervatura cognitiva sociale e se rappresentano le frequentazioni ricorrenti dei cittadini. In questo senso il potere si esprime soltanto come un codice di dominio. C’è una terminologia superata che mostra bene questa nuova situazione del potere come codice di dominio nella società della comunicazione. Quando si dice che vince le elezioni chi detta l’agenda politica perché orienta il sentiment collettivo, si dice perfettamente la stessa cosa.
Le società aperte, per sopravvivere, come già scrivevo nel 2006[4], devono mantenere una forte ontogenesi: devono essere in grado di cambiare strutture senza cambiare natura. La minaccia permanente alla democrazia rischia di chiudere, con legislazioni speciali, le nostre società. L’unica soluzione che vedo, in grado di reggere in equilibrio informazione e comunicazione è incidere su 3 fattori fondamentali, che danno cioè la forma, che indicano la morfologia variabile dei network: il fattore fiscale, per il recupero delle risorse; il fattore elettorale, per la selezione del ceto politico; il fattore culturale per la produzione delle idee. Infatti, come scriveva Almond “Lo scienziato politico genericamente sa che il controllo politico di una società è solo uno dei numerosi sistemi di controllo sociale, come la religione, la famiglia, la organizzazione economica, ecc… ecc.… Ma forse non si rende conto che compiutamente la forma e il contenuto del sistema politico di una società si modificheranno con la forma e il contenuto del sistema religioso, familiare ed altri sistemi di questa società”[5]. Sono dunque i diversi fattori morfologici che determinano il microclima politico del nostro habitat; anche se agire sui fattori morfologici, nei network, non significa programmare interventi con esiti intenzionali. L’esito della maggior parte dei progetti umani è piuttosto inintenzionali. Tanto meno nell’epoca dei network dove possiamo progettare ma non possiamo assolutamente pianificare.
Le reti comunicative, gli habitat sociali, non possono essere mai il prodotto di un esplicito e programmato piano di uomini che, riunitosi in un gruppo, decidono di costituirsi uno spazio. Nella società della comunicazione i network sociali non sono più fatti da determinati apparati di determinate strutture. Sono funzioni di rete legitimate dal servizio e dalla garanzia che offrono alla integrità e al miglioramento della vita. La governance delle funzioni sopravanza le strutture di governo e reclama nuovi enti governamentali. Ora entriamo, però, in un altro mondo, che probabilmente attraverseremo.
Ci basti, agli esordi di una nuova cosmogonia[6], la coscienza e la conoscenza delle nostre enormi possibilità, così come le ha evidenziate Giovanni Sartori: “L’autocrazia, i dispotismi, le vecchie e nuove dittature, sono il mondo tutto di un colore; la democrazia è il mondo multicolore. Si badi: non la democrazia antica, che fu anch’essa monolitica. È la liberaldemocrazia che viene strutturata sulla diversità. Siamo noi e non i Greci ad aver scoperto come costruire un ordine politico attraverso il molteplice e le differenze”[7].
La nostra responsabilità politica è trovare, di volta in volta, il punto di equilibrio della democrazia ai tempi dei network: sapendo che agli estremi dell’intervallo in cui possiamo agire c’è una autocrazia che informa senza comunicare e una teocrazia che comunica senza informare. 

ooo/ooo


[1] MARCUSE Herbert, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999
[2] MATTEUCCI Nicola, Alla ricerca dell’ordine politico, Il Mulino, Bologna, 1984.
[3] quella cioè che determina il codice comunicativo di dominio
[4] CECI Alessandro, Intelligence e democrazia, Rubettino, Soveria Mannelli 2006
[5] ALMOND Gabriel – POWEL Bingham, Politica comparata, Il Mulino, Bologna 1988
[6] CECI Alessandro, Cosmogonie del potere, Ibiskos, Empoli 2011
[7] Sartori Giovanni, DEMOCRAZIA E DEFINIZIONI, Il Mulino

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