THE DYNAMIC OF THE CHANCE - international conference on "Freedom and Security in real and cyber space"









I dwell in Possibility -
A fairer House than Prose -
More numerous of Windows -
Superior - for Doors -
Of Chambers as the Cedars -
Impregnable of Eye -
And for an Everlasting Roof
The Gambrels of the Sky -
Of Visitors - the fairest -
For Occupation - This -
The spreading wide my narrow Hands
To gather Paradise –“[1]
Emily Dickinson




Possibilità libere
La libertà dell’uomo consiste nell’abitare dentro le possibilità della vita, in “ una casa più bella della prosa”. Ciascun uomo nasce sotto “la volta del cielo” e, in quel momento, le sue possibilità sono infinite; le stanze della vita, alte “come cedri”, hanno porte superbe e speranze che si distendono, sterminate e sfuggenti, dalla finestra all’orizzonte. Il futuro è talmente intenso e profondo che “lo sguardo non può penetrare”. L’uomo poi cammina, agisce, sceglie e sbaglia. Le sue possibilità si riducono, quella stanza si restringe, le porte si chiudono, le speranze si diradano. Alla fine resta soltanto la libertà di concludere.

Possibilità condizionate


Sulla scorta del pensiero di Hobbes e del giusnaturalismo, si è sempre creduto che una maggiore sicurezza comportasse una minore libertà. Come se rispettare la regola e i regolamenti, riducesse la libertà del cittadino.
È una idea totalmente sbagliata: sia perché, nonostante le pretese di Hobbes, non c’è mai stata, né per gli umani né per alcune tipologie di primati[1], una condizione di homo homini lupus, una condizione in cui, cioè, la forza di usurpazione dominasse la libera vita dei singoli individui; sia perché un contratto sociale che protegge il più debole, non è un fattore di riduzione della libertà, ma una estensione del suo godimento medio.
 Se poi si ritiene che la riduzione della libertà corrisponda al rispetto di un comportamento regolato e di una azione regolamentata, o peggio ancora che la sicurezza si produca con i muscoli della polizia e l’occhio universale che controlla la vita di ciascuno di noi, si vive in un film di fantascienza piuttosto che nella società contemporanea. Nella fase di istituzionalizzazione del potere conquistato con la forza degli eserciti, Napoleone diceva al suo generale Lafayette che con le baionette ci si può far tutto tranne che sedervicisi sopra. Per sedersi sopra i processi politici del mondo senza farsi del male, oggi è sempre più necessario il consenso che deriva dalla reciproca, controllata, coniugazione di libertà e sicurezza.
Non le armi, dunque, non la guerra, ma la libertà di continuare a scegliere il proprio modello di sviluppo è la sicurezza più forte per tutti i cittadini. E invece, ciò che accade oggi è un modello di sviluppo imposto, ignoto, incomprensibile. Nessuno sa, veramente, fino a che punto i criteri e le soluzioni proposte siano effettivamente corrispondenti al bisogno. Nessuno è in condizione di verificare l’efficacia delle decisioni assunte. La legittimità politica si regge sulla paura di scenari futuri devastanti. Un terrorismo economico che, come il terrorismo politico, si nutre della insicurezza e della paura. Il terrore dell’avvento di scenari orripilanti blocca la speranza di tutti e la lascia nelle mani di un potere totalmente fuori controllo, talmente fuori controllo che si ignora perfino chi lo detiene davvero.
So bene che il mondo è complessivamente migliorato in termini di sicurezza, libertà e sviluppo economico e sociale,  anche se noi ne siamo complessivamente inconsapevoli. Nonostante tutto abbiamo visto accresciuto e incentivato ulteriormente il confronto, l’impegno, la conoscenza e lo scambio, tra persone, idee, associazioni e istituzioni. Oggi più di ieri, anche se non sembra, viviamo nella possibilità.
Ma il fatto politicamente rilevante è proprio che non sembra.
Il potere degli altri su di noi è nel “non farlo sembrare”, nell’occultare ogni occasione di vita per nascondere il futuro e nel prestabilire chi lo deve gestire. Agli altri, gli esclusi, quelli che non devono sapere e non possono partecipare, è lasciata la paura e una insicurezza sempre più profonda, sempre più ancestrale, sempre più ingiustificata. Il potere di oggi diffonde un nichilismo generale, direi collettivo, che ostruisce il passo e blocca l’azione. Ti chiude in casa per paura, nell’insicurezza e semplicemente nell’impossibilità.  È il dramma della prostrazione cognitiva, che ostruisce la percezione di ogni speranza, per lasciare a chi conta e a chi detiene il potere nella società della comunicazione, la gestione delle alternative.
Il potere nella società della comunicazione si esercita gestendo le possibilità.

