EPISTEMOLOGIA SIMBIOTICA
relazione che parzialmente ho tenuto al
Festival della Scienza,
presentazione del
Libro
“La Relazione di cura
medico-paziente”
a cura di Liuva Capezzani
a cura di Liuva Capezzani
Fermo 27 ottobre 2018
“Ho perso le parole – cantava
la bella canzone – eppure ce le avevo qua
un attimo fa. Volevo dire cose, cose che sai, che ti dovevo, che ti dovrei.”[1]
Non ho più parole, dopo le tante belle ascoltate ora e, per non avvilire
le mie, devo necessariamente ricorrere ad una citazione.
Diceva Ortega Y Gasset che “ogni
nostra epoca porta con sé la sua norma e la sua enormità, il suo decalogo e la
sua falsificazione”[2].
Qual è la nostra epoca?
Come possiamo sapere quale norma produrrà la sua enormità e quale
decalogo dovremmo mai falsificare?
Noi viviamo in tempi interessanti.
Il noto filosofo Žižek ci ha insegnato che i Cinesi, quando vogliono
rivolgere un malaugurio a qualcuno lo salutavano con la frase: “benvenuto in tempi interessanti”[3]. Perché i tempi
interessanti sono i tempi turbolenti, talvolta sconvolgenti, certamente dirompenti.
Sono tempi di incertezza, in cui abbiamo timore di “ogni nostro prossimo passo” perché, come diceva Borges; potrebbe
calpestare il dolore di un altro, “il
Golgota altrui”[4].
Le turbolenze della nostra complessità sono tante e varie. Sono talmente
ricorrenti da farle considerare, paradossalmente, strutturali. Joseph
Schumpeter ne ha colto la funzione dinamica permanente dei nuovi sistemi
sociali capitalistici e post- capitalistici, tanto da individuarne la “immensa forza di distruzione creatrice”[5].
La turbolenza più forte che io vedo, nella quarta cosmogonia[6], nella mutazione che ha
prodotto l’avvento della società della comunicazione è il passaggio dal Know-how al Know-out. La conoscenza
non è più in noi, è nel dominio relazionale in cui siamo immersi, nel campo
cognitivo che ci supera e ci assorbe. Anche le nostre competenze tecniche o
specialistiche, addirittura il cervello, è ormai fuori dal corpo, dalla sua
stessa fisicità, in un network che è al tempo stesso relazionale e cognitivo;
che è cognitivo proprio perché è relazionale. In quel network c’è tutta la
nostra intelligenza che, come voleva Piaget, organizza il mondo organizzando se
stessa[7].
L’avvento della società della comunicazione, dunque, rende interessante
la nostra epoca, ci fa vivere in una transizione turbolenta. In una transizione
che trasforma frequentemente la norma in enormità.
1 La norma
che diventa enormità, nel primo capitolo che ho scritto nel libro
ideato e realizzato da Liuva Capezzani, è quello della cura. Come la cura, che
è la norma della medicina, diventa enormità lo hanno ben spiegato Michel
Foucault e Niklas Luhmann; ma qualcosa possiamo dire anche noi.
·
Foucault ha per primo descritto il processo di medicalizzazione nella
società: la norma della cura che diventa enormità, uno sconfinamento della
scienza che supera i suoi limiti e diventa puro potere per il controllo della
vita. Questo sapere che diventa potere inzia ingenuamente con la nascita degli
ospedali come luoghi di cura derivando la loro funzione dai lebbrosari, dove i
malati venivano raccolti per evitare il contagio e la diffusione della infezione.
Prima del trasferimento in strutture specializzate ii malati venivano curati a
casa. Questa era la norma. Quando invece l’ospedale si trasforma in un luogo di
potere e di controllo dei malati, la
norma diventa enormità. Inizia il processo di medicalizzazione che invade
interamente la nostra vita e la sottopone,
in qualche modo, alla microfisica del potere, perché è “sulla
vita e lungo tutto il suo svolgimento che il potere stabilisce la sua presa; la
morte ne è il limite, il momento che gli sfugge”[8]. Il
potere si appropria del corpo degli individui e la società costruisce una serie di istituti
repressivi, Asylums, istituzioni totali e liminali, strutture finalizzate
al controllo del malato piuttosto che della malattia. La malattia stessa
diventa una strategia con cui si afferma un potere nuovo e illimitato: la
salute dei cittadini come presupposto della legittimazione del potere politico.
