IL PAESAGGIO NEL VOLTO
Quando
osserviamo i quadri di Nico Zanovello non possiamo fare a meno di ricordare la
nota lettera tra amanti separati nella scena finale del film, tratto
dall’omonimo romanzo di Michael Ondaatje, “Il
paziente inglese”:
“Siamo noi i veri
paesi, non le frontiere tracciate sulle mappe con i nomi di uomini potenti.”
Guardando
senza timore i quadri di Nico possiamo riconoscere i nostri paesi in quei volti
esorbitanti rispetto alla tela, i paesi che noi siamo; presenti eppure
trasparenti, frequentati eppure soli, con gli occhi sgranati su noi stessi. La
cosa impressionante negli occhi dei personaggi dipinti da Nico, che forse sono
sempre i suoi occhi, è che loro ci guardano, mentre noi guardiamo loro. “Unus ego et multi in me”. Quegli occhi,
che sono i nostri che guardiamo ed i suoi che ci guarda, ci dicono che in fondo
in ciascuno c’è ogni moltitudine; che in fondo, qualsiasi forma assuma un
volto, siamo sempre uguali perché c’è un archetipo che ci accomuna. Gli identici
occhi che guardano chi guarda, che osservano chi osserva, che scrutano chi
scruta, sono di uno e tutti, è l’archetipo antropologico dell’umano. Ma non
siamo tutti uguali, no. Pur essendo tutti vittime di un amore che è anche
dolore, come diceva Jacque Derrida, “chiunque
altro è tutt’altro”.
L’amore
e il dolore, nei quadri di Nico, si compenetrano, quasi si cercano, si
desiderano entrambi contemporaneamente. Dietro la maschera comica del clown c’è
il volto piangente dell’uomo. È un tema ricorrente nella letteratura e
nell’arte. Qui però non sono scissi, sono la stessa persona nello stesso
momento, nello stesso punto di un intervallo quantistico che si apre a
fisarmonica. L’amore è il dolore che è l’amore. Solo questo è vita, per Nico.
Solo
questo è vita?
Meglio,
solo questo è dentro la vita: perché poi c’è la cornice, forte, sempre
possente, una porta, una finestra, una fessura tra le sbarre. I volti sono
costretti dentro il quadro, come se fossero imprigionati dalla cornice
paradigmatica della vita e vorrebbero uscire. Non possono, naturalmente. Non
devono. E se loro, con le linee allungate, esagerate e deformi, non possono è
perché in prigione siamo noi. Tutto potrebbe essere una illusione ottica. Loro
sono liberi di deformarsi mentre noi, oltre la cornice, siamo prigionieri di
forme presuntuose, illuse di essere perfette, figure elegantemente abbigliate.
Sulle cornici che ci imprigionano potremmo dire molto. Qui è esaustiva la
contestazione di Popper a Kuhn, secondo cui appunto la cornice è l’espressione
di un paradigma totalitario perché indiscutibile, incommensurabile, che ogni
democrazia reale dovrebbe rompere, spezzare, frantumare distruggere.
Su
questi temi Nico non si spinge però. Probabilmente li considera sovrastrutture
inutili rispetto al problema esistenziale degli umani che muoiono con i loro
volti appesi. Come muoiono?
Così:
“Moriamo. Moriamo. Moriamo ricchi di amanti e di tribù, di gusti che abbiamo inghiottito, di corpi che abbiamo penetrato risalendoli come fiumi, di paure in cui ci siamo nascosti come in questa caverna stregata. Voglio che tutto ciò resti inciso sul mio corpo”.
Cosenza 14 febbraio
2019

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