Nella società della comunicazione globale la dinamica delle chance si governa con l’insicurezza. Il cittadino  deve sentirsi libero di essere insicuro e insicuro di essere libero. Il potere incontrollato è di nuovo, come sempre, costruito sulla oscurità che produce insicurezza. Paura ancora. Si, ma non paura nel presente, che induce la fuga, paura del futuro che orienta, che accelera o blocca l’azione della “folla solitaria[2] di utenti.
Che cosa è questo potere presente e sempre più futuro della dinamica delle chanche? Come può essere definito e compreso?
Non possiamo farlo se non ci depuriamo dall’inquinamento cognitivo che fin qui ci è stato  indotto per trasmenterci la opportuna quantità di insicurezza virtuale (non reale) necessaria per governarci.
Finora, infatti, ci è stato fatto credere, che una maggiore sicurezza comportasse una necessaria riduzione di libertà o che, contemporaneamente, una eccessiva libertà comportasse una minaccia alla sicurezza dei cittadini.
Niente è più falso di questo. Si tratta di una verità che non ha nulla a che vedere con la realtà in cui viviamo. Sono scenari di verità che servono per produrre una determinata realtà.
Non possiamo nemmeno più considerare cyber e real space scissi, né possiamo affermare che nel cyber space si affermano verità di comodo che condizionano la nostra interpretazione del real space. Le fake news sono la realtà, proprio come le verità sacromagiche degli sciamani erano la realtà degli indigeni. Sono uno dei modi più volgari che abbiamo per condizionare le nostre possibilità: per produrre l’insicurezza utile a limitare le nostre opzioni di scelta e la nostra libertà. Altre tattiche di condizionamento elettorale più sophisticate, ma non troppo, le abbiamo scoperte con il «caso di Cambridge Analytica» in cui una società di marketing elettorale avrebbe utilizzato in modo illegale e scorretto i dati e le informazioni, provenienti da Facebook, di 2,7 milioni di europei. Senza aggiungere gli altri dati, in altre piattaforme continentali, ancora occultati.
Quei dati, quelle informazioni sono state funzionali alla costruzione di un sentiment generalizzato in grado di orientare le scelte elettorali e gli esiti politici. In grado cioè di ridurre le opzioni di scelta riducendo le considerazioni critiche dei cittadini elettori. Il dramma di tutto questo è che gli utenti sono rimasti totalmente indifferent e spesso consenzienti, illusi di saper selezionare le news, quando sono semplicemente rafforzati emotivamente nei loro pregiudizi. Dalla mattina alla sera siamo ossessionati dalla paura del crimine sociale e politico, da un terrorismo all’altro, e nessuno si chiede se questa generale insicurezza non sia il presupposto per il controllo delle possibilità altrui e per il condizionamento delle scelte. Come la sicurezza espande la libertà, l’insicurezza la riduce.
È stato così in tutte le mutazioni storiche?
Vediamo.



