Relazione Ceci: LA CURA E IL POTERE


Quando penso al bel libro di Liuva Capezzani, che ha cortesemente accolto due miei capitoli, mi viene in mente un bel racconto di Franz Kafka intitolato “un medico di campagna”, in cui il medico che cura è, alla fine, colui che deve essere curato. Si potrebbe, per questa lettura, usare la nota interlocuzione latina: “medice cura te ipse”.
Che cosa significa cura?
Quando il medico di campagna viene chiamato è pieno del suo ruolo. Bombetta, cappotto e tipica borsa per le visite, il medico aspetta che il suo calesse si muova. Poi ricorda che il suo cavallo è morto e l’ansia di prestazione del ruolo sociale lo assale. Le difficoltà tecniche, come in ogni stato d’ansia, sembrano insormontabili. Il cavallo è morto e il calesse non può partire per raggiungere il paziente, il medico non può curare e il ruolo non può essere rispettato. Ma la cura è il dominus, la cura si impone, la cura è magica. Di colpo ciò che sembrava impossibile si risolve nel migliore dei modi, ciò che era difficile diventa facilissimo: non uno ma addirittura due cavalli giovani, forti, arrivano in sostituzione e il calesse vola rapidamente verso la casa di campagna dove la sua professionalità avrebbe potuto salvare una vita.
Quando il medico si avvicina, il paziente non sembra malato. Lo attrae a sé e gli chiede di farlo ugualmente morire. In questo caso anomalo, la cura dovrebbe consistere nel procurare la morte. Però, una cura che procura la morte è ancora una cura? In questo senso, di fronte alla morte il medico perde definitivamente il suo ruolo. La morte, in quanto impossibilità di cura, annulla per sempre il medico e il paziente. Questo è l’infinito potere della cura: che annulla la morte o, viceversa, della morte annulla la cura.
Allora, per mantenere il ruolo e stabilizzare la situazione, il medico deve trovare necessariamente la malattia. Eccola! Il medico la trova in uno squarcio purulento per un colpo d’ascia. Tuttavia ugualmente incurabile.
Se è incurabile, tutto precipita di nuovo e per sempre: il medico viene aggredito, perde il ruolo e i suoi simboli, il suo abbigliamento e si ritrova nudo, su uno dei suoi due cavalli, senza calesse a fuggire da quella casa verso la sua casa. Annullata la cura, ci dice Kafka, sono annullati tutti i rapporti sociali e ci si rintana.
Quante volte lo abbiamo vissuto questo racconto di Kafka?
C’è un amico o un parente in cura. Tutti si rivolgono al medico nella speranza di una salvezza. Appena ci viene detto che quella salvezza è impossibile, il medico non è più niente, è uno di noi che parla come noi. L’ha descritta benissimo nella introduzione del testo Liuva Capezzani quando ha raccontato la sua personale e dolorosa esperienza di vita.
La morte.
La morte annulla tutto, medico, paziente, cura, assoluta e definitiva. Di fronte alla morte non c’è più identificazione professionale, non c’è più ruolo sociale, non c’è più alcuna competenza.
Che cosa perde il medico di fronte alla morte?
Il potere, che sempre genera aspettative. Il potere di Dio, il potere di concedere altra vita.
Mi sono sempre chiesto come mai tutti gli Dei nella storia fossero comunque associati ad una vita eterna, nell’al di là, oltre la morte. Come mai non esiste alcuna religione e alcun Dio associabile alla scomparsa definitiva, nell’ombra del nulla. Non è che lo spirito religioso debba necessariamente ottenere il premio della vita eterna. Anzi, il calcolo di un vantaggio infinito, come la economicizzazione della fede di Pascal, è una apostasia bella e buona.  Credere in Dio per ottenere, non è credere è calcolare o, peggio ancora, monetizzare. Invece si può, direi si deve,  credere ad un Dio, chi lo vuole, anche nella consapevolezza che alla fine si scompare per sempre. Perché allora non accade? Dio creatore e Signore può resistere anche se ciascuno di noi viene annullato quando diventa morte, come intendeva Borges nel sostenere che “il morto non è il morto, ubiquamente estraneo, ma la morte”.
 Invece no. Senza il premio della vita eterna Dio non resiste, non esiste.
Perché? Perché il potere di Dio è quello della cura, la rigenerazione di corpo ed anima, è un cedere il potere per concedere altra vita. Senza la promessa della vita eterna, Dio stesso non ci cura, non si cura di noi e dunque non ci serve più. Il potere di Dio è quello di includere altra vita, di strapparci alla morte e alla malattia, il potere della cura infinita.
Il medico è questo Dio che deve concederci altra vita. Per questo noi cediamo a lui un potere inusitato di controllo e gestione del nostro corpo. Quando, però, non può offrirci altra vita, quel medico privo di cura, come Dio, perde il suo potere, non serve più a niente e viene inseguito dal risentimento, dalla delusione e dall’odio.
Il medico scompare e Dio pure.
In vita, invece, la cura è il potere assoluto.
Il potere psicologico e psichiatrico di sé verso se stesso.
Il potere sociologico di sé verso l’altro, il potere della relazione.
Il potere etico della conoscenza filosofica, quello morale della scienza.
La cura è il potere della vita che si protegge e si rigenera.


