COMPLESSITA': LA RELAZIONE RESPONSIVA
un deficit politico delle mutazioni
sociali
intervento alla presentazione del Libro
“La Relazione di cura medico-paziente”
Mestre
ventunofebbraioduemiladiciannove
Premessa
Una volta, molti anni fa, precisamente 13 anni
fa, nel 2006, scrissi un libro per le edizioni Rubettino[1] in cui si analizzava, tra
le altre cose, il passaggio dal principio di rappresentanza alla relazione
responsiva nella transizione politica della società contemporanea.
Intendevo per relazione responsiva quella
particolare situazione elettorale in cui un input immesso nel mercato
dell’utenza politica riceve con prontezza, anche se non con immediatezza, un
output in termini di consenso o di dissenso politico, non si sa da chi, non si
sa da dove.
Nelle democrazie liberali c’era il rapporto
di rappresentanza in cui un politico veniva eletto in quanto rappresentante di
una categorie, di un gruppo sociale, di un territorio di riferimento, di una
classe. Il rappresentante politico, nelle democrazie liberali, doveva in
qualche modo rispondere al rappresentato per i comportamenti assunti nel
periodo in cui era circoscritta la delega politica. Nella democrazia liberale
il ceto politico era responsabile ai suoi elettori. Sebbene, come sosteneva
Rousseau, tra una elezione e l’altra gli elettori fossero schiavi dei loro
stessi rappresentanti, alla fine però, a loro dovevano rendere conto
dell’operato svolto, se volevano essere rieletti
13 anni fa denunciavo che, con l’avvento
della società della comunicazione, questa situazione, tipica delle democrazie
liberali, si perdeva definitivamente. Scrissi letteralmente che per
responsività, in generale, si intende “la
capacità dell’organismo di adattare all’ambiente le proprie funzioni vitali; nel
caso specifico, il rapporto che si determina non tra soggetti politici, ma tra
domande (input) e risposte (output). Il vincolo di fidelizzazione tra un
partito e i suoi militanti tende ad essere superato. Responsività è
l’attitudine che ogni organismo ha di rispondere, ossia reagire adeguatamente,
a tutte le esigenze che gli sono imposte, in cui vive.”[2]. Continuavo distinguendo 5
tipologie diverse di responsivenes fino
a denunciare la costituzione, anche attraverso strutture di intelligence, di “centri di influenza e di pressione simbolica”[3]. Denunciavo che, a causa
della indeterminatezza dell’elettore, nella “relazione responsiva possono proliferare i rischi”[4] e le minacce della
degenerazione democratica della società della comunicazione. E concludevo: “Io credo che nemmeno i grandi filosofi della
democrazia … abbiano ben compreso la portata della quarta transizione:
l’avvento della comunicazione come agente di modernizzazione. Alla forma del
sistema politico si è sostituita l’azione politica che forma i network”[5].
Sbagliavo.
Non l’azione ma la relazione politica forma i
network; perché un network è fatto di connessioni tra poli.
Oggi sembra a tutti noi un discorso quasi
ovvio.
Allora non era così e il mio libro veniva
giudicato o una scatola vuota o incomprensibile.
Non c’è nemmeno troppo da recriminare.
D’altronde, se uno vuole dire cose nuove, deve dire le cose che non si dicono,
quelle che si ignorano.
Sono passati 13 anni ma quel discorso vale
ancora e si rinnova.
La forma e l’organizzazione
In realtà, lo scontro tra la forma e l’azione è di antica provenienza e
quasi un dominus nella filosofia
politica.
Ha cominciato Cristo, se mai è esistito, o chi per Lui, proponendo una
società senza forme, senza istituti e senza istituzioni, costruita interamente
sulla relazione tra se stessi e gli altri in cui possiamo, dobbiamo,
riconoscerci. La società cristiana è una società interamente relazionale,
governata dall’accoglienza di se stessi tramite gli altri e degli altri tramite
se stessi, attraverso una generale e generalizzata relazione d’amore.