Sicurezza e libertà nelle mutazioni storiche
In questi anni ho distinto[4] lo sviluppo politico della società umana, secondo la fondamentale funzione del potere, in quattro grandi mutazioni:

1.      l’avvento dell’ontopower, il potere ontologico della sopravvivenza, dalla conquista della posizione retta alle piramidi egiziane, l’epoca della logica endofasica, quando dominava la paura individuale e collettiva, quando sicuri per davvero non si poteva mai essere, la minaccia alla vita era permanente e la libertà, cioè il distanziarsi dalla comunità o dal gruppo, era un rischio costante;
2.      l’avvento dell’egopower, da Narmer, primo faraone della prima dinastia egiziana, alle grandi rivoluzioni americana, francese, inglese (e, forse, quella più distante e reattiva russa), il potere egocentrico dell’autorappresentanza, l’epoca della logica formale, quando la sicurezza era totalmente affidata al potere politico e la libertà era una reazione, una forma di ribellione personale o organizzata;
3.      l’avvento del biopower, dalla rivoluzione industriale alla caduta del muro di Berlino, in soli duecento anni profondissimi di storia, in cui siamo passati (per traumi sconvolgenti) dal cavallo al missile, la sicurezza era assicurata dal potere del controllo della vita, dalla sua cura, dalla sua tutela, dalla sua gestione dalla culla alla bara, l’epoca della logica computazionale, quando la libertà era autonomia dalla regolamentazione burocratica dell’esistenza negli spazi di azione formale;
4.      l’avvento dell’epipower, dal crollo delle mura e delle torri a noi, il potere epistemologico dell’auto-rappresentazione, la verità che produce realtà e anche la realtà che induce verità, la società della comunicazione e l’intelligenza collettiva, l’ologramma della conoscenza e le minacce di controllo, l’epoca della logica quantistica, oggi, con il potere che si esercita gestendo la insicurezza degli altri, la sua dimensione funzionale, il gradiente necessario per orientare le aspettative e il sentiment politico degli elettori, in questa nostra epoca in cui la libertà è la difficile fuga dalla omologazione della eterodirezione di massa.  

Durante le 4 mutazioni, la filosofia politica è sempre stata la narrazione di legittimazione del potere: nell’epoca dell’ontopower, quando le comunità dovevano dare sicurezza ai corpi degli uomini, la filosofia politica doveva legittimare il comando con l’attribuzione del potere a chi (e perché) ne aveva la potenza; nell’epoca dell’egopower, quando le società avevano bisogno di uno spazio da dominare, abbiamo elaborato una filosofia politica in grado di giustificare la edificazione degli Stati con forme del governo (di uno, di pochi o di molti) in grado di contenere e indirizzare la esorbitante energia-potenza del potere; con l’avvento del biopower, quando la differenziazioni in sistemi ci ha permesso di controllare (tutelare) il tempo della vita individuale e collettiva, abbiamo sostituito la forma all’azione, la tripartizione delle forme (dittatura, aristocrazia, democrazia) con un processo politico che dal totalitarismo ci ha condotto alla democrazia e, spesso, viceversa. L’azione cioè come metodologia di trasformazione della energia sociale da potenza in potere (democrazia) o da potere in potenza (totalitarismo); oggi, con l’avvento dell’epipower nella società della comunicazione, quando i network possono essere clusterizzati e separtiti da sentiment politici, emotivi e/o razionali, in grado continuamente di rielaborare la mente globale a cui partecipiamo, abbiamo bisogno di una nuova filosofia politica, di una nuova narrazione che sappia legittimare  il dinamico punto di congiunzione di un potere/potenza eccedente e spesso eccessivo, perché di dimensione superiore in quanto appare secondario (epifenomeno) ma non lo è affatto, essendo sempre più assorbente delle cognizioni collettive, delle verità che producono realtà, di religioni che si impongono, di fattori morfologici in network politici che dosano autocrazia e democrazia in ogni opportuno momento (epistemologico).

