CROSS-CUTTING CLEAVAGES NEL MEDIOEVO



A differenza di tanti autorevoli storici e raffinati intellettuali – tra cui indubbiamente Umberto Eco, Jacques Le Goff e Fernard Braudel – io credo che il medioevo non possa essere riabilitato: può essere certamente rivalutato, ma assolutamente non può essere riabilitato.  Perché il medioevo è stato, forse non l’unica, ma la più definitiva azione politica di ri-tribalizzazione dell’era moderna[1]. 1000, 1200 anni di riformattazione del pensiero dell’Occidente e di evaporazione della storia precedente. Circa il 50% degli anni che contiamo a partire dalla convenzionale nascita di Cristo. E questo “partire dalla nascita di Cristo”, per quanto convenzionale, nel conteggio del tempo, nella storia del mondo, è la più emblematica prova della fortissima pervasività della ri-tribalizzazione medievale.
Nel vocabolario della lingua italiana tribalizzazione è un termine antropologico, o più specificamente etnologico, che indica quella funzione complessiva indispensabile per fornire, ad una determinate popolazione in un determinate habitat sociale, i caratteri e la identità di una tribù. La tribalizzazione è una fondante funzione sociale che serve a conferire quei connotati di riconoscimento che raffigurano e rappresentano la propria etnia.
Il termine è stato esteso e sdoganato dalla mera accezione antropologica specialistica da Marshall McLuhan[2] che, con l’ansia di descrivere il villaggio globale generato da media caldi e freddi, parla appunto di una vera funzione di ri-tribalizzazione: una generale ricostruzione dei connotati identificativi di una tribù globale.
Se, come sostiene Popper, l’Antica Grecia (tra il VI e il IV secolo a.C.) rappresenta la conclusione di un enorme processo di detribalizzazione - dal mio punto di vista iniziato con la mutazione politica dell’Egitto e i meccanismi politici della verticalizzazione del potere[3] -  finalizzato “non soltanto a tentativi di conservare e di arrestare il tribalismo con la forza, come a Sparta, ma anche a quella grande rivoluzione spirituale, l’invenzione della discussione critica e, conseguentemente, del pensiero libero da ossessioni magiche[4], il medioevo rappresenta una enorme inversione di tendenza, una ri-tribalizzazione appunto, il tentativo perfettamente riuscito di ripristinare le ossessioni del pensiero sacro-magico e una serie di azioni e reazioni politiche per affermare un nuovo tribalismo evangelico con la forza.
Questa ri-tribalizzazione è spesso avvenuta nella storia, talvolta in modo più leggera e circoscritta a causa di piccoli mutamenti, talaltra più ampia e fondamentale a causa di grandi mutazioni.
Tuttavia il medioevo rappresenta un evento molto più incisivo. Non soltanto perchè fu una delle macellerie più fornite della storia. La fitness evolutiva della nostra specie è piena di sanguinolente macellerie. Come dice il poeta: “Più vile di un lupunare / la macelleria sigilla come un affronto la strada”; una macelleria che prolifica proprio nei grandi momenti di ri-tribalizzazione, quando il martirio “possiede il sabba / di carne sgargiante e marmi finali / con la remota maestà di un idolo.[5]. il Medioevo ha rappresentato proprio l’imposizione della “remota maetsà di un idolo”.
Il Medioevo è stata una ri-tribalizzazione particolarmente incisiva perchè il cristianesimo, con la furia iconoclasta dei suoi primi secoli, ha tentato di abolire il passato e resettare interamente il pensiero. Il cristianesimo ha immaginato di formattare la storia, di fare tabula rasa e ricominciare da capo. Ha provato ad eliminare ogni narrazione che l’ha preceduta classificandola come blasfemia e ha cercato di costruire, tramite miti e riti, un nuovo archetipo collettivo. E in gran parte, il cristianesimo, è riuscito nei suoi intenti politici applicati pedissequamente per tutto il Medioevo.
Carl Gustav Jung, secondo me involontariamente, ha descritto la situazione alla perfezione. Egli contesta la vecchia idea della Tabula Rasa di Locke. Ogni  bambino eredita una concezione preformata nell’archetipo collettivo.  Ciascuno vive dentro il suo archetipo, dentro cognizioni predeterminate ed esperienze vissute. L’archetipo è la sintesi prima e ultima del processo psichico individuale e di quello dell’intera specie umana: “… è la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura cerebrale”.
