THE DYNAMIC OF THE CHANCE - international conference on "Freedom and Security in real and cyber space"
“I dwell
in Possibility -
A fairer House than Prose -
More numerous of Windows -
Superior - for Doors -
A fairer House than Prose -
More numerous of Windows -
Superior - for Doors -
Of Chambers as the Cedars -
Impregnable of Eye -
And for an Everlasting Roof
The Gambrels of the Sky -
Impregnable of Eye -
And for an Everlasting Roof
The Gambrels of the Sky -
Of Visitors - the fairest -
For Occupation - This -
The spreading wide my narrow Hands
To gather Paradise –“[1]
For Occupation - This -
The spreading wide my narrow Hands
To gather Paradise –“[1]
Emily
Dickinson
Possibilità
libere
La libertà dell’uomo consiste nell’abitare dentro le
possibilità della vita, in “ una casa più
bella della prosa”. Ciascun uomo nasce sotto “la volta del cielo” e, in quel momento, le sue possibilità sono
infinite; le stanze della vita, alte “come
cedri”, hanno porte superbe e speranze che si distendono, sterminate e
sfuggenti, dalla finestra all’orizzonte. Il futuro è talmente intenso e
profondo che “lo sguardo non può
penetrare”. L’uomo poi cammina, agisce, sceglie e sbaglia. Le sue
possibilità si riducono, quella stanza si restringe, le porte si chiudono, le
speranze si diradano. Alla fine resta soltanto la libertà di concludere.
Possibilità
condizionate
Sulla scorta del pensiero di Hobbes e del
giusnaturalismo, si è sempre creduto che una maggiore sicurezza comportasse una
minore libertà. Come se rispettare la regola e i regolamenti, riducesse la
libertà del cittadino.
È una idea totalmente sbagliata: sia perché, nonostante
le pretese di Hobbes, non c’è mai stata, né per gli umani né per alcune
tipologie di primati[1], una
condizione di homo homini lupus, una
condizione in cui, cioè, la forza di usurpazione dominasse la libera vita dei
singoli individui; sia perché un contratto sociale che protegge il più debole,
non è un fattore di riduzione della libertà, ma una estensione del suo
godimento medio.
Se poi si ritiene
che la riduzione della libertà corrisponda al rispetto di un comportamento
regolato e di una azione regolamentata, o peggio ancora che la sicurezza si
produca con i muscoli della polizia e l’occhio universale che controlla la vita
di ciascuno di noi, si vive in un film di fantascienza piuttosto che nella
società contemporanea. Nella fase di istituzionalizzazione del potere
conquistato con la forza degli eserciti, Napoleone diceva al suo generale
Lafayette che con le baionette ci si può far tutto tranne che sedervicisi
sopra. Per sedersi sopra i processi politici del mondo senza farsi del male,
oggi è sempre più necessario il consenso che deriva dalla reciproca,
controllata, coniugazione di libertà e sicurezza.
Non le armi, dunque, non la guerra, ma la libertà di
continuare a scegliere il proprio modello di sviluppo è la sicurezza più forte
per tutti i cittadini. E invece, ciò che accade oggi è un modello di sviluppo
imposto, ignoto, incomprensibile. Nessuno sa, veramente, fino a che punto i
criteri e le soluzioni proposte siano effettivamente corrispondenti al bisogno.
Nessuno è in condizione di verificare l’efficacia delle decisioni assunte. La
legittimità politica si regge sulla paura di scenari futuri devastanti. Un
terrorismo economico che, come il terrorismo politico, si nutre della
insicurezza e della paura. Il terrore dell’avvento di scenari orripilanti
blocca la speranza di tutti e la lascia nelle mani di un potere totalmente fuori
controllo, talmente fuori controllo che si ignora perfino chi lo detiene
davvero.
So bene che il mondo è complessivamente migliorato in
termini di sicurezza, libertà e sviluppo economico e sociale, anche se noi ne siamo complessivamente
inconsapevoli. Nonostante tutto abbiamo visto accresciuto e incentivato
ulteriormente il confronto, l’impegno, la conoscenza e lo scambio, tra persone,
idee, associazioni e istituzioni. Oggi più di ieri, anche se non sembra,
viviamo nella possibilità.
Ma il fatto politicamente rilevante è proprio che non
sembra.
Il potere degli altri su di noi è nel “non farlo sembrare”, nell’occultare ogni
occasione di vita per nascondere il futuro e nel prestabilire chi lo deve
gestire. Agli altri, gli esclusi, quelli che non devono sapere e non possono
partecipare, è lasciata la paura e una insicurezza sempre più profonda, sempre
più ancestrale, sempre più ingiustificata. Il potere di oggi diffonde un
nichilismo generale, direi collettivo, che ostruisce il passo e blocca
l’azione. Ti chiude in casa per paura, nell’insicurezza e semplicemente
nell’impossibilità. È il dramma della
prostrazione cognitiva, che ostruisce la percezione di ogni speranza, per
lasciare a chi conta e a chi detiene il potere nella società della
comunicazione, la gestione delle alternative.
Il potere nella società della comunicazione si esercita
gestendo le possibilità.
Nella società della comunicazione globale la dinamica
delle chance si governa con l’insicurezza. Il cittadino deve sentirsi libero di essere insicuro e
insicuro di essere libero. Il potere incontrollato è di nuovo, come sempre,
costruito sulla oscurità che produce insicurezza. Paura ancora. Si, ma non
paura nel presente, che induce la fuga, paura del futuro che orienta, che
accelera o blocca l’azione della “folla
solitaria”[2] di
utenti.
Che
cosa è questo potere presente e sempre più futuro della dinamica delle chanche?
Come può essere definito e compreso?
Non
possiamo farlo se non ci depuriamo dall’inquinamento cognitivo che fin qui ci è
stato indotto per trasmenterci la
opportuna quantità di insicurezza virtuale (non reale) necessaria per
governarci.
Finora,
infatti, ci è stato fatto credere, che una maggiore sicurezza comportasse una
necessaria riduzione di libertà o che, contemporaneamente, una eccessiva
libertà comportasse una minaccia alla sicurezza dei cittadini.