In tutte queste epoche storiche il potere si è dato sempre principalmente uno strumento per regolare e regolamentare il rapporto di equilibrio tra libertà e sicurezza: il diritto. Con la legge, di volta in volta e nei più svariati argomenti, si è stabilito quanto e come un cittadino avesse la libertà di agire e fino a che punto minacciasse la libertà altrui. Come si ricorda spesso: la libertà di volteggiare il tuo pugno nell’aria finisce laddove quel pugno incontra il mio naso. Questo principio hobbesoniano e giusnaturalistico, è il fondamento su cui sono state formulate quasi tutte le costituzioni moderne; ed anche il fondamento dei diritti etico politici che, con più o meno intensità, sono stati introdotti in diverso modo e in diversi sistemi giuridici[5].
È un principio validamente interpretato? Possiamo davvero definire il divieto che quel pugno rompa violentemente il mio naso una libertà repressa? E dunque possiamo davvero considerare il divieto che il diritto stabilisce a quel pugno come una limitazione di libertà che permette una maggiore sicurezza per il mio naso? O piuttosto non dobbiamo considerare che il mio naso gode di maggiore libertà di respirare senza difficoltà proprio perché ha la sicurezza che quel pugno non può raggiungerlo? E viceversa, quel pugno, non ha la libertà di volteggiare in aria libero da ogni condizionamento e verso ogni direzione proprio perché non può e non deve fermarsi su nessun naso?
I sistemi di controllo di cui il potere si dota, nei limiti stabiliti dal principio democratico, non costituiscono una limitazione perché non è una libertà quella di offendere con un pugno qualsiasi un qualsiasi naso. Quel controllo giuridico, tecnologico e poliziesco, nei limiti che la democrazia consente, sono una estensione, non una riduzione della nostra libertà e contemporaneamente della nostra sicurezza. Per venire qui oggi sono stato obbligato al rito del metal detector e all’impedimento di trasportare esplosivi; ma quell’impedimento non è una riduzione di libertà. È una sicurezza che garantisce a tutti la libertà di viaggiare. Nessuno avrebbe più la libertà di prendere un aereo se fosse ogni volta sottoposto al rischio di esplodere in volo. Diceva Niklas Luhmann[6] che la minaccia che piova diventa un rischio se non mi porto gli ombrelli. Dobbiamo costruire ombrelli per avere la libertà di poter camminare sotto la pioggia, con la sicurezza di non finire inzuppati d’acqua.
Siamo più liberi perché siamo più sicuri.
Siamo più liberi soltanto quando siamo più sicuri.

In questi anni ho studiato i problemi della violenza politica e del terrorismo. Sono stati anni tremendi. Dalla fatidica data dell’11 settembre 2001 abbiamo condiviso e ripristinato la paura ancestrale della sopravvivenza. Solo oggi abbiamo davvero la consapevolezza di quanto lo shock del crollo della infinita edificazione abbia influito sul sentimento profondo della nostra vita. Sulla nostra speranza. E quindi sulle nostre possibilità.
Eppure, oltre ogni letteratura della catastrofe, in questi  negli ultimi anni abbiamo vissuto qualche chance in più. Nonostante tutto abbiamo vissuto meglio.
Nella nostra recente storia è già successo. Il salto quantistico e violento dentro l’era atomica. Con la ferocia ineliminabile di permanenti radiazioni di morte, con l’onda d’urto delle bombe che hanno piegato il mondo, siamo entrati tuttavia in un’epoca di inusitata pacificazione e di sicurezza. Abbiamo avuto una più ampia libertà delle chance che ci hanno offerto la conoscenza scientifica, le crescenti relazioni etiche e la costante riduzione della violenza.
Il consenso oggi è assolutamente funzionale alla articolazione del potere.

