TERRACINEIDE: 1 - Terracina ai terracinesi.
Nell’anno del signore 1074 papa Gregorio
VII lasciò che Terracina fosse di
proprietà e di amministrazione, soltanto dei terracinesi: di tutti i
terracinesi, “senza far riferimento né
alla chiesa, né ad ufficiali qualsiasi, né alla Chiesa, né a signori e laici”.
Questa completa autonomia ”diventerà il
motore di una forte rinascita socio-politica, economica, urbanistica”[1] della città.
Fu un lascito dunque che indusse un
comportamento.
Non fu un semplice dono, offerto, ricevuto
e utilizzato.
Non fu una concessione benevola.
Fu una situazione che doveva diventare una
condizione, un punto di partenza per un obiettivo di autonomia e di
emancipazione da ottenere, da perseguire, da realizzare. Il premio della
autonomia, si conquista sempre e soltanto (in politica esclusivamente), dopo
che è stato concesso.
Così fu per i terracinesi.
Terracina ai terracinesi (nel senso della
autonomia e non della esclusione etnica) non è un proclama, non è una promessa
elettorale, è una condizione politica permanente.
Difatti, i terracinesi lottarono, contro la
tirannide dei Frangipane, contro le decisioni papali, contro il privilegio dei
nobili per la realizzazione delle istituzioni comunali: “fonte del potere normativo comunale divenne l’assemblea o parlamento,
costituito da tutti i cittadini che avevano compiuto 14 anni.”[2].
Il Consiglio comunale si divideva in un
Consiglio Generale, con cui si governava davvero il Comune, e in un Consiglio Speciale, che preparava gli
ordini del giorno e la documentazione per la discussione nel Consiglio
Generale. I rappresentanti
amministrativi e istituzionali della città erano i Consoli, in carica per un solo anno, che
successivamente divenne: il Sindaco (se era terracinese) o il Podestà (se non
era terracinese).
I terracinesi conquistarono l’autonomia,
non il giorno che Gregorio VII gliela concesse, ma in 300 anni di storia circa.
Il potere non si concede, non si dona. Si cede. Nella nostra storia fu ceduto
alla forza della ribellione e della protesta. Il potere dell’autonomia comunale
fu ottenuto addirittura con la guerra contro la tirannide, contro il cupo e
bieco dominio delle signorie e dei papi.
La formazione del comune di Terracina, non
fu un atto.
Fu un processo, il risultato ultimo di “un periodo in cui il regime politico
comunale non era ancora ben definito e affermato pur essendo già una realtà”[3].
I terracinesi sono rimasti sempre così. Una
città in grado di essere autonoma, di ribellarsi, di anticipare, come fu nel
1993 e come nella ultima elezione, i processi storici. Non rivoluzionaria, ma
in grado di ribellarsi ai prolungati soprusi e alla ignominiosa tirannide.
Altezzosa e
fiera della sua autonomia Terracina è rimasta sempre, da allora, ai
terracinesi. Anche se questi terracinesi non erano necessariamente, anzi quasi
mai, nativi del territorio.
Tuttavia questa terracinesità di cui si
rivendica la presuntuosa autonomia e affermazione, va conquistata coerentemente
con comportamenti quotidiani, non con una distratta delega politica.
Forse ha avuto ragione chi ha proposto,
nell’ultima campagna elettorale, quel fortunato slogan. Alcuni consiglieri
comunali, chiamati da un potere esterno e nemmeno occulto, sono andati da un
notaio di Fondi a firmare la dismissione del Consiglio Comunale. La città etero
diretta, ha sentito la minaccia ed ha reagito come sempre ha reagito, ribellandosi
e rivendicando giustamente la propria autonomia. Ma questa autonomia è stata
poi rispettata davvero dai comportamento successivi e dalle decisioni
amministrative?
Non credo.