Niente
è più falso di questo. Si tratta di una verità che non ha nulla a che vedere
con la realtà in cui viviamo. Sono scenari di verità che servono per produrre
una determinata realtà.
Non
possiamo nemmeno più considerare cyber
e real space scissi, né possiamo affermare
che nel cyber space si affermano
verità di comodo che condizionano la nostra interpretazione del real space. Le fake news sono la realtà, proprio come le verità sacromagiche degli
sciamani erano la realtà degli indigeni. Sono uno dei modi più volgari che
abbiamo per condizionare le nostre possibilità: per produrre l’insicurezza
utile a limitare le nostre opzioni di scelta e la nostra libertà. Altre
tattiche di condizionamento elettorale più sophisticate, ma non troppo, le
abbiamo scoperte con il «caso di Cambridge Analytica» in cui una società di
marketing elettorale avrebbe utilizzato in modo illegale e scorretto i dati e
le informazioni, provenienti da Facebook, di 2,7 milioni di europei. Senza
aggiungere gli altri dati, in altre piattaforme continentali, ancora occultati.
Quei
dati, quelle informazioni sono state funzionali alla costruzione di un sentiment generalizzato in grado di
orientare le scelte elettorali e gli esiti politici. In grado cioè di ridurre
le opzioni di scelta riducendo le considerazioni critiche dei cittadini
elettori. Il dramma di tutto questo è che gli utenti sono rimasti totalmente
indifferent e spesso consenzienti, illusi di saper selezionare le news, quando
sono semplicemente rafforzati emotivamente nei loro pregiudizi. Dalla mattina
alla sera siamo ossessionati dalla paura del crimine sociale e politico, da un
terrorismo all’altro, e nessuno si chiede se questa generale insicurezza non
sia il presupposto per il controllo delle possibilità altrui e per il
condizionamento delle scelte. Come la sicurezza espande la libertà,
l’insicurezza la riduce.
È
stato così in tutte le mutazioni storiche?
Vediamo.
Sicurezza e
libertà nelle mutazioni storiche
In questi anni ho distinto[4] lo
sviluppo politico della società umana, secondo la fondamentale funzione del
potere, in quattro grandi mutazioni:
1.
l’avvento
dell’ontopower,
il potere ontologico della sopravvivenza, dalla conquista della posizione retta
alle piramidi egiziane, l’epoca della logica endofasica, quando dominava la
paura individuale e collettiva, quando sicuri per davvero non si poteva mai
essere, la minaccia alla vita era permanente e la libertà, cioè il distanziarsi
dalla comunità o dal gruppo, era un rischio costante;
2.
l’avvento dell’egopower, da Narmer, primo
faraone della prima dinastia egiziana, alle grandi rivoluzioni americana,
francese, inglese (e, forse, quella più distante e reattiva russa), il potere
egocentrico dell’autorappresentanza, l’epoca della logica formale, quando la
sicurezza era totalmente affidata al potere politico e la libertà era una
reazione, una forma di ribellione personale o organizzata;
3.
l’avvento
del biopower,
dalla rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino, in soli duecento
anni profondissimi di storia, in cui siamo passati (per traumi sconvolgenti)
dal cavallo al missile, la sicurezza era assicurata dal potere del controllo
della vita, dalla sua cura, dalla sua tutela, dalla sua gestione dalla culla
alla bara, l’epoca della logica computazionale, quando la libertà era autonomia
dalla regolamentazione burocratica dell’esistenza negli spazi di azione formale;
4.
l’avvento
dell’epipower,
dal crollo delle mura e delle torri a noi, il potere epistemologico dell’auto-rappresentazione,
la verità che produce realtà e anche la realtà che induce verità, la società
della comunicazione e l’intelligenza collettiva, l’ologramma della conoscenza e
le minacce di controllo, l’epoca della logica quantistica, oggi, con il potere che
si esercita gestendo la insicurezza degli altri, la sua dimensione funzionale,
il gradiente necessario per orientare le aspettative e il sentiment politico
degli elettori, in questa nostra epoca in cui la libertà è la difficile fuga
dalla omologazione della eterodirezione di massa.
Durante le 4 mutazioni, la filosofia politica è sempre
stata la narrazione di legittimazione del potere: nell’epoca dell’ontopower, quando le comunità dovevano
dare sicurezza ai corpi degli uomini, la filosofia politica doveva legittimare
il comando con l’attribuzione del potere a chi (e perché) ne aveva la potenza;
nell’epoca dell’egopower, quando le
società avevano bisogno di uno spazio da dominare, abbiamo elaborato una filosofia politica in grado di giustificare
la edificazione degli Stati con forme del governo (di uno, di pochi o di molti)
in grado di contenere e indirizzare la esorbitante energia-potenza del potere;
con l’avvento del biopower, quando
la differenziazioni in sistemi ci ha permesso di controllare (tutelare) il
tempo della vita individuale e collettiva, abbiamo sostituito la forma
all’azione, la tripartizione delle forme (dittatura, aristocrazia, democrazia)
con un processo politico che dal totalitarismo ci ha condotto alla democrazia
e, spesso, viceversa. L’azione cioè come metodologia di trasformazione della
energia sociale da potenza in potere (democrazia) o da potere in potenza
(totalitarismo); oggi, con l’avvento dell’epipower
nella società della comunicazione, quando i network possono essere clusterizzati
e separtiti da sentiment politici, emotivi e/o razionali, in grado
continuamente di rielaborare la mente globale a cui partecipiamo, abbiamo
bisogno di una nuova filosofia politica, di una nuova narrazione che sappia
legittimare il dinamico punto di
congiunzione di un potere/potenza eccedente e spesso eccessivo, perché di
dimensione superiore in quanto appare secondario (epifenomeno) ma non lo è
affatto, essendo sempre più assorbente delle cognizioni collettive, delle
verità che producono realtà, di religioni che si impongono, di fattori
morfologici in network politici che dosano autocrazia e democrazia in ogni
opportuno momento (epistemologico).