La minaccia del consenso funzionale
Nella democrazia liberale da cui proveniamo, eravamo abituati a considerare il consenso come la variabile indipendente dei sistemi democratici. La democrazia era tale soltanto se le sue decisioni venivano prese sulla base del consenso espresso direttamente o indirettamente dai cittadini elettori. Così siamo stati educati. Nella scienza politica, si parla di “democrazia minima”, cioè ridotta all’osso, “solo se abbiamo la compresenza di quattro variabili: 1 – l’esistenza del suffragio universale; 2 – la possibilità di praticare elezioni libere competitive, ricorrenti e corrette, cioè elezioni che possano ripetersi, che abbiano una scadenza nella responsabilità di governo e che siano appunto «corrette», cioè nel rispetto delle regole; 3 – una pluralità di partito, almeno due, meglio se più di due; 4 – l’esistenza di alternative fonti di informazione, affinché possa essere possibile presentare e rappresentare le proprie posizioni senza che posizioni dominanti … finiscano con il manipolare la normale «competizione» democratica[7].
Come è evidente, il minimo comun denominatore di queste variabili comuni a tutte le democrazie liberali è il consenso. In ogni democrazia, il consenso legittima il potere. Nella teoria aristotelica delle forme è il consenso che distingue gli idealtipi costituzionali (dittatura, aristocrazia, democrazia). Nella teoria dell’azione di Hannah Arendt è il consenso, ricercato sia nella democrazia che nel totalitarismo, che trasforma l’azione sociale in relazione politica. In ogni economia liberale il consenso all’acquisto dei prodotti orienta il mercato e salva il sistema dalle sue cicliche crisi. Il passaggio dalle economie industriali alle economie di consumo fino alle attuali economie finanziarie è stato dettato dal consenso. Oggi, infatti,  con l’economia finanziaria ormai imperante e condizionante delle produzioni industriali, il consenso degli azionisti è fondamentale. Tanto che, come spiegava benissimo John Kenneth Galbraith, i consumatori sono essi stessi, con le azioni che posseggono, i proprietari delle imprese che producono. Una reputazione negativa allontana gli investimenti in borsa sulle azioni rese disponibili nel mercato. Il consenso è assolutamente fondamentale per il rastrellamento dei micro finanziamenti sul mercato azionario e per il consumo dei prodotti.
Non sarà un caso che dove c’è maggiore democrazia c’è maggiore ricchezza. La democrazia è l’unico luogo al mondo dove si possono concretizzare affari lucrosi con il consenso dei cittadini. Dunque, il consenso non va assolutamente abrogato. Senza il consenso il potere ha una minore potenza e la ricchezza circoscritta a pochi non dura molto. La democrazia ha bisogno assoluto del consenso e le grandi Corporation della società della comunicazione hanno bisogno della democrazia. Le prime 10 organizzazioni economiche del mondo realizzano i loro affari miliardari in internet, dove, rastrellando un euro a internauta, si ottengono enormi capitali. Cifre che nessuna organizzazione criminale, nonostante la sua enorme violenza, riesce a rastrellare. Come farebbero senza il consenso?
Senza il consenso, senza la democrazia liberale che conosciamo, non esisterebbe nemmeno il cyber space. Il consenso, che era funzionale alle economie liberali, è ora anche funzionale al potere della società della comunicazione.
Allora: se il consenso non può essere abrogato senza un danno irreversibile ai sistemi economici contemporanei e alle ricchezze ultimamente accumulate; se il consenso è così rilevante sia per la produzione di plusvalenze economiche e politiche, per le rendite finanziarie e amministrative, per la vendita delle produzioni e la reputazione personale; se è così importante per il potere, non può restare libero. Non può essere costretto o represso? Allora deve essere controllato, condizionato. Può  essere gestito, governato, indirizzato, orientato, controllato, condizionato. Il consenso deve essere funzionale al potere. Esistono, infatti, sempre più sofisticate metodologie e tecniche di “sentiment” - cioè di orientamento delle aspettative per la produzione di un consenso finalizzato e funzionale – nel marketing economico e politico. E il marketing non è nient’altro che l’orientamento del consenso all’acquisto e al voto.



