TERRACINEIDE: 2 - Cesare e il futuro
Secondo Plutarco, Giulio Cesare, se non
fosse stato ucciso dalla sua ambizione di diventare imperatore (cioè, dittatore
a vita) e dai Cesaricidi repubblicani il 15 marzo del 44 a.C., avrebbe voluto “deviare il Tevere subito a sud della città,
con un profondo canale, e piegatolo verso il Circeo farlo sfociare nel mare
presso Terracina, procurando in tal modo agio e sicurezza a coloro che per
ragioni di commercio erano soliti venire a Roma”[1].
Plutarco era ottimista e benevolo. Non fu
soltanto per il commercio che Cesare aveva immaginato la deviazione del Tevere
verso Terracina. Quel fiume avrebbe tagliato la pianura pontina e raccolto le
acque che trasformavano terra fertile in palude. Il fiume sarebbe stato lo
scolo di acqua pantanosa e malarica. Avrebbe liberato dalla putrefazione i
terreni che andavano da Roma a Terracina.
Allora l’esercito romano, specie quello che
riempiva le legioni di Cesare, era composto da coltivatori di terra che avevano
ottenuto gli appezzamenti grazie al loro impegno militare. O, viceversa. Poiché
avevano terra da coltivare e prodotti da commerciare, erano in condizione di
comprare un’armatura ed eventualmente un cavallo, esercitarsi al combattimento
e desiderare ulteriori ricchezze per se stessi e per la loro famiglia. Bonificando
i terreni a sud di Roma, Cesare avrebbe clamorosamente rafforzato il suo
esercito, oltre che la ricchezza del suo impero. E quando Marc’Antonio, nel
leggere il testamento di Cesare al popolo di Roma descrisse la sua volontà di
donare terreni, proprio alla pianura pontina si riferiva.
Cesare era nato il 13 luglio del 100 a.C..
Morì a cinquantasei anni, “sopravvisse a
Pompeo non molto più di quattro anni, e di quel potere e di quell’autorità che
in tutta quanta la vita egli aveva inseguito tra i tanti pericoli conseguendola
a stento, non ebbe se non il nome, oltre all’invidia dei concittadini”[2]. Avrebbe avuto il tempo di
realizzare questo progetto.
Il biografo Plutarco (Πλούταρχος), visse più di 100 anni dopo, dal 46 d.C.
al 127 d.C., e descrisse, non senza ammirazione, i progetti e le ambizioni di
Cesare.
Se Cesare avesse realizzato i suoi
progetti, come sarebbe cambiata la nostra vita? Forse avremmo risolto il
problema del Grande Porto da secoli. Certamente non avremmo avuto “la spiaggetta” e forse alla fine io non
sarei nemmeno nato lì. Avremmo abbondantemente risolto il problema della
navigabilità interna e saremmo stati noi il porto di Roma, città che avrebbe
invaso quasi tutto il sud Lazio. Dopo Cesare i sogni e i progetti di Cesare si
spensero. Quanta vita abbiamo perso per la loro evaporazione?
Questo è il punto.
L’assenza della politica annulla la
vita. Senza la politica quanta vita si perde nel nulla e nell’ombra della
storia? Quanta vita togliamo ai nostri figli con la nostra indifferenza ed il
nostro disinteresse?
Quanta vita abbiamo perso e abbiamo disperso
in questi lunghi anni di vuoto politico e di insignificanza, di assenza di
progetti globali e di ambizioni locali? Anni vacui, in cui tutte le discussioni
più violente si sono concentrate su una statua, su un’isola pedonale, su un
mausoleo, su una pista ciclabile. Cose piccole, minime, che pure bisogna fare,
ma che non possono assorbire le speranze di una generazione. L’assenza di
progetti ha ridotto il discorso politico a minuzie, scorporando sempre più il
ceto politico locale dal proprio elettorato. Anche Terracina rientra nel nucleo
delle città che sono civilizzate dai mezzi di comunicazione di massa. Anche i
cittadini di Terracina conosco più i politici nazionali (Salvini, Di Maio,
Berlusconi, Renzi e Zingaretti) di quanto conoscano i loro consiglieri
comunali, i loro assessori, i loro sindaci. Anche i cittadini di Terracina sono
pronti a partecipare a progetti globali, a una discussione che abbia una
visione di futuro, a progetti strategici per il miglioramento della qualità
della nostra vita e di quella dei nostri figli.
In questo vuoto politico più che decennale,
di minuzie e piccole insignificanti medagliette, in queste micro esaltazione
egocentriche, in questo asfissiante protagonismo provinciale abbiamo soffocate
le speranze e bruciato la qualità della vita dei nostri figli. Se loro vivono
in una cittadina preda della occulta criminalità organizzata e dell’evidente
traffico/consumo di stupefacenti, è perché i progetti politici globali, la
valenza e la vocazione della nostra città, sono stati annegati nel mare cupo di
silenzio dettato da volontà e incapacità.
Tornare a Cesare, questo è il nostro
futuro, questo deve essere il nostro impegno e la nostra responsabilità.
Tornare a volare alto, a pensare progetti globali per la nostra città,
ritrovare gli asset di sviluppo, i fattori di crescita che riguardano la natura
anche culturale e sociale della nostra vita.
Ultimamente ci siamo frantumati in un
conflitto di quartiere contro i comuni limitrofi, Fondi in primis con cui pure
condividiamo una risorsa incommensurabile come il lago e gran parte di una
costa affascinante e sempre più presente. La bagarre con i confinanti è stupida oltre che sbagliata, perché annulla
la vocazione della città di Terracina da secoli vissuta: quella di essere una
città di hinterland, prima una città di confine e poi una città di distretto,
in grado di interagire in un dominio relazionale con le incommensurabili
ricchezze che ci circondano: dall’antica Privernum (insediamento storico
archeologico superiore a Pompei) al Parco Nazionale del Circeo, fino al lago di
Fondi e alla saracena Sperlonga. Una città integrata nel suo hinterland, finalmente
una città di mare e non soltanto sul mare. Invece, in troppi anni di amministrazione
minimale siamo rimasti chiusi e silenti. Muti e isolati in un solipsismo
politico che è durato ormai troppo.
Hannah Arendt diceva che, in politica, il
passato ci spinge avanti mentre il futuro ci chiama indietro. Lo spirito di
Giulio Cesare, la sua idea di sviluppo globale, è il passato che ci spinge a
guardare avanti. Se non elaboreremo progetti politici credibili in grado di
trasformare la nostra vocazione in una valenza, noi non avremo alcun futuro in
condizione di farci guardare indietro, a ciò che siamo stati per essere ciò che
saremo
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