In tutte queste epoche storiche il potere si è dato
sempre principalmente uno strumento per regolare e regolamentare il rapporto di
equilibrio tra libertà e sicurezza: il diritto. Con la legge, di volta in volta
e nei più svariati argomenti, si è stabilito quanto e come un cittadino avesse
la libertà di agire e fino a che punto minacciasse la libertà altrui. Come si
ricorda spesso: la libertà di volteggiare il tuo pugno nell’aria finisce
laddove quel pugno incontra il mio naso. Questo principio hobbesoniano e
giusnaturalistico, è il fondamento su cui sono state formulate quasi tutte le
costituzioni moderne; ed anche il fondamento dei diritti etico politici che,
con più o meno intensità, sono stati introdotti in diverso modo e in diversi
sistemi giuridici[5].
È un principio validamente interpretato? Possiamo davvero
definire il divieto che quel pugno rompa violentemente il mio naso una libertà
repressa? E dunque possiamo davvero considerare il divieto che il diritto
stabilisce a quel pugno come una limitazione di libertà che permette una
maggiore sicurezza per il mio naso? O piuttosto non dobbiamo considerare che il
mio naso gode di maggiore libertà di respirare senza difficoltà proprio perché
ha la sicurezza che quel pugno non può raggiungerlo? E viceversa, quel pugno,
non ha la libertà di volteggiare in aria libero da ogni condizionamento e verso
ogni direzione proprio perché non può e non deve fermarsi su nessun naso?
I sistemi di controllo di cui il potere si dota, nei
limiti stabiliti dal principio democratico, non costituiscono una limitazione
perché non è una libertà quella di offendere con un pugno qualsiasi un
qualsiasi naso. Quel controllo giuridico, tecnologico e poliziesco, nei limiti
che la democrazia consente, sono una estensione, non una riduzione della nostra
libertà e contemporaneamente della nostra sicurezza. Per venire qui oggi sono
stato obbligato al rito del metal
detector e all’impedimento di trasportare esplosivi; ma quell’impedimento
non è una riduzione di libertà. È una sicurezza che garantisce a tutti la
libertà di viaggiare. Nessuno avrebbe più la libertà di prendere un aereo se
fosse ogni volta sottoposto al rischio di esplodere in volo. Diceva Niklas
Luhmann[6] che
la minaccia che piova diventa un rischio se non mi porto gli ombrelli. Dobbiamo
costruire ombrelli per avere la libertà di poter camminare sotto la pioggia,
con la sicurezza di non finire inzuppati d’acqua.
Siamo più liberi perché siamo più sicuri.
Siamo più liberi soltanto quando siamo più sicuri.
In questi anni ho studiato i problemi della violenza
politica e del terrorismo. Sono stati anni tremendi. Dalla fatidica data
dell’11 settembre 2001 abbiamo condiviso e ripristinato la paura ancestrale
della sopravvivenza. Solo oggi abbiamo davvero la consapevolezza di quanto lo
shock del crollo della infinita edificazione abbia influito sul sentimento
profondo della nostra vita. Sulla nostra speranza. E quindi sulle nostre
possibilità.
Eppure, oltre ogni letteratura della catastrofe, in
questi negli ultimi anni abbiamo vissuto
qualche chance in più. Nonostante tutto abbiamo vissuto meglio.
Nella nostra recente storia è già successo. Il salto
quantistico e violento dentro l’era atomica. Con la ferocia ineliminabile di
permanenti radiazioni di morte, con l’onda d’urto delle bombe che hanno piegato
il mondo, siamo entrati tuttavia in un’epoca di inusitata pacificazione e di
sicurezza. Abbiamo avuto una più ampia libertà delle chance che ci hanno
offerto la conoscenza scientifica, le crescenti relazioni etiche e la costante
riduzione della violenza.
Il consenso oggi è assolutamente funzionale alla
articolazione del potere.
La minaccia
del consenso funzionale
Nella democrazia liberale da cui proveniamo, eravamo
abituati a considerare il consenso come la variabile indipendente dei sistemi
democratici. La democrazia era tale soltanto se le sue decisioni venivano prese
sulla base del consenso espresso direttamente o indirettamente dai cittadini
elettori. Così siamo stati educati. Nella scienza politica, si parla di
“democrazia minima”, cioè ridotta all’osso, “solo se abbiamo la compresenza di quattro variabili: 1 – l’esistenza
del suffragio universale; 2 – la possibilità di praticare elezioni libere
competitive, ricorrenti e corrette, cioè elezioni che possano ripetersi, che
abbiano una scadenza nella responsabilità di governo e che siano appunto
«corrette», cioè nel rispetto delle regole; 3 – una pluralità di partito,
almeno due, meglio se più di due; 4 – l’esistenza di alternative fonti di
informazione, affinché possa essere possibile presentare e rappresentare le
proprie posizioni senza che posizioni dominanti … finiscano con il manipolare
la normale «competizione» democratica”[7].
Come è evidente, il minimo comun denominatore di queste
variabili comuni a tutte le democrazie liberali è il consenso. In ogni
democrazia, il consenso legittima il potere. Nella teoria aristotelica delle
forme è il consenso che distingue gli idealtipi costituzionali (dittatura,
aristocrazia, democrazia). Nella teoria dell’azione di Hannah Arendt è il
consenso, ricercato sia nella democrazia che nel totalitarismo, che trasforma
l’azione sociale in relazione politica. In ogni economia liberale il consenso all’acquisto
dei prodotti orienta il mercato e salva il sistema dalle sue cicliche crisi. Il
passaggio dalle economie industriali alle economie di consumo fino alle attuali
economie finanziarie è stato dettato dal consenso. Oggi, infatti, con l’economia finanziaria ormai imperante e
condizionante delle produzioni industriali, il consenso degli azionisti è
fondamentale. Tanto che, come spiegava benissimo John Kenneth Galbraith, i consumatori
sono essi stessi, con le azioni che posseggono, i proprietari delle imprese che
producono. Una reputazione negativa allontana gli investimenti in borsa sulle
azioni rese disponibili nel mercato. Il consenso è assolutamente fondamentale
per il rastrellamento dei micro finanziamenti sul mercato azionario e per il
consumo dei prodotti.