Il più ancestrale, emotivo, emozionale, fisico, cognitivo, incontrollato, devastante  fattore di controllo delle aspettative di massa e orientamento del consenso è la paura. La paura ci domina. La paura ci riduce e ci conduce. La paura pesa sulla rete delle relazioni sociali che ci proteggono e le piega, le rende concave. Le onde di comunicazione relazionale sono curve come le onde magnetiche. Come pianeti nell’universo della socialità, gli eventi - virtuali o fisici non importa - curvano lo spazio, sia cyber che real, intorno a noi con il loro peso. E noi scivoliamo costantemente attratti dalla più o meno ripida e profonda curvatura della loro influenza.
Gli eventi che pesano di più sono indubbiamente quelli che generano paura. Non una paura assoluta. Una paura relativa, dosata precisamente al fine di indurre il consenso sulle decisioni che si è stabilito che si debbano prendere. È indispensabile cioè produrre l’insicurezza necessaria ed opportuna per il sostegno a scenari di verità che possano, successivamente al consenso funzionale ottenuto, generare la realtà che si era programmato di avere.
È sempre più il cyber che genera il real.
Sempre meno il real si riflette nel cyber.
Per far questo l’insicurezza, o meglio, la percezione di insicurezza è assolutamente necessaria, perché induce la paura dosata, quella che serve ad orientare le aspettative e a produrre consenso.
E a decervellare. A decervellare per omologare. L’insicurezza è causa ed effetto del decervellamento del cittadino utente, dell’assenza di una comunicazione critica, della ossessiva presenza di una informazione finalizzata alla costruzione di scenari di verità che spesso non sono per niente corrispondenti alla realtà.
In ogni caso, il consenso, che era per noi il presupposto della democrazia, oggi può diventarne la minaccia, nella veste di quel trend che noi chiamiamo impropriamente populismo, e che invece è decervellamento, la anestetica accettazione di pregiudizi politici che servono a lenire la paura indotta da una insicurezza collettiva appositamente prodotta. Una insicurezza, cioè, che causa ed effetto della paura: che è per noi oggi la più sofisticata e occulta restrizione della libertà. La nuova minaccia alla democrazia è la insicurezza psicotica dei cittadini utenti, vittime di un consenso indotto per essere funzionale. La democrazia della comunicazione è minacciata dalla competenza occultata dalla insicurezza di far desiderare agli utenti consumatori elettori di comprare prodotti pre-confezionati e votare per soluzione prestabilite. La maggior parte delle leggi elettorali, per esempio, precodificano le soluzioni politiche e spesso prestabiliscono chi deve essere eletto e chi no.


Dinamica delle chance
Viceversa, in questa epoca di facili invasioni, di invadenze concordate tra poteri globali, io continuo a sostenere il nesso inscindibile tra sviluppo, sicurezza e libertà.
Questo nesso è il valore della democrazia in cui vogliamo vivere e a cui ci dobbiamo appellare.
L’insicurezza della nostra vita virtuale è il prodotto di uno sviluppo assente in molta  altra vita reale. Troppo spesso il pregiudizio contro gli immigrati, quel processo per cui lo straniero diventa estraneo, è funzionale per coprire la concentrazione della ricchezza e la parallela estensione della povertà. Insisto nel credere che, per quante strategie communicative di produzione della insicurezza ci industrieremo ad elaborare,  con strumenti sofisticati e costosi, mai noi depotenzieremo la carica rivoluzionaria e conflittuale della povertà.
Nella società della comunicazione globale la libertà è il prodotto della conoscenza, della cultura e della convivialità nelle relazioni tra umani. Ne sia riprova inequivocabile il fatto che l’insicurezza percepita non è più, assolutamente corrispondente alla insicurezza subìta. L’insicurezza è assolutamente prodotta per indirizzare emotivamente gli esiti elettorali e per costruire un sentiment comunicativo acritico e omologante. L’insicurezza riduce la libertà e induce la povertà.
Sicurezza, libertà e sviluppo sono, invece, i tre vettori che si incrociano in un solo punto, che si intersecano nel punto di equilibrio in cui viviamo la nostra vita politica, economica e sociale. Quando le decisioni politiche spostano l’equilibrio dei network relazionali della nostra vita, la società rischia continuamente di debordare verso l’asse della sicurezza eccessiva che diventa controllo, o verso l’asse dello sviluppo irrefrenabile che diventa crescita, o infine verso l’asse della sregolata libertà che diventa sopraffazione. Per poter continuare a vivere nella possibilità e per lasciare integra questa speranza alle generazioni successive, dobbiamo mantenere l’equilibrio dinamico tra sicurezza, sviluppo e libertà. 


