GENEALOGIA DEMOCRATICA: 9 - LOGOS MONOPOLITIKOS DI SALLUSTIO E SENECA
SALLUSTIO SENECA
Sallustio (86 a.C. - 35 a.C.) e Seneca (4 a.C. - 65 d.C.), con il
moralismo prima e lo stoicismo poi, affossarono definitivamente la Repubblica e
il pensiero democratico superstite.
Per loro anche il logos duopolitikos di Platone non andava bene.
Bastava il Monarca. Magari un Monarca illuminato, in grado di saper spazzare
via definitivamente la “faziosità delle lotte politiche tra la nobiltà e il
popolo” come causa della profonda corruzione (Sallustio, Bellum
Catilinae) della res publica (Sallustio, Bellum Iugurthimum).
Magari un Monarca clemente ( Seneca, De Clementia) quando occorresse “alla
virtù della clemenza, Seneca, assegna il compito di moderare il potere
illimitato del principe, che si erge contro un mondo pericoloso e intrattabile;
di rendere l’imperatore consapevole delle sue responsabilità di fronte ai
sudditi”.
La Repubblica è cancellata dal pensiero politico, figurarsi la
democrazia.
Ci si chiede ancora se scrissero i loro testi perchè ne erano
profondamente convinti o per aggraziarsi Cesare l’uno (Sallustio) e Nerone
l’altro (Seneca)?
Non importa.
Furono ugualmente entrambi vittime del Monarca che avevano esaltato.
Ciò che conta per il pensiero politico certamente e per quello
democratico probabilmente, è che con loro avvenne una nuova trasformazione
logico/cognitiva. Da allora in poi, infatti, il problema non fu più quello
relativo alla migliore forma di governo necessaria ed opportuna. Il problema
politico fondamentale divenne quello della legittimazione del potere, unico
vero fondamentale attributo del Monarca.
Quale era la fonte di quel potere enorme concentrato nelle mani di un
solo uomo? Perché era giusto ed inevitabile obbedire? Perché tutta quella forza
veniva legittimamente esercitata? Come e perchè la potenza doveva trasformarsi
in potere? e perché viceversa era giusto che del potere non restasse soltanto
la sua potenza?
Il principio di legittimazione, suo malgrado, entra nella storia del
pensiero politico e vi resta per molto, molto tempo. Per sempre.
Da quel momento in poi, è sulla base della propria legittimazione al
comando che gli imperatori possono ottenere il potere. Non è un caso se,
qualche anno dopo, Nerva (30 d.C. - 98 d.C.) e Traiano (53 d.C. - 117 d.C.) “divennero
imperatori non per diritto ereditario, ma perché individuati come le persone
più idonee a ricoprire la carica.”
Da un lato, dunque, “l’autocrazia dell’imperatore” veniva “posto
al vertice di una disciplinata organizzazione burocratica funzionale al suo
potere” e quindi “l’insostituibilità della monarchia era a questo punto
considerata evidente”; dall’altro lato, però, “l’imperatore si
configurava come un senatore che per le sue doti personali appariva più
meritevole di altri a reggere il governo”.
Non so con quanta attinenza (e con quanta spregiudicatezza) Paolo
Frasinetti e Lucia Di Salvo possano giudicare Sallustio “un uomo dal
convinto passato democratico”.
Di democratico in Sallustio non c’è proprio niente, niente di niente, se
non l’adesione fervida e interessata al partito dei populares, contro
gli optimates, che democratici certamente non erano. e la sua devozione
a Cesare, che ne tollerò e protesse le insufficiente. E Cesare stesso tutto
poteva dirsi, ma non proprio democratico. Paradossalmente proprio nelle Epistulae
a Cesare Frasinetti e Di Salvo rintracciano fantomatici elementi dello spirito
democratico di Sallustio. Nella I espitula il segnale della
democraticità sallustiana consisterebbe nel “insopprimibile moralismo, che
reclama insistentemente un programma di rieducazione morale dei giovani”.
Nella II epistula gli indizi democratici sarebbero invece riscontrabili
nella richiesta a Cesare, sia di un certo tipo di riforme realistiche e di
altre utopiche, sia nella restituzione della libertas repubblicana e
nella restaurazione della moralità antica.
Com’è ben evidente, l’interpretazione è forzata e nessuno dei due
frammenti giustifica un giudizio di sincerità democratica per Sallustio.
Intanto perché la morale rieducatrice non ha alcuna attinenza con la
democrazia, specie se si tratta di omologazione ai comportamenti del passato,
che tanto democratici (né morali) erano. Anche gli spartani educavano i giovani
a rigidi valori morali di tipo militare, ma non potevano certo dirsi
democratici. Poi perché è la richiesta a Cesare, celebrato come imperator
e dux, che annulla qualsiasi formulazione minimamente democratica.
Più corposa può apparire la “partigiana professione di fede
democratica espressa fin dal proemio” del Bellum Ingurthinum; ma non
è così. Se per proemio si intendono i paragrafi che vanno dall’1 al 5
del testo, prima cioè che si cominci a narrare della guerra contro Giugurta,
non ho trovato alcuna dichiarazione di appartenenza democratica. C’è scritto
della virtù degli uomini (1), della dinamica pitagorica tra anima e corpo (2),
del merito contro la violenza e l’odio (3), dell’inerzia come causa di
corruzione e malcostume e della fondamentale esigenza di storicità per
accendere l’animo di “ardente amore per la virtù”(4), ma non c’è scritto
nulla sulla democrazia.