Il cittadino curato, si deve curare, per mantenere l’integrità del corpo come
emblema di affermazione sociale. La rappresentazione della salute è, al tempo
stesso la rappresentazione della immortalità, la più grande illusione di ogni
potere, la potenza dei processi di medicalizzazione nel
mondo che omologano la popolazione considerata come corpo sociale. “Il
controllo della società sugli individui non si effettua solo attraverso la
coscienza o l’ideologia, ma anche nel corpo e con il corpo. Per la società
capitalista è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico,
il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una
strategia bio-politica”[9].
·
Luhmann[10] ci
ha invece insegnato l’autoreferenzialità
linguistica dei sistemi sociali. L’autoreferenza è il metodo dei sistemi chiusi
in se stessi che utilizzano codici simbolici, come il linguaggio, comprensibili
soltanto a se stessi. Se sono in qualche modo connessi l’uno all’altro, allora
c’è un minimo di possibilità di decodificazione e di apertura del sistema. Altrimenti
sono totalmente chiusi in una infinita ricorsività incontrollabile. “Un sistema può essere definito come
autoreferenziale se costituisce in proprio, quali unità funzionali, gli elementi
di cui è composto, e se attiva in tutte le relazioni fra questi elementi un
rinvio a tale autocostituzione, che viene quindi in questo modo continuamente
riprodotta. In questo senso, i sistemi autoreferenziali operano necessariamente
a contatto con se stessi e non conoscono alcuna altra forma di contatto con
l’ambiente che non sia questo autocontatto”. I
politici che parlano con i politici per decidere come assumere decisioni
politiche, giuristi che parlano con giuristi di come migliorare i sistemi
giuridici, i medici che parlano con i medici su come applicare e perfezionare
la medicina. Questi linguaggi autoreferenziali sono linguaggi specializzati. La
loro specializzazione esclude la possibilità di partecipazione di cittadini, di
assistiti, di pazienti, determina la emarginazione effettiva di tutti coloro
che non sono in grado di condividere la narrazione scientifica di una
determinata disciplina. Queste narrazioni sono una vera e propria forma di
potere, perché nella complessità dei sistemi sociale, il potere è prorio una
forma di comunicazione: un linguaggio. Se questo linguaggio autoreferenziale è
totalmente chiuso e non comprensibile, allora è una minaccia totalitaria alla
società[11]. Infatti,
la distanza del sistema differenziato in modo autoreferenziale dai suoi stessi
utenti è, per Luhmann, una delle minacce più forti della
democrazia.
·
Quel che abbiamo da dire noi è che la norma diventa enormità ogni volta
che la medicina sostituisce il paziente con un cliente, il soggetto della cura con
l’oggetto della diagnosi, quando spersonalizza il malato. Non è soltanto una
perdita etica. È, come dirò, una riduzione epistemologica. Purtroppo, nella
organizzazione amministrativa e burocratica delle nostre strutture sanitarie,
indirizzate troppo spesso più all’efficienza che all’efficacia, il paziente
diventa spesso soltanto un cliente. Sono molti i medici che, per paura di
essere sottoposti a una denuncia o a una contestazione o accusa, piuttosto che
preoccuparsi della cura del paziente, si preoccupano delle procedure terapeutiche
formalmente codificate. In quel momento la norma diventa enormità e noi
perdiamo definitivamente la funzione della medicina nella sua complessità. Non
è soltanto il potere della medicalizzazione o la chiusura dell’autoreferenzialità.
È sincopatia, perdita totale della
coscienza di sé, del proprio ruolo, della propria funzione e, quindi, della
propria prestazione. Si tratta un totale vuoto epistemico, in cui non si sa più
dove indirizzare le conoscenze e come usare le competenze. E questa sincopatia
produce anomia e alienazione più nei medici che nei pazienti. Ciò che possiamo
dire noi qui, ora, è che dobbiamo superare con una nuova concezione, con un
nuovo paradigma epistemologico la sincopatia collettiva, forse sociale, che sta
trasformando la norma della relazione in
enormità dell’alterazione.