 C’è tuttavia un secondo ausilio che vorrei chiedere  per affrontare meglio il secondo aspetto di questo discorso corrispondente al mio secondo capitolo nel libro.
Il secondo ausilio lo chiedo a Pier paolo Pasolini, il quale non si stancava mai di ripetere che, a differenza del fascismo, la società capitalistica produceva una forma di controllo aberrante e molto più devastante: la distruzione dei valori e il vuoto di sé funzionale alla supremazia del potere.
Si tratta di una tattica precisa, impercettibile e acquiescente, acquiescente proprio perché impercettibile. Si tratta di una vera e propria azione politica funzionale ad un generale e irrefrenabile processo di omologazione.
Ricordo ancora il bellissimo articolo di Pasolini nel lontano 1975; quando, costatando la incapacità della modernità di riconoscere le lucciole, egli percepiva l’avvenente vuoto di valori del potere che stava estendendo il suo vuoto alla dimensione collettiva ed individuale del sé.
Tuttavia Pasolini era ancora ottimista. Intuiva, ma non sapeva bene, che quell’azione politica corrispondeva ad un vero e proprio regime e che il vuoto cognitivo corrisponde oggi al pieno di un nuovo potere autocratico nella società della comunicazione come nuovo genere di repressione totalitaria.
È un vuoto cognitivo perché accomoda e impigrisce il pensiero al fideismo rozzo e conclusivo di una sola affermazione muta.
È un vuoto collettivo perché, tramite mass media generalisti,  replica ossessivamente messaggi senza significato nei domini dei social network, iconografia evocative, calde, che si impongono prevalentemente ad un linguaggio critico e razionale, freddo,  e trasformano – come ho già descritto – il principio di rappresentanza della democrazia in relazione responsiva: si introduce un input comunicativo noto nella rete per ottenere un output comportamentale ignoto, elettorale ed economico (finanziario e/o consumistico).