Direi che questa è una connotazione tipica delle religioni di matrice
araba. Nemmeno i monoteismi sono tutti uguali. Le religioni di provenienza
araba, nella loro matrice primigenia, tendono a destrutturare le forme organizzate.
Il cattolicesimo invece ha acquisito una concezione politica occidentale
costruita quasi interamente sulla forma e sul principio di rappresentanza. Il
Papa è appunto il rappresentate di Dio in terra. Sono organizzazioni verticali,
fatte di ruoli, funzioni e prestazioni indispensabili al contenimento del
potere. La leadership cattolica è il prodotto della organizzazione e della rappresentanza politica. La leadership
cristiana era il prodotto della relazione
e della partecipazione sociale. Il cristianesimo si riconosceva nell’altro, che
è il volto di se stessi. La leadership islamica è, invece, il prodotto dell’azione e della rappresentazione. Ogni
islamico pensa: “io sono Maometto e la
Sunna è la mia guida”. Ogni azione
islamica deve rappresentare (nel senso di mostrare e dimostrare) questo
assioma: vietato giocare; vietato mangiare diversamente da come era solito fare
il profeta; vietato tutto ciò che è vietato dalla Sunna; la lunghezza della
barba è calcolata con i centimetri di lunghezza del profeta; i vestiti sono gli
stessi del profeta; dello stesso colore; perfino la dizione è una imitazione
della dizione tradizionale. Soltanto azione e rappresentazione. Il
cattolicesimo, al contrario, è organizzazione e rappresentanza. Cristianesimo,
però, se fosse stato ciò che avrebbe dovuto essere (e non è stato), sarebbe
stato interamente ed esclusivamente relazione e partecipazione. Pertanto, il
cristianesimo e l’islamismo hanno dovuto dotarsi di leadership situazionali
legittimate da principi morali (l’islamismo) o etici (il cristianesimo). Il
cattolicesimo, essendosi a suo modo occidentalizzato, ha realizzato leadership
funzionali di strutture gerarchiche legittimate dalla appartenenza (il
battesimo) e dalla identificazione.
Come vedremo: in quanto l’islam è azione, è informazione e notizia; in
quanto il cristianesimo è relazione, è comunicazione e cognizione; in quanto il
cattolicesimo è organizzazione è narrazione e concettualizzazione.
Per tanti anni questo scontro è stato vinto, direi dominato, dalle organizzazione
e dalla loro forma istituzionale. Il logos
politikos è passato interamente dentro le forme per circa 6000 anni. Tutta
la cultura egiziana è una cultura delle forme, le forme verticali e piramidali.
I due assiomi fondamentali erano:
·
la esaltazione osannata del
Faraone, Dio e uomo, ma non dio fatto uomo. Il Faraone è Dio e uomo al tempo
stesso, proprietario dei sudditi e di ogni altra cosa. Una concezione che, per
me, come ho scritto in un altro libro del 2011[6], è il presupposto di tutti
e 3 i monoteismi noti;
·
l’altro assioma politico degli
egiziani era quello relativo alla cultura dei morti, l’idea ossessiva, cioè,
che bisognasse seppellire i propri genitori e se stessi nel luogo in cui si era
nati. Una ossessione a cui dedicare lìintera vita e che probabilmente è il
fondamento culturale delle polis greche.
Le polis greche poi sono l’esaltazione della forma e della
organizzazione politica. Nascono sulla base di leggi di fondazione, leggi che stabiliscono
i connotati delle varie città secondo 3 principali categorie: il governo di
uno, la Monarchia; il governo di pochi, l’Aristocrazia; il governo di molti,
dei molti demos in cui era divisa Atene, la Democrazia.