Poi, come spesso accade, il potere
conquistato si è trasformato in potere ottenuto e gli amministratori
autonomisti si sono dimenticati e distratti della loro stessa autonomia. Non
hanno fatto niente di niente e hanno lasciato che altri, inseguiti dalla
magistratura e dalla marina in altre città, oppure in fuga per truffa dalla
loro nazione, occupassero gli spazi che sarebbero serviti ai terracinesi per
organizzare la propria vita autorealizzata. Secondo un paradigma geniale della
programmazione amministrativa, la soluzione economica e turistica della nostra
città sarebbe stata la presenza di frotte di studenti marocchini, che avrebbero
frequentato una inesistente università (come la LUISS o la LUMSA) garantiti da
un inesistente sindaco di Casablanca, di cui sono stati pagati i festeggiamenti
con i soldi pubblici.
Possiamo davvero dire che quel “Terracina ai terracinesi” è stato un
buono slogan di un pessimo comportamento. Perfettamente il contrario di quanto
avvenuto nella nostra città, in cui l’autonomia non è stata proclamata con
boria, ma è stata vissuta, lottata, contesa con comportamenti quotidiani. Non
da signorie né da briganti, ma da cittadini, da una storica “classe media”, pur spesso conservatore
nei suoi atteggiamenti sociali e culturali, ma democratica, liberale, poi
repubblicana; a cui il fascismo ha fatto pagare duramente la sua fierezza.
Terracina, anche nel Medio Evo, non è mai
stata davvero una città medievale. A causa della malaria e, forse, della pestilenza,
c’è stato un periodo lungo in cui i cittadini erano ridotti a poche, impoverite
e infettate famiglie. Se non ci fossero stati gli immigrati dell’epoca,
provenienti da regioni limitrofe e lontane per godere dei vantaggi della palude
e della enorme distesa del territorio, la nostra città sarebbe scomparsa.
Chi può dirsi davvero terracinese? Posso
dirlo io che ho un nonno da parte di padre emiliano? E credo che questa
condizione valga per tutti, per molti. Dopo quante generazioni una persone può
definirsi soggetto identitario di un determinato territorio? Infine, è giusto
lasciare la città ai suoi cittadini, se i suoi cittadini la distruggono? Una
città composta da cittadini mafiosi (e naturalmente non è la nostra) è giusto
che sia amministrata da mafiosi? C’è un limite etico alla propria identità?
Si.
Il limite è dato dal diritto di
cittadinanza che, come aveva capito Clistene e Pericle, è il presupposto della
democrazia. Una città è sempre una complessa sintesi di diversità culturali.
La sua forza è nella capacità di integrare e convivere con la diversità.
Terracina è un emblema storico di questa
accoglienza, di questo costante processo di integrazione dell’estraneo nella
cittadinanza. La sua autonomia si basa su questo riconoscimento.
Terracina è stata una città di pionieri,
venuti da fuori, a lottare contro il territorio, a piegare la natura perversa
che, a tanta bellezza, aveva associato altrettanta velenosa corrosione
malarica.
La nostra identità non è quella di una
città chiusa in se stessa, dentro le sue mura, che rifiuta l’accoglienza e la
partecipazione. La nostra identità è il diritto di cittadinanza della modernità
democratica, come fu di Atene e non di Sparta, che permette a tutti coloro che
sanno vedere le risorse dietro i fumi della palude, di agire, sebbene in
autonomia, comunque in favore di una collettività che sa, che nella sua storia
ha sempre saputo, che se non si protegge si disperde, che se non si amministra
scompare in uno spazio male organizzato, come dice Armando Cittarelli, in un
anonimo ed omologato “non luogo”.
[1] Rinaldi Franco, Terracina nel secolo buio della tirannia dei
Frangipani, Bookcart Edizioni, Terracina 2006, pag. 18
[2] Rinaldi F., cit. 2006, pag. 81
[3] Falco Giovanni, I comuni della Campania e della Marittima
nel Medio evo, in Archivio della Società Romana di Storia Patria 1926.
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