INTELLIGENCE: GLOCAL RELATIONSHIP THEORY - 1 - Introduzione




Introduzione

La denominazione “Teoria dei Giochi” (o come vogliamo chiamarla) è da considerarsi impropria e talvolta inopportuna.
È impropria in quanto si riferisce a una teorizzazione non più legata agli aspetti statici della struttura dei giochi e alle tattiche necessarie per ottenere la vittoria in una qualsivoglia competizione.
È inopportuna quando si riferisce a un corpus di teorie che superano decisamente la dimensione di un gioco, specie successivamente alla grande, enorme dimostrazione della ovvietà, sfuggita fino ad allora alla scienza, con la “Teoria delle Strategie Dominanti” di John Nash.

E poi: che cosa è un gioco?
Ad esempio, quando cominciai ad occuparmi della “Teoria dei Giochi” (o come vogliamo chiamarla), nel lontano 1984, sembrava che il termine fosse troppo frivolo e infantile per la dignità di uno scienziato. Allora si parlava di “modelli di simulazione”, immaginando che un’azione o una relazione fosse programmabile e, peggio ancora, prevedibile in una fase sperimentale a tavolino, come facevano i romani prima di una battaglia. Era l’epoca della introduzione dei computer ed io stesso ho cominciato ad applicare modelli di simulazione – o equivocamente “Giochi di Simulazione” - per il Centro di Ricerca in cui lavoravo, con un vecchio “commodore 64”; che era una scatola meccanica appena superiore ad una calcolatrice, nella tipologia di una play station ante litteram. Si tratta di strumenti di antropologia tecnologica, una differenza molto più pronunciava di quella intercorrente tra l’uomo di Neanderthal e quello che saremo noi tra un migliaio di anni. La tecnologia evolve a ritmi esponenziali, a ritmi talmente veloci che la biologia, sebbene più rapida di ciò che sembrava - proprio forse a causa della modificazione tecnologica dell’habitat (come mostra l’epigenetica di oggi) -, non considera. 

Eppure, con quei rudimentali primi strumenti noi creammo una certa quantità di “giochi di simulazione” nei processi educativi, nella programmazione urbanistica, nella gestione territoriale dell’Energia e l’Ambiente (GEA – ENEA), per la formazione dei manager, imprenditori e cooperatori, per la evoluzione e lo studio degli scenari di geopolitica, perfino un gioco sulle capacità seduttive del conquistatore italiano (Casanova). 

La “Teoria dei Giochi” (o come vogliamo chiamarla), per me, giovane epistemologo, aveva il fascino insuperabile di una metodologia scientifica applicata alle scienze sociali. Un problema che ho studiato da quando, studente universitario, mi sono imbattuto sul testo ancora insuperato di Giovanni Sartori che fa della politica, la logica e il metodo delle scienze sociali[1]. O forse anche prima, quando dovevo decidere a quale facoltà iscrivermi. Un’estate che ancora ricordo bene. Vedevo, di fronte a me una biforcazione e non volevo sbagliare. La schizofrenia scolastica era divisa tra le scienze umanistiche e quelle fisico-matematiche. Per me non andavano bene né le une, né le altre. Nessuna delle due mi sembrava che permettesse di teorizzare con affidabilità – attitudine che mi riconosco da sempre – la realtà della vita quotidiana. In quelle giornate di sole e di scelte, mi capitò tra le mani un articolo della pagina culturale di un giornale che recensiva un vecchio libro di Bertrand Russell sul potere[2]. Si discuteva l’affermazione dell’autore secondo cui il potere sta alle scienze sociali come l’energia sta alla fisica. Non si capisce niente di fisica senza il concetto di energia e non si capisce niente di scienze sociali senza il fondamentale concetto di potere. Già allora ero rimasto affascinato dalla filosofia pragmatica di Cicerone, che per me rappresentava l’applicazione della teoria al vissuto quotidiano. Trovai il testo completo di Russell solo qualche anno dopo in una economica edizione Feltrinelli del 1981. Conservo ancora sia l’articolo e naturalmente il testo come preziosi cimeli della scelta fondamentale della mia vita. Optai per le scienze sociali. E dopo, durante il periodo di lavoro, come specializzazione, per l’epistemologia. Subito dopo la laurea fui chiamato (e indirizzato) a lavorare in un Centro di Ricerca specializzato sulla produzione di tecnologie educative. Sui giochi educativi. Sulla “Teoria dei Giochi” (o come vogliamo chiamarla). Proprio come Marco Tullio Cicerone, mi sentivo un provinciale ciociaro o pontino a Roma, in qualche modo di romano, come descritto perfettamente da Pasolini, “bambino mandato in giro per il mondo solo con il suo cappotto e le sue cento lire, eroico e ridicolo…”[3], nella patria del pragmatismo filosofico e scientifico. Mi sentivo a disagio. Il mio cappotto era troppo grosso ed io troppo piccolo, di età e capacità, per assumermi la responsabilità etica della scienza e la presunzione di cercare una epistemologia affidabile. A differenza dei miei ingenui colleghi avevo precisa coscienza di essere impegnato ad applicare modelli teorici falsificabili alla realtà delle scienze sociali. Ero spaventato e in difesa. Husserl l’ha chiamata la lebenswelt, la scienza della vita[4]. In quel lontano, ma non distante, periodo di prima esperienza professionale, agli esordi, io ero tra le pochissime persone fortunate e squattrinate che si occupavano di queste teorie in Italia. 