Anche sul piano personale avrei poi qualcosa da ridire: egli fu
moralista e condannato a pagare al marito un cospicuo risarcimento per aver
approfittato delle grazie della moglie; fu contro l’ozio ed oziò; fu contro la
corruzione e scacciato per essersi fatto corrompere e per le ricchezze
impropriamente accumulate quando Cesare lo nominò Governatore della Provincia
dell’Africa Nova.
Direi: medice, cura te ipse.
Seneca non fu come Sallustio, fu molto peggio; non fosse altro perché il
suo imperatore di riferimento non fu Giulio Cesare, ma Nerone.
Anche Lui, “più che un filosofo in senso stretto, fu un moralista, un
consigliere spirituale, fornito di molta finitezza di osservazione, ricco di
profonde e vivissima esperienza umana che maturò nel corso di lunghi anni e di
attente meditazioni alcune convinzioni profonde”.
L’Imperatore di Seneca, unica istituzione politica possibile ed in grado
di ridurre alla sua sola ragione il caos derivante dalla diversità e dalla
complessità che un impero in espansione come Roma inevitabilmente comportava, deve
avere la “capacità di controllare il proprio animo riguardo alla facoltà di
punire”: deve avere clemenza. Si tratta di una mitezza del potere, la
“mitezza di un superiore nel fissare la pena contro un inferiore”.
Questa è la più grande virtù del potere che deve caratterizzare il principe in
ogni epoca storica. La clemenza è l’unica connotazione in grado di garantire un
salubre rapporto con i sudditi, affinché ne sia assicurata la fedeltà e
l’amore. Amore e fedeltà producono legittimità politica, unico elemento che
rende costante e continuativo il consenso e il rispetto del comando. Tuttavia è
proprio la clemenza, per il fatto di essere per il popolo e addirittura sul
popolo, che pone l’imperatore o colui che comanda, al di sopra e fuori di ogni
ulteriore controllo. L’equilibrio del potere è la conseguenza di un atto di
discrezionalità individuale. Al limite, culturale. Equilibrio e misura, sono i
principi a cui deve ispirarsi il potere monocratico dell’imperatore, come un
buon padre, indulgente, severo ma disponibile a perdonare i propri figli.
Naturalmente tutto questo non ha nulla a che vedere con la democrazia e nemmeno
con le forme dell’organizzazione politica tanto care al pensiero filosofico e
politico greco. Ha a che fare soltanto con il potere e con la sua
giustificazione, cioè con la sua legittimazione. Nel testo di Seneca
politicamente più rappresentativo, il De Clementia, è la morale la linea
di demarcazione tra un comportamento regale ed uno tirannico, l’assenza di
clemenza rappresenta viceversa la trasformazione totalizzante del principato in
dittatura. In Seneca c’è soltanto il potere monocratico del re. La volontà del
Senato è irrilevante.
Non concordo, dunque, con chi vede questo potere comunque una struttura
laica. Non dal punto di vista del ruolo o della funzione, ma dal punto di vista
della potenza, dell’imperatore di Seneca è una potenza totale, come quella
divina, nella stessa dimensione (anche se non nella stessa natura) del potere
faraonico dell’antico Egitto. L’imperatore romano, per Seneca, detiene la
stessa totalità della potenza di Dio (Giove), senza che possa minimamente
essere controbilanciato da qualsiasi altra istituzione. La sua clemenza è
discrezionale, talmente discrezionale che a lui stesso non fu riservata.
Arbitrio e forza; e volontà discrezionale e clemente per evitare che la forza
sia il solo arbitrio.
In ogni caso, l’utopica volontaria autolimitazione del potere imperiale,
non è il solo danno che Seneca arreca alla democrazia.
L’altro danno fatto da Seneca al pensiero democratico, dal mio punto di
vista, riguarda il miscuglio, il groviglio inestricabile tra concezioni
politiche. filosofiche, pedagogiche, morali, etiche e mille altri approcci
mischiati in un tutt’uno che non permette di distinguere nulla. Una presunzione
intellettuale confusa che inverte totalmente la precisa distinzione
epistemologica tra dire e fare, azione e parola, parola-azione. Seneca mischia
tutto con il suo fare pedante di maestro perennemente vecchio. In Seneca non
c’è un pensiero oggettivo e tanto meno oggettivabile, fondamento di qualsiasi
presupposto democratico, nessun approccio scientifico. C’è soltanto un
atteggiamento di paternalistica banalità. Oltre all’adesione allo stoicismo,
Seneca ci riempie di massime che annullano ogni razionalizzazione critica. Ci
soffoca con le sue infinite e indubitabili verità, totalmente ignare della
realtà delle cose.
Anche se sarà Tacito a dare un modello politico compiuto del principato,
è a Sallustio e a Seneca (a cui Tacito fa chiaro riferimento) che si deve il
provvisorio affossamento della democrazia: il passaggio al logos
monopolitikos. Il restringimento e la definitiva eliminazione della
democrazia è evidente: dal logos tripolotikos a quello duopolitikos a
quello monopolitikos: dalle forme di governo alla legittimazione del
potere. Il passaggio costante e graduale per la eliminazione di ogni concezione
democratica è di una evidenza lampante. Da allora in poi l’imperatore resterà
il vertice faraonico del corpus iuris civilis, la piramide legislativa e
giurisprudenziale di Giustiniano (482 - 565).
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