Non sarà un caso che dove c’è maggiore democrazia c’è
maggiore ricchezza. La democrazia è l’unico luogo al mondo dove si possono
concretizzare affari lucrosi con il consenso dei cittadini. Dunque, il consenso
non va assolutamente abrogato. Senza il consenso il potere ha una minore
potenza e la ricchezza circoscritta a pochi non dura molto. La democrazia ha
bisogno assoluto del consenso e le grandi Corporation della società della
comunicazione hanno bisogno della democrazia. Le prime 10 organizzazioni
economiche del mondo realizzano i loro affari miliardari in internet, dove,
rastrellando un euro a internauta, si ottengono enormi capitali. Cifre che
nessuna organizzazione criminale, nonostante la sua enorme violenza, riesce a
rastrellare. Come farebbero senza il consenso?
Senza il consenso, senza la democrazia liberale che
conosciamo, non esisterebbe nemmeno il cyber space. Il consenso, che era
funzionale alle economie liberali, è ora anche funzionale al potere della
società della comunicazione.
Allora: se il consenso non può essere abrogato senza un
danno irreversibile ai sistemi economici contemporanei e alle ricchezze
ultimamente accumulate; se il consenso è così rilevante sia per la produzione
di plusvalenze economiche e politiche, per le rendite finanziarie e
amministrative, per la vendita delle produzioni e la reputazione personale; se
è così importante per il potere, non può restare libero. Non può essere
costretto o represso? Allora deve essere controllato, condizionato. Può essere gestito, governato, indirizzato,
orientato, controllato, condizionato. Il consenso deve essere funzionale al
potere. Esistono, infatti, sempre più sofisticate metodologie e tecniche di “sentiment” - cioè di orientamento delle
aspettative per la produzione di un consenso finalizzato e funzionale – nel
marketing economico e politico. E il marketing non è nient’altro che
l’orientamento del consenso all’acquisto e al voto.
Il più ancestrale, emotivo, emozionale, fisico, cognitivo,
incontrollato, devastante fattore di
controllo delle aspettative di massa e orientamento del consenso è la paura. La
paura ci domina. La paura ci riduce e ci conduce. La paura pesa sulla rete
delle relazioni sociali che ci proteggono e le piega, le rende concave. Le onde
di comunicazione relazionale sono curve come le onde magnetiche. Come pianeti
nell’universo della socialità, gli eventi - virtuali o fisici non importa - curvano
lo spazio, sia cyber che real, intorno a noi con il loro peso. E noi scivoliamo
costantemente attratti dalla più o meno ripida e profonda curvatura della loro
influenza.
Gli eventi che pesano di più sono indubbiamente quelli
che generano paura. Non una paura assoluta. Una paura relativa, dosata
precisamente al fine di indurre il consenso sulle decisioni che si è stabilito
che si debbano prendere. È indispensabile cioè produrre l’insicurezza
necessaria ed opportuna per il sostegno a scenari di verità che possano,
successivamente al consenso funzionale ottenuto, generare la realtà che si era
programmato di avere.
È sempre più il cyber che genera il real.
Sempre meno il real si riflette nel cyber.
Per far questo l’insicurezza, o meglio, la percezione di
insicurezza è assolutamente necessaria, perché induce la paura dosata, quella
che serve ad orientare le aspettative e a produrre consenso.
E a decervellare.
A decervellare per omologare. L’insicurezza
è causa ed effetto del decervellamento
del cittadino utente, dell’assenza di una comunicazione critica, della
ossessiva presenza di una informazione finalizzata alla costruzione di scenari
di verità che spesso non sono per niente corrispondenti alla realtà.
In ogni caso, il consenso, che era per noi il presupposto
della democrazia, oggi può diventarne la minaccia, nella veste di quel trend
che noi chiamiamo impropriamente populismo, e che invece è decervellamento, la anestetica accettazione di pregiudizi politici
che servono a lenire la paura indotta da una insicurezza collettiva
appositamente prodotta. Una insicurezza, cioè, che causa ed effetto della
paura: che è per noi oggi la più sofisticata e occulta restrizione della
libertà. La nuova minaccia alla democrazia è la insicurezza psicotica dei
cittadini utenti, vittime di un consenso indotto per essere funzionale. La
democrazia della comunicazione è minacciata dalla competenza occultata dalla
insicurezza di far desiderare agli utenti consumatori elettori di comprare
prodotti pre-confezionati e votare per soluzione prestabilite. La maggior parte
delle leggi elettorali, per esempio, precodificano le soluzioni politiche e
spesso prestabiliscono chi deve essere eletto e chi no.
Dinamica
delle chance
Viceversa, in questa epoca di facili invasioni, di
invadenze concordate tra poteri globali, io continuo a sostenere il nesso inscindibile
tra sviluppo, sicurezza e libertà.
Questo nesso è il valore della democrazia in cui vogliamo
vivere e a cui ci dobbiamo appellare.
L’insicurezza della nostra vita
virtuale è il prodotto di uno sviluppo assente in molta altra vita reale. Troppo spesso il
pregiudizio contro gli immigrati, quel processo per cui lo straniero diventa
estraneo, è funzionale per coprire la concentrazione della ricchezza e la
parallela estensione della povertà. Insisto nel credere che, per quante strategie
communicative di produzione della insicurezza ci industrieremo ad elaborare, con strumenti sofisticati e costosi, mai noi depotenzieremo
la carica rivoluzionaria e conflittuale della povertà.
Nella società della comunicazione globale la libertà è il
prodotto della conoscenza, della cultura e della convivialità nelle relazioni
tra umani. Ne sia riprova inequivocabile il fatto che l’insicurezza percepita
non è più, assolutamente corrispondente alla insicurezza subìta. L’insicurezza
è assolutamente prodotta per indirizzare emotivamente gli esiti elettorali e
per costruire un sentiment
comunicativo acritico e omologante. L’insicurezza riduce la libertà e induce la
povertà.