L’archetipo è l’universale integrazione di ogni sintattica e di ogni semantica. Nell’archetipo sono depositati i connotati di ogni tipologia logica, psicologica e comportamentale, i caratteri personali, delle azioni e delle reazioni degli esseri viventi fin dai primordi. Infatti, proprio le immagini ancestrali collettive si dicono archetipi o categorie ereditarie, perché sono comuni e presenti, attraenti e accoglienti in quanto dotate di contenuto affettivo. Nevrosi e visioni, alterazioni e allucinazioni dello psicotico, si alimentano di queste immagini archetipiche.  Quando l’uomo smarrisce il rapporto con le sue radici, il collegamento con il proprio archetipo, cade in malattie psichiche, o percepisce insuperabili problemi di vita quotidiana. Sconnettersi dalle concezioni del passato, durante l’esperienza del presente, significa sconnettere la verità trasmessa dalla realtà vissuta. Alla fine allora ogni uomo è il complesso e il complessivo della storia della intera umanità. Un archetipo descrive la condotta che ciascuno dovrebbe seguire. Alcuni suoi meccanismi ricorsivi sono costituiti dalle storie raccontate dai primitivi. Altri sono rappresentati dall’istruzione, che pure viene impartita mediante la narrazione di storie. Altri meccanismi ricorsivi sono ancora i racconti mitologici (oggi addirittura mediatici) e non più soltanto riferiti al passato, ma anche al futuro e principalmente alla mitologia del presente che la comunicazione di massa comunque produce. Nei miti troviamo i modelli di uomini distinti, di eroi leggendari e di valore, i santi, i martiri, che hanno insegnato come comportarsi: sono archetipi, archetipi di comportamento. L’archetipo è una specie di incantesimo, una potenza che si impadronisce di noi in ogni momento. L’archetipo, come ogni struttura conservativa, ha sempre rappresentato la sedimentazione, la cristallizzazione della energia trasmessa dalle esperienze degli avi. È sempre stata di natura ereditaria. Oggi quella stessa energia è senza tempo, prodotta mediaticamente in un presente infinito. Ora come allora questa energia che conserviamo in strutture interne, non è l’esperienza in sé che ci viene trasmessa, ma le categorie logiche, aprioristiche, che rendono possibili le esperienze individuali. “Io concepisco come archetipo – diceva Jung - una qualità strutturale o condizione che è caratteristica della psiche legata in qualche modo con il cervello”.
Come si iscrive o ri-iscrive un archetipo?
Con un rapporto dialettico integrato tra la struttuta del mito e la funzione del rito.
Il mito è una struttura conservativa della semantica del mondo: Oggi noi pensiamo di poter nascere e vivere senza il mito, senza la storia, tuttavia è soltanto un morbo, è assolutamente innaturale perché l’uomo non nasce tutti i giorni, nasce una volta sola e in uno specifico contesto storico con qualità storiche specifiche, di conseguenza è completo soltanto se instaura una relazione con questi elementi, altrimenti è come nascere senza occhi ed orecchie quando si cresce senza conservare alcun contatto con il passato”. Il mito è una struttura conservativa di energia perché è il fondamento psichico dell’anima inconscia. L’anima si fonda sul mito e non sulla religione proprio perché il mito è in condizione di conservare energia mentre la religione non necessariamente.  Il cristianesimo è riuscito, nel Medioevo, a ri-iscrivere l’archetipo collettivo del mondo sostituendo ai miti pagani del politeismo i miti del cristianesimo e del cattolicesimo. Il cristianesimo, per dirla con Jung, ha voluto appropriarsi dell’anima del mondo. Per fare questo doveva necessariamente ri-iscrivere, ri-tribalizzare, l’archetipo collettivo: le uniche radici ancestrali, presenti nell’inconscio collettivo, a cui gli uomini devono connettersi per mantenere il proprio equilibrio. Jung ha postulato l’esistenza, all’interno dell’inconscio, di uno strato filogenetico presente in ciascun essere umano, costituito proprio dalle immagini mitologiche che ha denominato immagini primordiali. Questo strato filogenetico, questa traduzione del mito in archetipo e dell’archetipo in mito, è possibile soltanto perché il mito è la manifestazione psichica della rivelazione dell’essenza dell’anima, al tempo stesso, unica e propria del tempo e del luogo che la crea, eppure mai del tutto soggettiva, giacché influenzata dall’innatismo di elementi universali. Questo è possibile soltanto perché l’energia conservata nella struttura del mito è sia quella trasmessa dall’archetipo sia quella acquisita nell’archetipo dal posizionamento e dall’esperienza. Grazie alla duplice possibilità trasmissiva e acquisitiva Jung ha potuto pensare che l’archetipo fosse in grado di produrre novità nell’inconscio, oltre che configurarsi come fondamento originario della mitologia.
Il rito è, invece, una funzione che rafforza il mito, un meccanismo ricorsivo che serve a stabilizzarle strutture conservative, come il mito, nell’archetipo collettivo. Il rito conferisce un’alta tonalità affettiva di sacralità al gesto, al luogo e alle persone; a condizione di una grande fede in una causa divina, magica o spirituale. “Non posso tornare alla chiesa cattolica, non posso sperimentare il miracolo della messa; so troppo al riguardo. So che è la verità, ma la verità in una forma che non posso più accettare” (C. G. Jung). Il rito rappresenta una sorta di dramma esistenziale in forma ridotta. Al suo interno non c’è alcun concetto di tempo. È una condizione senza tempo in cui l’inizio, la fase mediana e la conclusione sono la stessa cosa, sono tutte comprese in una singola unità. L’uomo nasce con uno specifico modello operativo, una specifica modalità operativa, uno specifico modello di comportamento che si esprime mediante immagini o forme archetipiche.