Improvvisamente e forse per vendetta, Platone dimentica una delle 3
forme politiche con cui si organizzavano le polis, quella democratica, e
trasforma così il logos tripolitikos in
logos duopolitikos: la Repubblica e la Monarchia. Sarà Seneca poi a
dimenticare opportunamente la repubblica, a farci passare al logos monopolitikos, soltanto la Monarchia.
Da allora il problema politico è diventato quello della legittimazione del
potere: se cioè la legittima attribuzione al comando fosse una concessione di
potere da parte del popolo o da parte di Dio. Successivamente Machiavelli
ripristinerà la forma del logos
duopolitikos, principato e repubblica; finchè Bodin e Hobbes torneranno al logos tripolitikos della Monarchia,
della Aristocrazia e della Repubblica, sebbene restasse il problema centrale
della legittimazione del potere, da parte di Dio (per Bodin), da parte del
popolo con il contratto sociale (per Hobbes).
Sempre organizzazione, sempre forma. Un percorso che si conclude in
qualche modo con il maggior interprete contemporaneo del pensiero
liberale, Hans Kelsen che appunto
afferma che la democrazia è la forma[7].
L’azione e la relazione
Dopo tanti anni, studiando il totalitarismo come nuova realtà politica
del novecento, Hannah Arendt, ci ha informato che l’epoca della forma e delle
organizzazioni era definitivamente conclusa. L’affermazione è: “ la politica nasce nell’infra e si afferma
come relazione”[8].
Dopo tanti anni, una donna, una grande filosofa moderna, ripristina nel
pensiero occidentale, nonostante il suo ebraismo ateo, il messaggio di Cristo,
nel bene e nel male: prima dei network, ci dice che i network sono il prodotto
delle connessioni e che la loro morfologia è variabile, in funzione della
interazione e della integrazione delle sue componenti. È nell’infra, in cui gli
umani agiscono, che si costruiscono queste relazioni sociali e politiche.
Inizia l’epoca dell’azione e
della relazione.
La relazione, come voleva Georg Simmel, è il fondamento sociale dei
network. Tanto è vero che la protesta moderna è “l’anima della forza desituante dell’atopia”[9].
Si intende per condizione atopica quello stato che “deriva dal non riconoscersi o dal non sentirsi riconosciuto come
appartenente e adatto a un luogo circoscritto e definito”[10].
Si tratta di una vera e propria protesta politica, quella dei ritirati sociali,
degli hikikomori, dei NEET. Sono individui rimasti da soli che scivolano nel
vuoto dell’assenza di relazione, nel silenzio e nella estraneazione della
liminalità. Non è una classe, non è un gruppo, non è un ceto, néuna
associazione sindacale o religiosa. Sono persone abbandonate perché malate o
emarginate, escluse dai ritmi della quotidianità e sole. Debolezze che
desiderano una cura spesso soltanto per sentirsi in contatto, per sperare di
essere riconosciuti.
Ecco, noi dovremmo evitare che, a causa
della informazione specializzata, a causa dell’annullamento della comunicazione
relazionale e della estraneazione del setting, dovremmo evitare la solitudine
del malato patoligizzato, uomini che scivolano nel vuoto della solitudine e
della alienazione perché, sapendosi malati, sentendosi privati del bene
prioritario della salute, sono insicuri. Hanno paura. Paura di morire.
Riporto sempre, quando parlo della fondamentale centralità della
relazione nella società contemporanea un racconto di Vaclav Havel[11], il quale si chiede,
andando al mercato, come mai appariva scritto sul banco delle mele la scritta
enfatica: “il comunismo è bello”.
Credo che il suo interrogativo spieghi benissimo cosa avviene, non solo nella
politica, ma nella società mediatica in cui viviamo. Il totalitarismo
comunista, con quello slogan ci forniva una informazione inequivocabile e,
principalmente, indubitabile.
L’informazione è una news senza relazione.
La comunicazione è una relazione che seleziona news.