Sicurezza, libertà e sviluppo sono, invece, i tre vettori
che si incrociano in un solo punto, che si intersecano nel punto di equilibrio
in cui viviamo la nostra vita politica, economica e sociale. Quando le
decisioni politiche spostano l’equilibrio dei network relazionali della nostra
vita, la società rischia continuamente di debordare verso l’asse della sicurezza
eccessiva che diventa controllo, o verso l’asse dello sviluppo irrefrenabile
che diventa crescita, o infine verso l’asse della sregolata libertà che diventa
sopraffazione. Per poter continuare a vivere nella possibilità e per lasciare
integra questa speranza alle generazioni successive, dobbiamo mantenere
l’equilibrio dinamico tra sicurezza, sviluppo e libertà.
L’equilibrio nella dinamica delle chance tra sicurezza,
libertà e sviluppo, ci fa capire precisamente che tipo di democrazia nuova è
quella contemporanea della comunicazione. Prima avevamo forme contrapposte
(dittatura, aristocrazia, democrazia) . Poi abbiamo avuto azioni opposte
(totalitarismo, democrazia). Ora abbiamo intervalli composti. Prima sapevamo
sempre dove stavamo, come eravamo posizionati. Ora non lo sappiamo più. Lo
dobbiamo stabilire di volta in volta. Dipende dalle dinamiche delle chance che
ci offre l’intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo.
Oggi, a un estremo dell’intervallo, nel network sociale
in cui viviamo abbiamo una polarizzazione autocratica. All’altro estremo
abbiamo una polarizzazione democratica. D’altronde una rete è fatta di poli e
connessioni. La connessione da un polo all’altro è sempre un intervallo.
L’intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo, con la dinamica delle chance
che ne consegue, ci dice, di volta in volta, per ogni scelta assunta e per ogni
decisione presa, a che punto dell’intervallo auto-demo siamo
posizionati. In ogni momento il nostro network politico sociale ed economico,
per ogni legge approvata, per ogni peso in grado di curvare la rete della
nostra vita, in relazione alla pendenza della curvatura, possiamo dire se il
nostro network tende ad essere più segregato o più integrato[8], più
autocratico o più democratico[9].
Tutto dipende dalla dinamica delle chance a nostra disposizione, cioè cioè la
dinamica di quelle chance possibile all’interno del nostro dominio relazionale,
che si producono dalla intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo.
In cyber
space: scenari di verità
Il fatto è che in questo mondo contemporaneo di verità
non corrispondenti alla realtà e di
sentiment condizionanti, gestire la percezione di insicurezza degli altri è
la più tenace espressione del nuovo rapporto tra potere e potenza. Un rapporto
essenzialmente cognitivo, che ci rende liberi di essere omologati e certi di
essere insicuri. Possibile che nessuno si chieda davvero come mai, nonostante
che i dati sulla violenza siano statisticamente e storicamente decrescenti, la
percezione di insicurezza è psicologicamente e socialmente crescente? Se
abbiamo sempre meno violenza, perché abbiamo sempre più paura? E
paradossalmente, perché hanno più paura i paesi in cui la violenza è più bassa,
l’aspettativa di vita più alta e la ricchezza maggiormente distribuita? Perché
la percezione di insicurezza è più forte dove la sicurezza è maggiore?
Perché con la paura si governa il presente e si programma
il futuro.
È l’insicurezza a limitare la libertà. La sicurezza la
estende.
L’insicurezza generata e propagata nel cyber space induce paura e riduce la
libertà di vivere nel real space.
Quanti di noi evitano di attraversare delle strade nelle loro città soltanto
perché i media hanno diffuso la
preoccupazione del crimine, o dello straniero aggressivo, o dello psicopatico
trasformato in serial killer? Quanti
hanno paura di lasciare i figli nella scuola pubblica perché hanno visto in
televisione il caso di alcuni insegnanti che maltrattano i bambini? Quanti
pagano per questo le scuole private o religiose, che riducono i servizi per ridurre
i costi e incrementare il guadagno, convinti di una migliore educazione per i
propri figli? Quanti si fanno curare da costose cliniche private, che per
risparmiare riducono le terapie più complesse, perché gli ospedali pubblici
sono meno accoglienti? Quanti pensano che le mamme maltrattano o uccidono i
figli perché hanno seguito un caso sconvolgente in un programma di moda? Le
mamme invece curano i figli, li proteggono, li accudiscono; gli ospedali
pubblici sono in genere più efficienti delle cliniche private; e gli insegnanti
delle scuole pubbliche, se ben selezionati, sono migliori dei loro omologhi
nelle scuole private, almeno perché sviluppano una esperienza in più rapporti
di diversa cultura ed estrazione sociale.
Nel cyber space il male è pubblico. Il bene è privato.
Il male pubblico è più evidente e il più emotivo, il più
enfatizzato.
Il bene privato, anche se molto di più, passa in ombra,
nello sfondo del palcoscenico, non è protagonista, nascosto dalle telecamere,
ignorato dai social. Nessuno se ne accorge, anche se è tanto, notevolmente di
più.
Con la paura si governano le connessioni cognitive
collettive, si governa l’insicurezza e si riduce la libertà dei cittadini.
Con la insicurezza ci si appropria della nostra libertà,
si lascia a un potere incontrollato e incontrollabile la gestione del nostro
futuro, la proprietà monopolistica delle nostre incommensurabili possibilità.
La nostra libertà sta invece nel rendere democratica l’energia-potenza
del potere, sta interamente nel comprendere
e ridurre il paradosso della insicurezza
e della paura mediatica in una vita imitata. Viviamo nella possibilità di
cogliere il valore culturale e comunicativo
dello sviluppo. Espandendo le dinamiche del confronto viviamo la libertà
di superare i vincoli rigidi della informazione codificata. Abbiamo l’occasione
di scegliere ogni volta un diverso punto di equilibrio generale cercando di
comprendere dove si colloca, in ogni nostro momento, quella magica intersezione
tra le istanze politiche di sicurezza, libertà e sviluppo di ogni aggregazione
umana.