È evidente, dunque, che la più alta espressione di questa ri-tribalizzazione è stata la patristica: l’idea cioè che tutta la fenomenologia esistente fosse riconducibile e interpretabile esclusivamente tramite i testi sacri dei padre fondatori del cattolicesimo (perché i padri fondatori del cristianesimo a rigore non esistono). La patristica ha tentato, cancellando i miti di tutte le religioni profane precedenti e instaurando i propri esclusivi miti con ritualità ossessive e invasive.
Tutto ricomincia dai testi sacri.
Ogni precedente è totalmente annullato, evaporato, inesistente.
La patristica allora si impegna a riconfigurare l’archetipo collettivo elaborando razionalmente le credenze religiose del cristianesimo. Era la narrazione politica della dottrina cristiana contro le idee pagane e le eresie. Nessuno aveva mai raggiunto la verità dimostrata dai Padri della Chiesa, di quella ragione universale rivelata da Dio, tramite il figlio, agli unici interpreti, e iscritta nei testi Sacri della religione. È emblematico che, della filosofia greca, l’unico autore che ci fu permesso di acquisire fu Platone, per le affinità tra la religione cristiana e le sue teorie (specie sulla fondamentale importanza della religione, sul rispetto di Dio e sulla immortalità dell’anima). Aristotele, che pure credeva inequivocabilmente in un motore immobile (su cui sono state costruite le 5 prove dell’esistenza di Dio di Tommaso d’Aquino), è stato tradotto soltanto nel 1200 e per mano araba. La patristica ha cancellato tutti gli altri filosofi, intellettuali, scienziati non in sintonia con il fondamentalismo cristiano e che, forse, avevano anche qualche rilevanza intellettuale superiore.
Di tutta la Patristica, Agostino da Ippona, il principale avversario di Tommaso d’Aquino, fu certamente il teologo più rappresentativo e influente. Secondo Catherine Nixey “nel 401 d.C. Agostino disse ai cristiani di Cartagine di distruggere gli oggetti pagani perché, affermò, era ciò che Dio voleva e comandava[1].
La patristica è stata una filosofia perfettamente funzionale alla ri-tribalizzazione del pensiero. Si tratta, non di una ricerca, come spesso si sostiene, della verità, ma l’impostazione e l’imposizione di una nuova verità sulla realtà. E questa verità non può che sorgere, appunto per la funzione che deve assolvere, dalla parola di Dio rivelata, interpretandola e applicandola.
I “padri della Chiesa” erano gli artefici di una nuova narrazione politica che si svolse in 3 fasi:
·         apologesi, che rappresenta la prima fase della divulgazione della narrazione politica, aggressiva contro i pagani;
·         radicalizzazione, che consiste nella produzione del fondamentalismo, cioè nell’applicazione estremizzata (radicale) dei concetti scritti sui testi sacri, la fase della predicazione indispensabile alla strutturazione nell’archetipo collettivo della nuova filosofia politica;
·         rielaborazione, che consiste nella fase di riqualificazione dei postulati delle Sacre Scritture e nella loro restaurazione nelle procedure di organizzazione sociale.