2. Il decalogo che dobbiamo falsificare è indubbiamente quello del Setting. Il Setting, così com’è, non
serve a molto. Spesso è addirittura la causa della malattia. Specialmente in un’epoca
di Know-out, quando le nostre competenze e perfino le nostre specializzazioni
sono fuori di noi, non abbiamo più bisogno dello stato di liminalità del
setting, un luogo in cui il paziente è certamente ospite e quindi, in qualche
modo, estraneo. Intanto, il paziente viene accolto in un setting che è la casa
del terapeuta, arredata dal terapeuta per ricevere, solo da lui, un numero non
conteggiabile di pazienti. Dunque, almeno relativamente al posizionamento
spazio/temporale, il paziente deve piegarsi ai meta livelli imposti dal
terapeuta. Addirittura il paziente sa che il suo stesso posizionamento vale per
ogni altro paziente, che la cura di tutti si svolge nelle stesse condizioni di
sfondo. Questa uniformità del setting omologa i pazienti e annulla la cura. Ciò
che proprio non si può fare, almeno in psicanalisi, in psicologia e in
psichiatria è far perdere di identità il paziente. Questa asettica
standardizzazione dello sfondo, che in medicina può essere una garanzia di
oggettivazione, nella psicoterapia è una distruzione della unicità identitaria
del paziente, di quella unicità a cui il paziente deve aggrapparsi per essere, in primis, se stesso. Nel posizionamento
standardizzato del setting, lo spazio è imposto dal terapeuta a tutti per una
cura identica per tutti. Anche il tempo degli appuntamenti s’impone a tutti
nello stesso modo, con una identica programmazione asettica, in base alla
meticolosa puntualità dell’agenda. Se addirittura il setting acquisisce una
dimensione istituzionale, il potere del terapeuta diventa un potere pubblico,
indubitabile, fideistico e certamente privo di valore scientifico.
·
In un testo di circa 10 anni fa - prodotto da un periodico
quadrimestrale, non so se ancora in distribuzione - dal titolo “Idee in Psicoterapia”, diretto da Luigi
Janiri e Piero Petrini, al volume 2, n.1, Gennaio-Aprile 2009 si discuteva de “Il Potere in Psicoterapia”. Quando ho
scritto il mio secondo capitolo nel testo di Liuva Capezzani non ho voluto
prendere in considerazione quel testo perché, relativamente alla impostazione
epistemologica e politica, non condividevo (e ancora non condivido) quasi
niente del paradigma proposto. Anzi, proprio niente. Non ho preso in
considerazione quel testo per non infrangere i miei contributi contro lo
scoglio di una inutile polemica con una pubblicazione che forse i generosi
lettori non conoscevano. Avrebbero ascoltato soltanto la mia voce, senza
opportunità di replica, in un libro che invece produceva significati. In questa
sede, però, poiché popperianamente considero la contestazione critica il cuore
della epistemologia moderna, non voglio evitare un confronto che, per quanto
critico, è utile e proficuo per tutti. Almeno, spero. Tengo a precisare che non
sono spinto da alcun risentimento nei confronti degli autori, che ovviamente
non conosco; quanto piuttosto dal fatto che gli argomenti da loro trattati,
anche con eleganza ed erudizione, sono gli argomenti prevalenti della
psichiatria, della psicologia e della psicanalisi. Qualcuno dirà che gli ambiti
non sono gli stessi e quindi gli argomenti non possono essere considerati
comuni. Perché no? A forza di lobotomizzare la conoscenza, lobotomizziamo le
sue ragioni. L’epistemologia riguarda tutta la scienza, o non riguarda niente.
Dunque, evitiamo di fare in modo che la eccessiva specializzazione sia un
limite per la conoscenza scientifica e andiamo al problema del setting istituzionale.
·
L’affermazione che vorrei discutere, scritta tutti insieme (Piero
Pietrini, Chiara Pedullà, Donatella Laghi e Luigi Janiri) è questa: “nella pratica psicoterapeutica, nello
specifico nel setting, che è il luogo istituzionale dove si devono esercitare
reciprocamente il potere del terapeuta e quello del paziente, sempre più di
frequente vi compaiono questi problemi”. Si tratta di problemi che
riguardano i timori del paziente rispetto al potere dello psicoterapeuta, “del suo sapere, delle sue tecniche, della
sua capacità di «leggergli dentro», di orientarlo, di condizionarlo o,
addirittura, di manipolarlo”.
Vorrei vedere!!!!!!
Certo che
c’è questa preoccupazione. Anche perché la preoccupazione è decisamente
fondata. Proprio così accade; e accade proprio così per colpa del setting,
tanto più se questo setting è proprio un “luogo
istituzionale”. Non si tratta del fatto che “i rischi di un uso inconscio o reattivo del potere sono sempre in
agguato”. Si tratta di una certezza. Potremmo dire che tutto il setting
serve ad istituzionalizzare questo potere. Non parliamo qui, come è evidente di
un’attitudine del terapeuta. Proprio perché istituzionale è il setting il
problema.
Qual è il
massimo potere se non quello di una istituzione che decide sul posizionamento
dei meta livelli spazio/temporale degli altri? Nessuno, nessun’altro.
Il setting
è un luogo in cui il paziente viene estraniato: l’arredamento è deciso dal
medico, l’orario è deciso dal medico, il posizionamento è indotto. I meta
livelli del posizionamento nel mondo, il tempo e lo spazio, nel Setting, sono
totalmente ignoti al paziente e dal paziente, alla fine, totalmente ignorati. Per
questo motivo, infatti, alla fine, il setting è un luogo totalmente escluso ed
escludente il tempo e lo spazio della vita.