Possiamo volere; che è l’unica forma di superamento della
paura e della insicurezza nella società della comunicazione. Vivere all’altezza
dei tempi, come diceva Ortega y Gasset, significa cogliere la possibilità che
ci offre ogni società in cui viviamo per affermare l’intelligenza dei nuovi
compiti, delle priorità, delle metodologie che la comunità politica deve
sviluppare per ripristinare l’equilibrio nel complesso sistema di relazioni
locali e globali, nazionali e internazionali.
Contro tutte queste possibilità, invece, noi percepiamo
il propagarsi della violenza e della corruzione nel mondo, padrona di
tecnologie più avanzate e metodologie
sofisticate, come il prodotto di un generale squilibrio tra le parti.
Quanta sicurezza c’è nella protezione dei sistemi
connettivi?
Quanto sviluppo c’è nella transizione dei sistemi
socio-tecnici in net society?
Quanta libertà, individuale e collettiva, assicurano a
tutti noi oggi le azioni incontrollate dell’intelligence?
Internet è uno spazio di liminalità, un luogo che ha cambiato i metalivelli, cioè i
criteri una volta insuperabili con cui abbiamo
organizzato la nostra vita. Internet è un viaggio totalmente
destrutturato, senza tempo e senza spazio, che vive al fianco del tempo e dello
spazio strutturato della nostra società. Oggi internet sta assorbendo le nostre
città, con i suoi simboli, con i suoi significati e più di tutto con i suoi
criteri. La minaccia telematica può, dunque, essere molto più pericolosa di quella
tradizionale, perché s’insinua nel silenzio informatico dentro il quale
estendiamo il pensiero, perché è occulta e imprendibile, ci isola da ogni punto
di riferimento e ci travolge nella solitudine metropolitana. Che cosa
accadrebbe se i terroristi destabilizzassero via internet la rete di energia
elettrica di Milano o avvelenassero l’acquedotto di Roma? Quale azione di
contrasto potremmo esercitare se ci bloccassero i telefoni?
D’altronde, la seconda guerra
mondiale gli alleati l’hanno vinta anche grazie alla competenza di Turing, un
oscuro scienziato inglese, vissuto nel fumo e nella penombra dei sobborghi di
Londra, ma che nel frattempo ha inventato il linguaggio computazionale dei
nostri computer, le macchine che si autoproducono e ha decodificato i messaggi
crittografati delle comunicazioni naziste. E ha avuto per premio una mela
avvelenata. Già allora erano preponderanti i problemi relativi alla
informazione, alla comunicazione e alla sicurezza, alle reti, cioè alla
rivoluzione connettiva e alla sua incidenza sulle trasformazioni del sistema
politico internazionale.
Se penso che Bin Laden, prima ancora
di destabilizzare la città di New York ha destabilizzato le borse mondiali, se
penso alla corrosività dell’usura e alla invadenza tecnologica delle organizzazioni
malavitose sulle uniche vere attività di e.commerce come la prostituzione, la
pornografia, il traffico internazionale di droga e di molti altri business
imprendibili ma estremamente lucrosi; e poi vedo la depressione implosiva di
tanti uomini e di tanti territori soffocati da una realtà tossica che sorregge
la finanza purificata dalla tecnologia; ho una percezione fisica di cosa
significa modernizzazione, tecnologia e crescita senza sicurezza delle imprese
delocalizzate; so quanto residuale è la nostra libertà di agire e so quale è il
loro inscindibile rapporto.
In real
space: la politica della paura
Pitirim Sorokin affermava che la
crisi della sicurezza nel nostro tempo, sta nella presenza di uomini senza Dio
e valori morali assoluti, anarchici, privi di obbligazioni contrattuali, uomini
senza vincoli e responsabilità che possono dare sfogo ai loro desideri e alle
loro voglie smodate.
La storia degli ultimi anni, e la
cronaca di questi giorni, hanno totalmente smentito anche questa opposta e per
certi versi complementare interpretazione.
La destabilizzazione terroristica è
un atto derivato da una troppo forte presenza di Dio, della fede, della fedeltà
a valori morali assoluti, che piegano le vite di molti esseri umani. I
terroristi non hanno desideri e voglie smodate. Vivono in luoghi appartati e si
sacrificano, il loro è un martirio sull’altare di una fede e di una ideologia.
In ogni caso quella è una forma religiosa di partecipazione alla vita sociale e
politica caratteristica delle comunità sacromagiche piuttosto che delle società
industriali.
Il passaggio della modernizzazione e
dello sviluppo è proprio questo: la transizione dalla comunità alla società,
dai sistemi ai network. Finché nel mondo continueranno ad esistere ampie
comunità sacromagiche in cui la miseria è l’alveo di un fondamentalismo che
taglia mani e teste, che schiavizza categorie di uomini e donne, che toglie la
vita a discrezione personale in nome di una fede universale, la sicurezza non
sarà garantita a nessuno. E non ci può essere alcuna azione repressiva in grado
di arginare un fenomeno così ampio e pervasivo. Se nelle zone interne
dell’Afghanistan, dove non conoscono le televisioni, sentono sfrecciare aerei
senza sapere che cosa sono, o in Africa dove i bambini muoiono bruciati da un
virus influenzale, o perché non hanno acqua, o perché non hanno cibo. Se si
portasse sviluppo economico e sicurezza sociale, lavoro, ricchezza e medicine,
sarebbe la forza felina delle madri ad evitare che i figli divengano bombe
viventi.
La questione è sfuggente.
L’equilibrio è indefinibile.
Ma la paura è rimasta, sempre più fisica e palpabile,
veicolata dai mass media e prodotta da moltiplicatori comunicativi, in veste di
criminali o di terroristi. Perché quella paura è la forza del potere, non
quella energia che costruisce il futuro, ma quella forza che ci sciaccia nel
buio dell’assenza di volontà, per espropriarci di ogni possibilità.
Forse il compito che dobbiamo assegnare, fin dall’inizio,
alle nuove Istituzioni politiche consiste proprio nell’individuare il punto di equilibrio
auto-demo, dettato dall’intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo, tra
tendenze travolgenti che, senza la politica, rischiano di andarsene ciascuna
per proprio conto.