Ogni mutamento, ogni mutazione e sicuramente ogni tribalizzazione produce i suoi unici e particolari cleavage. Per questo motivo, le epoche storiche sono scarsamente comparabili. Il popolo non è sempre lo stesso e le classi della rivoluzione industriale non sono comparabili con gli schieramenti di epoca romana. Ogni epoca storica ha i suoi schieramenti e i suoi cleavage.
Un cleavage è una frattura sociale, una linea di divisione tra distinti schieramenti di vario genere e tipologia. Quando queste line di frattura sociale si intersecano tra di loro e s’incrociano, si parla di cross-cutting cleavages.



Per primi Lipset e Rokkan, nel 1967 hanno scritto un testo sulle strutture di separazione: i partiti e gli allineamenti elettorali.
La Cleavage Analysis ha prevalentemente carattere storico e descrive gli schieramenti politici sulla base della struttura del sistema sociale di riferimento. Il cleavage, come sosteneva Maurice Duverger, è un Giano bifronte[1] che produce conflitto e che, al tempo stesso, determina integrazione nel sistema politico reciprocamente tra le parti contrapposte. Il Giano era l’immagine iscritta sulle monete romane, le due facce del conflitto e della integrazione; il conflitto che produce compromesso e integrazione. Da un lato si contrappongono, dall’altro indirizzano il conflitto entro canali espressivi. I cittadini si allineano lungo i margini di definite fratture sociali che, cristallizzando le posizioni politiche, producono una loro istituzionalizzazione. Questo può accadere soltanto perchè i gruppi contrapposti si definiscono come subculture, ciascuna delle quali rivendica un potere aggiuntivo e difende la propria area politica. Lipset e Rokkan hanno elaborato uno schema denominato AGIL, che disegna un cross-cutting cleavages su due dimensioni politiche precise: quella esterna – relativa alla funzione di «Adattamento»  (A) e al raggiungimento degli «obiettivi-Goals» di parte (G) – e quella interna – relative alla funzione di «Integrazione» (I) e alla funzione «Latenza» (L) -.