Il rischio e la minaccia di nuovi strumenti di oppressione, più
sofisticati e meno evidenti, penetranti, direi, pervasivi è proprio nella
distinzione tra informazione e comunicazione. È la stessa differenza che c’è
tra un fatto e un atto giuridico. Un fatto giuridico avviene indipendentemente
dalla manifestazione di volontà, avviene da solo e produce effetti giuridici.
La comunicazione non esiste senza una volontà di comunicare. La televisione, ad
esempio, emette continue informazioni in cui chi parla può o non può essere
ascoltato, l’azione resta. Il telefono no, se non c’è la relazione l’azione non
parte nemmeno. Il cinema è informazione. Il teatro è comunicazione. Paul
Watzlawick sbagliava. La volontà di non comunicare non è ugualmente una
comunicazione. È una informazione. E questa differenza fa tutta la differenza.
Nella realtà contemporanea, in primo luogo, sia l’informazione che la comunicazione
superano la dimensione politica, sono esorbitanti, travolgono la società
intera. Addirittura la società si forma dentro la sindrome di Shannon,
l’ingegnere che ha inventato il mitico bit. È una sindrome da surplus di
informazioni che soffocano la comunicazione.
In secondo luogo, l’informazione, quest’azione senza relazione, diventa
facilmente un atto totalitario, un potere esercitato che non permette critica,
che genera doxa ma non epistemè, notizie senza conoscenza e
quindi omologazione e affidamento da parte dell’utente.
In terzo luogo, la comunicazione, questa relazione che non si afferma se
non agisce, produce una vacua e insignificante delegittimazione dei ruoli e
delle funzioni, un potere critico invalidante che disorienta perché non sa
selezionare notizie, una enormità ideologica che non ammette né accetta
falsificazioni.
Naturalmente, in epoca di logica quantistica, sono assolutamente
fondamentali i dosaggi: quante informazioni (azioni) ci sono nella
comunicazione e quanta comunicazione (relazione) c’è nelle informazioni che si trasmettono
e si compongono per generare una nuova forma sociale (organizzazione).
La relazione di
cura
Questo dosaggio, in epoca di logica quantistica, riguarda principalmente
il rapporto tra medico e paziente, riguarda la cura.
Si chiede al medico di diventare altro?
No.
Si chiede di considerare la relazione come un elemento di cura e quindi
di integrare il loro team e la loro terapia con professionalità in grado di
gestire la relazione come cura. Si chiede di abolire la rigida cornice del
paradigma professionale. Si chiede di risolvere il problema scientifico della
relazione fondendo diversi orizzonti conoscitivi. Si chiede di integrare
diverse ma utili competenze: come le scienze matematiche e fisiche, per le
statistiche, ad esempio; le scienze biologiche per le analisi; quelle umane per
la significazione delle esperienze; quelle sociali per la organizzazione e
l’assistenza del servizio.
Quanti sono i medici che semplicemente informano i pazienti senza
comunicare con loro?
Tanti. Sono medici che agiscono sulla base della forma, convinti di
rispettare il loro ruolo, di tutelare la loro professionalità e di proteggere la loro competenza. Non
agiscono dentro una relazione con l’altro. Il loro linguaggio è specialistico
ed escludente. Serve a rafforzare il loro potere.
Il fatto è che questi bravi professionisti, come molti altri, non si
rendono minimamente conto che il rifiuto di comunicare, di gestire la relazione
comunicativa è un deficit profondissimo per la stessa loro conoscenza. Ormai
viviamo, come ho già detto altre volte, nella società del passaggio dal Know-how al Know-out. La conoscenza
non è più in noi, è nel dominio relazionale in cui siamo immersi, nel campo
cognitivo che ci supera e ci assorbe. Anche le nostre capabilities tecniche o specialistiche, addirittura il cervello, è
ormai fuori dal corpo, dalla sua stessa fisicità, in un network che è al tempo
stesso relazionale e cognitivo; che è cognitivo proprio perché è relazionale.