La politica è un fatto sociale totale, che attraversa
trasversalmente tutti i sistemi economici, sociali e culturali della nostra
vita moderna, per ridurne la complessità con scelte e consecutive decisioni. Il
primo oggetto dell’azione politica, da sempre, fin dalla costituzione delle
comunità, delle società, dei sistemi e dei network, è quello relativo alla produzione e alla
gestione della speranza dei suoi cittadini. Al contrario, quando la politica
riduce la speranza, quando produce insicurezza e paura, è un’aberrazione, una
degenerazione, una regressione, in qualche modo, una corruzione della socialità
e della civiltà. L’obiettivo ultimo della politica consiste nell’individuare,
ovunque, nei flussi migratori, nella geopolitica nazionale ed internazionale,
nella organizzazione delle metropoli, nei sistemi produttivi, nelle strutture
militari e militanti, il problema complessivo della speranza complessiva. E
dovrebbe far questo con progetti specializzati che si inseriscano coerentemente
nella dialettica tra sicurezza, sviluppo e libertà individuale e collettiva.
Una dialettica che va tutelata ed estesa.
Il diritto
della possibilità
Secondo Jurgen Habermas le
possibilità hanno una loro condizione giuridica concreta: si chiamano diritti. I
diritti, nella filosofia politica, sono “condizioni
di possibilità per l’effettiva autonomia del singolo individuo”[10].
Habermas distingue 5 tipologie di diritti: libertà individuale, status sociale,
giuridici, politici, economici[11].
Se le possibilità sono il dominio
dinamico prodotto dalla interazione tra sicurezza, libertà e sviluppo, allora è
necessario che vi sia un diritto ad avere possibilità. Almeno ad avere pari
possibilità. Nelle democrazie della comunicazione contemporanee questo diritto
deve essere politicamente tutelato e garantito, un diritto alla felicità, come
previsto nella dichiarazione di indipendenza
degli Stati Uniti d’America, fin dal 4 luglio 1776 [12].
A causa di questa grande mutazione rischiamo
di cadere nel vuoto della delegittimazione. Rischiamo un habitat sociale pieno
di azioni e senza interazioni, in cui la disobbedienza si trasformi in
distruttività aggressiva o regressiva. In tutti e due i casi si spezzano i
legami della legittimazione politica del potere. L’azione sociale rischia di
perdere gradi di libertà perché condizionata, indotta dai principi di
omologazione culturale. In questa situazione la complessità diventa
complicazione, cioè non si riesce più a clusterizzare,
a tenere insieme i poli di un network che diventano autoreferenziali perché
troppo differenziati. Non ci sono più idee, tantomeno gli ideali che svolgevano
la funzione di accreditare una imprecisa modalità di interazione. La democrazia,
così come l’abbiamo conosciuta, viene disarticolata con la percezione di
insicurezza, proprio al fondamento della sua attrattiva identità: tutelare più
di tutti la sicurezza complessiva dei suoi cittadini. Nel cyber space si propaga la percezione di
insicurezza sociale, mentre nel real space si sente l’insicurezza economica di
un modello di sviluppo che non regge. E
la libertà politica è occultamente minacciata [13].
Libertà:
etica della sicurezza
“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”.
Questo è il manifesto del liberalismo, redatto come iscrizione sepolcrale di
Immanuel Kant. Tra il cielo stellato e l’imperativo morale, tra la infinita
possibilità di agire e la mia volontà c’è l’etica politica delle istituzioni e
dei cittadini comuni. L’equilibrio tra le parti, il generale equilibrio del
sistema, esiste soltanto se resiste un’etica della politica in grado di
arginare la discrezionalità di chi vuole eccedere. Si deve arginare chi, in
nome della sicurezza vuole imporci ogni controllo; bisogna frenare la
dismisura, la spinta e la pressione di coloro che credono di avere la libertà
di fare quello che vogliono; bisogna limitare chi vuole crescere a dispregio di
ogni altra forma di integrazione con l’habitat. La nostra filosofia deve
sfuggire l’estremo[14].
Se c’è nella comunicazione civile una radicata etica
politica, il rischio della scomposizione degli elementi sociali, il pericolo di
imboccare la strada del dispregio non
c’è. Con un’etica della politica profondamente connaturata alle radici della
società noi possiamo procedere senza debordare dal punto di intersezione tra
sicurezza, sviluppo e libertà; noi possiamo evolvere senza perdere
l’equilibrio. Naturalmente l’etica politica non può essere normata, cioè
regolamentata per legge. Se lo fosse non sarebbe più etica e rischierebbe di
istaurare un regime fideistico di nuovo tipo. Gli Stati etici sono una
impressionante minaccia alla libertà e alla democrazia, come la storia ha
abbondantemente dimostrato.
Oggi questo, radicare l’etica, è il compito della
educazione. Con i mezzi di comunicazione di massa in azione permanente, l’etica
politica può assumere una funzione di regolazione dei comportamenti,
dell’azione, delle relazioni e delle interazioni, che porti l’intersezione
sicurezza, libertà e sviluppo sempre più vicina al punto di equilibrio della
maggiore civiltà.
Il sentiment, le
emozioni collettive della società multimediale travolgono poteri e potentati,
come diceva Margaret Mead: “vi sono canzoni che hanno distrutto re e reami”.
Spesso le minacce alla libertà, troppo cantate, non vengono più percepite. Tuttavia
c’è un’etica evidente e crescente nel cyber
space. Ogni reato diffuso, divulgato in modo virale, alla fine distrugge
nel real space il suo artefice. È un
dato che viene troppo poco analizzato. L’orrore che spesso si propaga nel web
determina restrizioni molto forti alla vita reale dei colpevoli. Se si
controllano gli effetti prodotti dal bullismo mediatico o dalla reazione al
crimine, anche soltanto in termini di dtigma comunicativo, ci si accorge che le
preoccupazioni per le volgarità del cyber space sono eccessive. Di fatto c’è
sempre una durissima e radicale reazione, anche solo per mantenere una
reputazione, contro i bulli o i
criminali nel real space.