·
Questo punto è un punto epistemologicamente centrale nella transizione
interessante del mondo di oggi. Viviamo la quarta dimensione della logica
quantistica. La scienza precedente alla nostra, quella che derivava dalla
logica computazionale, reclamava una epistemologia del know-how, fatta di
saperi individuali specializzati. Naturalmente non intendo dire che le competenze
specialistiche non servono più. Le logiche non si escludono. Le dimensioni
logiche si assemblano. In un mondo integrato, in cui la conoscenza è data dalla
morfologia delle connessione, in cui la pedagogia, la scienza dell’educazione,
la didattica e perfino la docimologia è rappresentata da un mappa connettografica[12] di ordine cognitivo, l’epistemologia
diventa simbiotica della intera complessità della vita. L’epistemologia sta
sulla vita, dentro la vita, nella vita e con la vita a ri-orientare il
posizionamento individuale dell’umano in funzione della sua condizione
esistenziale. Estremamente semplificando possiamo suddividere tutta la
filosofia in 3 grandi domini: quello della essenza; quello della esistenza;
quello della logica. La sintesi logica della nuova epistemologia simbiotica è che
la cura funzione se sa tutelare l’essenza della nostra esistenza. Una volta si
diceva: “l’operazione è perfettamente
riuscita, ma il paziente è morto”. Noi vorremmo che l’operazione riesca un
po’ di meno ma che il paziente viva. Infatti, ormai con ogni malattia dobbiamo
cercare di sopravvivere o sconfiggendola o gestendola. Anche quando non
riusciamo a debellarla, dobbiamo innanzitutto proteggere la nostra vita.
·
A modo suo, lo aveva ben capito, 100 anni fa, Edmund Husserl. Sul letto
di morte, cosciente della conclusione della sua vita, disse: “che peccato,
poteva essere un buon inizio”.
Qual’era questo inizio scoperto alla fine?
Husserl aveva lasciato un manoscritto fantastico, ancora non
sufficientemente apprezzato. S’intitolava cripticamente “La fenomenologia trascendentale e la crisi delle scienze europee”. Ci
voleva semplicemente dire che la crisi della scienza occidentale sta in una
fenomenologia che trascende la vita. Allora si arrogava la responsabilità, per
me il diritto, di indicare un nuovo inizio: la lebenwelt, la scienza della vita.
La scienza della vita consiste proprio in quella epistemologia simbiotica che noi traduciamo nella dimensione
personalizzata della cura. Si tratta proprio di quella logica quantistica in
cui l’infinitamente piccolo, il paziente, corrisponde totalmente all’infinitamente
grande, la malattia. La scienza della vita, la lebenswelt, supera definitivamente la funzione di estraneazione del
setting perché è nella vita che cerca la cura perché nella vita c’è la
malattia. Il setting invece pone l’uomo di fronte all’estremo, al definitivo e
interviene soltanto quando il male si è definito. Entrando in un setting il
paziente sa di essere malato, ma non sa se verrà curato. Egli ha una sola
certezza, di essere di fronte all’estremo della sua esistenza: in qualche modo
fuori dalla sua vita.
3. Concludo
con un’altra citazione.
Diceva
Ivan Illich che la società è conviviale quando lo strumento non supera l’umano.
L’epistemologo
sa che la scienza è solo uno strumento.
Per una
società democratica e conviviale non permettiamo che la scienza superi mai l’umano.
[1] LIGABUE Luciano, Ho perso le parole, Album Radio Freccia
1998
[2] ORTEGA Y GASSET José, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962
[4] BORGES Jorge Luis, La strada sconosciuta, in Fervore di
Buenos Aires, in Opere, vol.1, Mondadori, Milano 1986
[5] SCHUMPETER Joseph, Capitalismo, Socialismo e Democrazia,
Etas, Milano 2001
[6] CECI Alessandro, Cosmogonie del
potere, Ibiskos, Empoli 2011
[7] PIAGET Jean, Epistemologia
genetica, Laterza, Bari 1970
[8] FOUCAULT Michel, La volontà di
sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 122.
[9] FOUCAULT. Michel, La nascita della medicina sociale, in Archivio Foucault, cit., vol. 2, pag. 222.
[10] LUHMANN Niklas, Sistemi sociali,
Il Mulino, Bologna 1984
[11] LUHMANN Niklas, Potere e
complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 2010
[12] KHANNA Parag, Connectography, Fazi Editore, Milano
2016
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