È un vuoto connettivo perché induce gli individui, e particolarmente le nuove generazioni, o alla paranoia o al silenzio del solipsismo, o alla paranoia che il solipsismo sempre genera. L’individuo, isolato ed emarginato, non diventa mai cittadino, è sempre più debole, impaurito e dunque bisognoso di una difesa istintiva ed irrazionale.
Il vuoto che il potere autocratico della società della comunicazione produce per ottenere il pieno della sua totalizzante supremazia consiste in una strategia culturale di decervellamento funzionale. Verità fideistiche, immediate ed immediatamente percepibili, sono funzionali ad occultare, se non a cancellare, incontrollabili dimensioni della realtà.
Il potere autocratico della società della comunicazione è un potere epistemologico che può affermare la sua supremazia solo quando la verità è scissa, sconnessa e scollegata, dalla realtà. È un potere privo di gramsciana egemonia politica, ma pieno della supremazia sui più deboli. Un vuoto appunto, direi, uno squarcio nel nulla, una ferita fibrillante molto più definitiva di quella descritta da Pasolini perché non è soltanto un vuoto di valori, è principalmente un vuoto di conoscenza, un vuoto cognitivo, un vuoto di intelligenza (proprio nel senso della possibilità e della capacità di leggere dentro le cose).
Siamo di fronte, nelle autocrazie totalitarie della nostra epoca, a un decervellamento funzionale che induce comportamenti acritici per il consumo e per il voto. In questa minaccia dei nuovi totalitarismo autocratici, così ampia e così penetrante, così assoluta e così definitiva, tutte le istituzioni e tutti gli istituti perdono letteralmente di significato. E perdono di significato anche gli strumenti che utilizziamo per curare i deficit sociali e psicologici che il nuovo habitat del nuovo potere trasmette. Gli strumenti di cura, specie quelli che riguardano una cosa così poco definibile come la psiche, non sono più riconducibili ad una epistemologia appropriata al loro utilizzo. Il setting, troppo estraneo alla vita, troppo bolla ambientale asettica e apparentemente immunizzante, troppo rappresentativo di verità artefatte ed artificiali, trasforma la cura in una sopraffazione dominante. Non basta più.
Abbiamo oggi più che mai bisogno di una nuova epistemologia che sviluppi strumenti integrati nella vita. La vita degli strumenti vale soltanto se sono anche strumenti della vita. Abbiamo bisogno, come la chiamava Edmund Husserl, di una lebenswelt, di una scienza della vita che cambi anche i nostri strumenti, che ci faccia definire un nuovo setting semantico utile ad affrontare i problemi logici e psicologici che ogni giorno la vita ci propone. Sono problemi che non trovano alcuna soluzione nelle stanze chiuse e cupe della terapia tradizionale, in un setting di morte fatto di poltrone e lettini, che tolgono all’individuo, proprio perché patologizzato, ogni competenza ad agire.  Quel setting, seppur necessario, non è più sufficiente a risolvere i problemi che l’anomia e l’alienazione producono nella vita degli individui, proprio perché quel setting scinde formalmente la verità dalla realtà e produce una sua verità fideistica che si impone cognitivamente al paziente. Dunque il vecchio setting non è altro che uno strumento di legittimazione del nuovo potere e del decervellamento su cui esso stesso si edifica.


Anche in questo testo ho proposto, sulla base di un modello connettografico di coscienza e conoscenza, un più adeguato programma catallattico in grado di superare la rigida cornice paradigmatica del setting. Non posso entrare ora, qui nel merito e nei dettagli. Ripeterò soltanto, per concludere, che il potere della cura consiste sempre più nella cura del potere, di cui il setting (medico o mediatico) è lo strumento perfetto per scindere la verità dalla realtà e decervellare gli individui.
Nel 1992 è stato svolto uno studio su 80 babbuini di discendenza madrilineare.
Si è scoperto che i babbuini convivono in una struttura di potere molto rigida.  Si riconoscono e si rispettano attraverso il rango e la parentela. Il rango è il nostro titolo sociale. La parentela è il nostro ambito disciplinare, la comunità dei colleghi, l’ordine professionale.
Se vogliamo costruire una società di babbuini, con una conoscenza da babbuini e un potere da babbuini, la cura dell’altro sia ancora dettata dal rango di un titolo e dal chiuso paradigma di una parentela disciplinare.  Il vincolo del ruolo e la gerarchia della parentela disciplinare restino pure chiusi in un rigido paradigma di ordini e maestri.

Se vogliamo invece realizzare il sogno di Cicerone, dopo più di 2000 anni, il sogno di una conoscenza sorretta da una filosofia pragmatica (non pratica) che comprenda e governi le scienze in generale e le scienze sociali in particolare in quanto habitat in cui si sviluppa la lebenswelt, la scienza della vita; se vogliamo affascinarci alla nostra continua re-tribalizzazione culturale che permetta, come chiedeva Piaget, alla intelligenza di organizzare il mondo organizzando se stessa; allora quegli ordini, quei maestri, quei vari e mistificati setting dobbiamo superare, destrutturare, re-tribalizzare, affinchè la cura dell’altro sia costruita definitivamente, come chiede il libro a cui Liuva Capezzani ci ha chiesto di partecipare, non già sulla regola, ma sulla relazione: giacché una società che si dota di una regola senza una relazione, non si cura davvero dell’altro ma soltanto del potere che la regge; mentre, viceversa, una società che si costruisce su una relazione da cui possa scaturire una regola è sempre costantemente il più importante potere di cura di sé e dell’altro.


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