In quel network c’è tutta la nostra intelligenza che, come voleva Piaget,
organizza il mondo organizzando se stessa[12]. La fusione di orizzonti,
come diceva Gadamer[13], cambia notevolmente i percorsi della
conoscenza nella società. Ci estendiamo sempre di più dentro concetti
metodologici di pluri-problematicità e di multidisciplinarietà. Infatti sempre
più ci si avvicina a forme nuove di studio, come la possibilità di iscriversi
contemporaneamente a corsi di laurea omogenei tematicamente. Non più
imprigionati dentro una cornice di un paradigma incommensurabile kuhniana. Non
più ossessionati dalla demarcazione e dalla oggettivazione delle asserzioni,
delle congetture e delle confutazioni di un assorbente ed escludente problema
scientifico. Sempre più oggi possiamo integrare i nostri domini scientifici,
gli insiemi dei nostri reciproci saperi, relazionarci, connetterci dentro
intervalli cognitivi di ordine e dimensione quantistica, che rappresentano
habitat di conoscenza più ampi: orizzonti di cognizione e competenza fusi.
L’epistemologia moderna c’insegna che un problema scientifico può essere
risolto soltanto fondendo diversi orizzonti di conoscenza, per restare sempre
in simbiosi con la vita, per realizzare una vera e propria lebenswelt: la scienza della vita.
Questo punto è epistemologicamente centrale nella interessante transizione
del mondo di oggi. Viviamo la quarta dimensione della logica quantistica. La
scienza precedente alla nostra, quella che derivava dalla logica computazionale,
reclamava una epistemologia del know-how, fatta di saperi individuali
specializzati. Naturalmente non intendo dire che le competenze specialistiche
non servono più. Le logiche non si escludono. Le dimensioni logiche si
assemblano. In un mondo integrato, in cui la conoscenza è data dalla morfologia
delle connessioni, in cui la pedagogia, la scienza dell’educazione, la
didattica e perfino la docimologia è rappresentata da un mappa connettografica[14] di ordine cognitivo,
l’epistemologia diventa simbiotica della intera complessità della vita. Lebenswelt.
L’epistemologia sta sulla vita, dentro la vita, nella vita e con la vita a
ri-orientare il posizionamento individuale dell’umano in funzione della sua
condizione esistenziale.
Relazione simbiotica
Lebenswelt, dunque: la scienza della via.
La relazione comunicativa insegna e cura perché è epistemologicamente simbiotica con le esigenze di vita del
paziente.
Che significa?
Qualche giorno fa ho regalato, per il suo compleanno, a mio fratello,
che è un valido chirurgo, un libro sulla storia di un mitico medico delle
paludi pontine che andava a visitare i suoi pazienti nelle case coloniche e,
spesso, nelle capanne in cui si ammalavano. Era l’epoca della bonifica della
palude pontina, quando le idrovore mussoliniane prosciugavano quelle acque
malferme dalla malaria. Andava in quei luoghi, il medico, per curare e
riconosceva i sintomi della malattia nell’habitat da cui emergeva, nella vita
dei suoi pazienti, parlando delle loro abitudini, dei comportamenti usuali e
quotidiani. Oggi, uno dei deficit epistemologici che determina l’assenza della
relazione di cura è che i medici, che salvano la pelle delle persone, si
occupano più della malattia che della vita. Questo è un limite molto forte
della eccessiva specializzazione. Quella relazione era una vera e propria
relazione di cura.
Si può ripristinare?
Naturalmente e, per fortuna, in quei termini no.
In altri termini però si.
La tecnologia oggi ci permette, ad esempio con forme sviluppate di
telemedicina, di curare molti pazienti a casa, dentro la loro vita, senza
patologizzarli in uno stato di liminalità ospedaliera.
L’organizzazione formale può favorire, nei dosaggi politici necessari e
opportuni, l’azione che scaturisce e si sviluppa nella relazione di cura.