Ci conoscevamo tutti. 
Eravamo talmente pochi da incontrarci regolarmente, come in un club, nei canuti convegni che organizzavamo per discutere e per esaltarci. 

Ora come allora, per me la “Teoria dei Giochi” (o come vogliamo chiamarla), ha rappresentato e rappresenta una non esclusiva relazione erotico-sentimentale con la conoscenza scientifica; ma anche, una automatica e attraente illusione che, come tutte le illusioni, non ti abbandona mai. 


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[1] SARTORI Giovanni, Politica, logica e metodo in scienze sociali, SugarCo, Milano 1980
[2] RUSSELL Bertrand, Il Potere, Feltrinelli, Milano 1981
[3] PASOLINI Pier Paolo, in Poesie in forma di Rosa, Garzanti, Milano 1976: “...Ah, raccogliersi in sé, e pensare! / Dirsi, ecco, ora penso – seduti / sul sedile, presso l’amico finestrino. / Posso pensare! Brucia gli occhi, il viso, / dalle marcite di Piazza Vittorio, / il mattino, e, misero, adesivo, / mortifica l’odore del carbone / l’avidità dei sensi: un dolore terribile / pesa nel cuore, così di nuovo vivo. / Bestia vestita da uomo – bambino / mandato in giro solo per il mondo, / col suo cappotto e le sue cento lire, / eroico e ridicolo me ne vado al lavoro, / anch’io, per vivere... Poeta, è vero ,/ ma intanto eccomi su questo treno / carico tristemente di impiegati, / come per scherzo, bianco di stanchezza, / eccomi a sudare il mio stipendio, / dignità della mia falsa giovinezza, / miseria da cui con interna umiltà / e ostentata asprezza mi difendo.../ Ma penso! Penso nell’amico angoletto, / immerso l’intera mezzora del percorso, / da San Lorenzo alle Capannelle, / dalle Capannelle all’aeroporto, / a pensare, cercando infinite lezioni / a un solo verso, a un pezzetto di verso. / Che stupendo mattino! A nessun altro / uguale! Ora fili di magra / nebbiolina, ignara tra i muraglioni / dell’acquedotto, ricoperto / da casette piccole come canili, / e strade buttate là, abbandonate, / al solo uso di quella povera gente. / Ora sfuriate di sole, su praterie di grotte / e cave, naturale barocco, con verdi / stesi da un pitocco Corot; ora soffi d’oro / sulle piste dove con deliziose groppe marrone / corrono i cavalli, cavalcati da ragazzi / che sembrano ancor più giovani, e non sanno / che luce è nel mondo intorno a loro..”.
[4] HUSSERL Edmund, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2015

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