Anche nel web, la maggior parte del comportamento umano è
etico e tende alla convivialità. Ci aiuta decisamente l’educazione, anche
sempre meno è quella scolastica. Se l’educazione all’etica si estende, si
approfondisce e seleziona la comunicazione, allora le lacerazioni sociali, le
privazioni economiche e la libertà dei cittadini, verranno ricompose in una
nuova dimensione della democrazia.
Certo, il futuro è sempre più impenetrabile. Speriamo
sempre che sia frequentato da “gente più
amabile”. E lo è. Anche se ci sembra, invece, che ogni giorno che passa non
siamo più gli stessi; che non siamo mai gli stessi. L’uomo nella società della
comunicazione può vivere contemporaneamente
in mondi diversi, in universi paralleli. Il potere vuole schiacciarci,
con l’insicurezza e la paura in un eterno presente monodimensionale. Chi è
ossessionato dai soldi e dalla crisi non può certo pensare al domani. Se
nessuno pensa al domani qualcuno lo programma per tutti, con qualche vantaggio
per sé. Le crisi di panico ci schiacciano nel buio della nostra stanza e il
futuro si riempie di incubi. Ma possiamo sottrarci alla tirannia dell’inerzia,
la nostra vera nemica, la nostra oppressiva dominatrice. Se ci soffoca il buio
di una stanza chiusa possiamo uscire di casa. Se il modello di sviluppo che
abbiamo non ci offre soluzioni credibili, cambiamo il modello di sviluppo. Non
si esce da una crisi, diceva il compianto prof. Farnetti, senza una innovazione.
La crisi riverbera se stessa e la migliore normale amministrazione non fa che
rafforzarne le cause. Bisogna rompere il meccanismo autoreferenziale
dell’autodistruzione, come fece il moltiplicatore Keynesiano e il welfare
state. Bisogna interrompere la macchina schiacciasassi di questo potere che sta
frantumando anche noi con la insicurezza di tanti micro pezzetti abbandonati e
soli tra il cyber e il real space. Forse la dispersione delle nostre
frammentate cognizioni ci sta emarginando, ci sta alienando cognitivamente, ma
noi possiamo spalancare le nostre “piccole
mani”. La speranza è un atto liberatorio. Dobbiamo riformulare il progetto
didascalico della educazione, ci dobbiamo ri-educare alla lebenswelt, alla scienza della vita, per cambiare il modello di
sviluppo e costruire una democrazia della comunicazione di nuovo tipo. È questa
la politica. È questo un impegno all’altezza dei tempi. L’unico che può
sconfiggere l’insicurezza e la paura, rivitalizzare le nostre consapevolezze e
le nostre coscienze “per colmarle di
paradiso”.
[1]“ Io abito la possibilità, una casa più bella della prosa / Con tante finestre in più e porte migliori / Ha stanze come cedri dove lo sguardo non può penetrare / E per tetto sterminato / La volta del cielo /
La frequenta la gente più amabile
/
Così vi passo il tempo / Spalanco le mie piccole mani /Per colmarle di paradiso.“
[2] Tommasello Michel, STORIA
NATURALE DELLA MORALE UMANA, Raffaello Cortina Editore, Minano 2016
[3] Riesman David, LA FOLLA
SOLITARIA, Il Mulino, Bologna 2009
[4][4] Ceci
Alessandro, COSMOGONIE DEL POTERE, Ibiskos, Empoli 2011
[5] Vedi: Croce Mariano e
Salvatore Andrea, FILOSOFIA POLITICA. LE NUOVE FRONTIERE, Laterza, Bari 2012
[6] Luhmann Niklas, SOZIOLOGIE
DES RISIKOS, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1991
[7] Sorice Michele, DEMOCRAZIA,
RAPPRESENTANZA, INNOVAZIONE DEMOCRATICA, in Mannari Enrico (a cura di), LEZIONI
SULLA DEMOCRAZIA, Bruno Mondadori Editore, Milano 2016
[8] Vedi: Lomi Alessandro, RETI
ORGANIZZATIVE, Il Mulino, Bologna 1991
[9] Rimando per questo ad una
prossima pubblicazione dal titolo emblematico: IL PUNTO AUTO-DEMO
[10] Croce M. e Salvatore A.,
cit. 2012
[11] Habermas Jurgen, FTTI E
NORME. CONTRIBUTI A UNA TEORIA DISCORSIVA DEL DIRITTO E DELLA DEMOCRAZIA,
Guerini e Associati, Milano 1992
[12] “Tutti gli uomini sono stati
creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti
inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle
Felicità; allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i
Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; ogni
qual volta una qualsiasi forma di Governo, tende a negare tali fini, è Diritto
del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo, che ponga le
sue fondamenta su tali principi e organizzi i suoi poteri nella forma che al
popolo sembri più probabile possa apportare Sicurezza e Felicità.”
[13] Il fondamento del nostro vecchio modello stava nella
libertà e nella democrazia come sua istituzione politica. La rivoluzione
industriale e la innovazione produttiva era il suo istituto economico. Il
consumo di massa dettava le regole del sistema di riproduzione. La solidarietà
sociale serviva alla distribuzione della ricchezza. La tranquillità
capitalistica ha determinato l’accumulazione, non dei mezzi di produzione –
come previsto da Marx – ma del potere con la competenza comunicativa nella
gestione delle aspettative e la minaccia alla sicurezza individuale e
collettiva dei cittadini. La soluzione potrebbe essere nella estensione della
sicurezza in territori e fasce sociali nuove e altre; nella assenza di
discrezionalità e nella possibilità di partecipare ai benefici dello sviluppo
economico e sociale. In parte è anche così; ma è una estensione che
interiorizza, in tutti i protagonisti, la insicurezza degli altri mondi e degli
altri soggetti sociali. È proprio la insicurezza interiorizzata tramite il
cyber space ad escludere fasce di popolazione dalla partecipazione ai benefici
dello sviluppo economico e sociale nel real space.
[14] Forti Simona (a cura di), LA
FILOSOFIA DI FRONTE ALL’ESTREMO, Einaudi, Torino 2012
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