Possiamo costruire un network territoriale di accoglienza, in cui la cura non
sia un momento di estraneazione della vita, ma sia dentro la vita: sia per la
prevenzione che per la terapia. Con le nuove tecnologie oggi è possibile. È
possibile riservare l’ospedale alle urgenze e alle effettive necessità. Per
fare questo abbiamo bisogno di una azione politica in grado di costruire una
nuova organizzazione sanitaria dentro una relazione di cura.
La politica è l’unico modo che abbiamo per cambiare e migliorare il
mondo. Bertrand Russell ci ha spiegato come si fa. Egli sosteneva che il
concetto fondamentale delle scienze sociali è il concetto di potere, perché il
potere sta alle scienze sociali come l’energia alla fisica.
P : S = E : F
Con l’energia possiamo costruire bombe e altre armi di distruzione di
massa, oppure vivere nella sicurezza della illuminazione e nella cortese
disponibilità di sofisticate tecnologie. Con il potere possiamo distruggere
l’umano con le infinte manifestazioni di una violenza brutale e volgare o
possiamo progettare e costruire nuovi livelli di realtà in cui la
organizzazione sociale favorisca la relazione di accoglienza e di cura.
Dipende da noi.
Dipende soltanto da noi.
Se utilizzeremo il potere di amministratori, professionisti e cittadini
come energia indispensabile per fare in modo che i nostri pazienti non si
sentano abbandonati e in balia degli eventi e del sopra affollamento del pronto
soccorso, della incuria nei nostri ospedali, in solitaria anomia trascurati e
talvolta dimenticati su barelle provvisorie e infestate da insetti, da
formiche; o se costruiremo una organizzazione sanitaria in cui, di fronte ad un
disagio a una malattia, la cura si svolga a casa, con la telemedicina e con un
kit specializzato di professionisti e tecnologie, che si raggiunga con una
autoambulanza attrezzata il paziente dentro la sua vita, dove la malattia non è
una patologizzazione e la cura non è un dominio.
Dipende da noi, da come agiremo, da come utilizzeremo l’energia del
potere che abbiamo: una azione politica finalizzata a costruire forme di
organizzazione sociale che contengano la relazione umana.
La politica serve a questo, a costruire nuovi livelli di realtà. E il
compito che noi abbiamo oggi è quello di governare una società essenzialmente
relazionale, costruire nuove dimensioni organizzative anche formali dentro la
relazione, con una azione politica che rinforzi la relazione sociale.
Oggi è possibile. Non solo. È indispensabile. Altrimenti cureremo sempre
meno persone. Nella sanità ogni malattia, se è estranea ed esterna alla
relazione, è invalidante.
Certo è un compito della politica; ma la politica è anche un compito per
ciascuno di noi.
[1] CECI Alessandro, Intelligence e Democrazia, Rubettino
Soveria Mannelli 2006
[2]
CECI A., cit. 2006
[3]
CECI A., cit. 2006
[4]
CECI A., cit. 2006
[5]
CECI A., cit. 2006
[6] CECI Alessandro, Cosmogonie del
potere, Ibisco, Empoli 2011
[7] Vedi: LOSANO Mario, Forma e realtà in Kelsen, Comunità, Milano 1981.
[8] ARENDT Hannah, Che cos’è la
politica, Einaudi, Torino 2006
[9] Rella F., cit. 1987
[10] CARROZZINI Giovanni, Sulla nozione di atopia a partire da Socrate. Ripensare l’ambiente-mondo,
in LA DELEUZIANA – ONLINE JOURNAL OF PHILOSOPHY – ISSN 2421-3098
[11] HAVEL Vaclav, Il potere dei senza potere,
Castelvecchi, Milano 2013
[12] PIAGET Jean, Epistemologia genetica, Laterza, Bari
1970
[13] GADAMER Han Georg, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2001
[14] KHANNA Parag, Connectography,
Fazi Editore, Milano 2016
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