Nel medioevo possiamo contare un cross-cutting cleavages composto da:
1.       Un cleavage ideologico, rappresentato dallo scontro storico tra l’ideologia islamica e quella cattolica, due fondamentalismi a sostegno delle reciproche teocrazie, la cui divisione fondamentale è nel significato e nel ruolo del proprio profeta di riferimento: Maometto è profeta e messaggero di Dio, mentre Cristo è il Dio fatto uomo per salvare l’umanità dai peccati.
2.       Un cleavage territoriale, lo scontro descritto da Jacques Le Goff tra la rete delle diocese urbane e la rete dei monasteri, tra centro e periferia, tra la nomenklatura della chiesa e i nuovi ordini religiosi.
3.       Un cleavage teologico, la distinzione tra patristica e scolastica, tra la derivazione cristiana del paradigma platonico e la traduzione reinterpretata del paradigma aristotelico, con la diffusione delle scuole e del metodo di insegnamento e la realizzazione delle prime università.
4.       Un cleavage istituzionale, lo scontro continuato e costante tra l’imperatore e il papa, tra il potere temporale della Chiesa e il potere politico del Monarca,
5.       Un cleavage epistemologico, tra agostiniani e domenicani sul ruolo della scienza, se dovesse essere ancella della verità religiosa o se la verità religiosa dovesse essere riformulata in relazione alle scoperte scientifiche, cioè se Dio fosse il fenomeno complessivo dell’esistenza o se Dio fosse in ogni fenomeno esistente.


Naturalmente non è questa la sede in cui articolare dettagliatamente le ragioni di ogni singolo cleavage. Possiamo, invece, facilmente comprendere (e questo è il senso del testo successivo) che Tommaso D’Aquino si posizionò al centro di tutto il cross-cutting cleavages, cercò di gestire contemporaneamente tutti i cleavages che si intersecano e si incrociano, in qualche modo si connettono in un tipico network conflittuale d’epoca.  Marsilio invece sta su un solo cleavage, quello istituzionale, lo scontro tra Imperatore e Papa, proponendo “la teoria dei due soli”, con il Papa in cielo e con l’Imperatore in terra, a cui è appunto affidato il ruolo giuridico di defensor pacis.
Per questo motivo dunque, il primo fu assassinato (come qui si ipotizza) e l’altro no: perché il primo, che tentava una scalata al potere della Chiesa, era una minaccia che poteva trasformarsi in un rischio per i diversi soggetti partecipanti al cross-cutting cleavages. Il secondo era un medico, che costituiva ancora una minaccia (come pure tutti i dissenzienti), che tuttavia non era un rischio per nessuno visto che i rapporti di potere e di influenza tra il papa e l’imperatore erano piuttosto costituiti da fatti storici e atti politici.


Non possiamo sapere se Tommaso d’Aquino fu effettivamente assassinato. Come d’altronde nessuno può davvero sostenere che sia morto per una improvvisa malattia.  Certo l’ipotesi del crimine compiuto dai nemici di Tommaso è romanzata nella dinamica degli eventi, ma non è detto che sia destituita di fondamento. Anzi, non lo è per niente. Ci sono molte più ragioni storiche favorevoli alla eliminazione dello scomodo Tommaso, di quanto non siano i referti medici sul suo stato di malessere fisico. Ci sono più testimonianze della sua uccisione di quante non siano quelle relative al suo stato terminale medico. E poi, più di tutto, ci sono i tantissimi comportamenti simbolici della Chiesa cattolica successivi alla sua morte che inducono legittimamente a credere ad un opportuno intervento riparatore della provvidenza divina.
Nell’un caso e nell’altro, ad eliminare dalla Terra Tommaso, che disturbava il potere del cattolicesimo, della patristica, dei vescovati, del papa, della fede contro la ragione, ci ha pensato Dio.


[1] NIXEY Catherine, Nel nome della croce, Bollati Boringhieri, Torino 2018
[2] McLUHAN Marshall, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967
[3] CECI Alessandro, Cosmogonie del potere, Ibiskos, Empoli 2011
[4] POPPER R. Karl, La società aperta e i suoi nemici,
[5] BORGES Jorge Luis, La macelleria, in Opere, vol. I, Mondadori, Milano …, pag. 
[1] Nixey C., cit. 2018, pag. 143
[1] DUVERGER Maurice, Il Giano, le due facce dell’Occidente, Edizioni Comunità, Milano 1972 

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