L’equilibrio nella dinamica delle chance tra sicurezza, libertà e sviluppo, ci fa capire precisamente che tipo di democrazia nuova è quella contemporanea della comunicazione. Prima avevamo forme contrapposte (dittatura, aristocrazia, democrazia) . Poi abbiamo avuto azioni opposte (totalitarismo, democrazia). Ora abbiamo intervalli composti. Prima sapevamo sempre dove stavamo, come eravamo posizionati. Ora non lo sappiamo più. Lo dobbiamo stabilire di volta in volta. Dipende dalle dinamiche delle chance che ci offre l’intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo.
Oggi, a un estremo dell’intervallo, nel network sociale in cui viviamo abbiamo una polarizzazione autocratica. All’altro estremo abbiamo una polarizzazione democratica. D’altronde una rete è fatta di poli e connessioni. La connessione da un polo all’altro è sempre un intervallo. L’intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo, con la dinamica delle chance che ne consegue, ci dice, di volta in volta, per ogni scelta assunta e per ogni decisione presa, a che punto dell’intervallo auto-demo siamo posizionati. In ogni momento il nostro network politico sociale ed economico, per ogni legge approvata, per ogni peso in grado di curvare la rete della nostra vita, in relazione alla pendenza della curvatura, possiamo dire se il nostro network tende ad essere più segregato o più integrato[8], più autocratico o più democratico[9]. Tutto dipende dalla dinamica delle chance a nostra disposizione, cioè cioè la dinamica di quelle chance possibile all’interno del nostro dominio relazionale, che si producono dalla intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo.

In cyber space: scenari di verità
Il fatto è che in questo mondo contemporaneo di verità non corrispondenti alla realtà e di sentiment condizionanti, gestire la percezione di insicurezza degli altri è la più tenace espressione del nuovo rapporto tra potere e potenza. Un rapporto essenzialmente cognitivo, che ci rende liberi di essere omologati e certi di essere insicuri. Possibile che nessuno si chieda davvero come mai, nonostante che i dati sulla violenza siano statisticamente e storicamente decrescenti, la percezione di insicurezza è psicologicamente e socialmente crescente? Se abbiamo sempre meno violenza, perché abbiamo sempre più paura? E paradossalmente, perché hanno più paura i paesi in cui la violenza è più bassa, l’aspettativa di vita più alta e la ricchezza maggiormente distribuita? Perché la percezione di insicurezza è più forte dove la sicurezza è maggiore?
Perché con la paura si governa il presente e si programma il futuro.
È l’insicurezza a limitare la libertà. La sicurezza la estende.
L’insicurezza generata e propagata nel cyber space induce paura e riduce la libertà di vivere nel real space. Quanti di noi evitano di attraversare delle strade nelle loro città soltanto perché i media hanno diffuso la preoccupazione del crimine, o dello straniero aggressivo, o dello psicopatico trasformato in serial killer? Quanti hanno paura di lasciare i figli nella scuola pubblica perché hanno visto in televisione il caso di alcuni insegnanti che maltrattano i bambini? Quanti pagano per questo le scuole private o religiose, che riducono i servizi per ridurre i costi e incrementare il guadagno, convinti di una migliore educazione per i propri figli? Quanti si fanno curare da costose cliniche private, che per risparmiare riducono le terapie più complesse, perché gli ospedali pubblici sono meno accoglienti? Quanti pensano che le mamme maltrattano o uccidono i figli perché hanno seguito un caso sconvolgente in un programma di moda? Le mamme invece curano i figli, li proteggono, li accudiscono; gli ospedali pubblici sono in genere più efficienti delle cliniche private; e gli insegnanti delle scuole pubbliche, se ben selezionati, sono migliori dei loro omologhi nelle scuole private, almeno perché sviluppano una esperienza in più rapporti di diversa cultura ed estrazione sociale.
Nel cyber space il male è pubblico. Il bene è privato.
Il male pubblico è più evidente e il più emotivo, il più enfatizzato.
Il bene privato, anche se molto di più, passa in ombra, nello sfondo del palcoscenico, non è protagonista, nascosto dalle telecamere, ignorato dai social. Nessuno se ne accorge, anche se è tanto, notevolmente di più.
Con la paura si governano le connessioni cognitive collettive, si governa l’insicurezza e si riduce la libertà dei cittadini.
Con la insicurezza ci si appropria della nostra libertà, si lascia a un potere incontrollato e incontrollabile la gestione del nostro futuro, la proprietà monopolistica delle nostre incommensurabili possibilità.
La nostra libertà sta invece nel rendere democratica l’energia-potenza del potere,  sta interamente nel comprendere e ridurre  il paradosso della insicurezza e della paura mediatica in una vita imitata. Viviamo nella possibilità di cogliere il valore culturale e comunicativo  dello sviluppo. Espandendo le dinamiche del confronto viviamo la libertà di superare i vincoli rigidi della informazione codificata. Abbiamo l’occasione di scegliere ogni volta un diverso punto di equilibrio generale cercando di comprendere dove si colloca, in ogni nostro momento, quella magica intersezione tra le istanze politiche di sicurezza, libertà e sviluppo di ogni aggregazione umana.
Possiamo volere; che è l’unica forma di superamento della paura e della insicurezza nella società della comunicazione. Vivere all’altezza dei tempi, come diceva Ortega y Gasset, significa cogliere la possibilità che ci offre ogni società in cui viviamo per affermare l’intelligenza dei nuovi compiti, delle priorità, delle metodologie che la comunità politica deve sviluppare per ripristinare l’equilibrio nel complesso sistema di relazioni locali e globali, nazionali e internazionali.
Contro tutte queste possibilità, invece, noi percepiamo il propagarsi della violenza e della corruzione nel mondo, padrona di tecnologie più avanzate e  metodologie sofisticate, come il prodotto di un generale squilibrio tra le parti.
Quanta sicurezza c’è nella protezione dei sistemi connettivi?
Quanto sviluppo c’è nella transizione dei sistemi socio-tecnici in net society?
Quanta libertà, individuale e collettiva, assicurano a tutti noi oggi le azioni incontrollate dell’intelligence?
Internet è uno spazio di liminalità, un luogo che ha cambiato i metalivelli, cioè i criteri una volta insuperabili con cui abbiamo  organizzato la nostra vita. Internet è un viaggio totalmente destrutturato, senza tempo e senza spazio, che vive al fianco del tempo e dello spazio strutturato della nostra società. Oggi internet sta assorbendo le nostre città, con i suoi simboli, con i suoi significati e più di tutto con i suoi criteri. La minaccia telematica può, dunque, essere molto più pericolosa di quella tradizionale, perché s’insinua nel silenzio informatico dentro il quale estendiamo il pensiero, perché è occulta e imprendibile, ci isola da ogni punto di riferimento e ci travolge nella solitudine metropolitana. Che cosa accadrebbe se i terroristi destabilizzassero via internet la rete di energia elettrica di Milano o avvelenassero l’acquedotto di Roma? Quale azione di contrasto potremmo esercitare se ci bloccassero i telefoni?
D’altronde, la seconda guerra mondiale gli alleati l’hanno vinta anche grazie alla competenza di Turing, un oscuro scienziato inglese, vissuto nel fumo e nella penombra dei sobborghi di Londra, ma che nel frattempo ha inventato il linguaggio computazionale dei nostri computer, le macchine che si autoproducono e ha decodificato i messaggi crittografati delle comunicazioni naziste. E ha avuto per premio una mela avvelenata. Già allora erano preponderanti i problemi relativi alla informazione, alla comunicazione e alla sicurezza, alle reti, cioè alla rivoluzione connettiva e alla sua incidenza sulle trasformazioni del sistema politico internazionale.
Se penso che Bin Laden, prima ancora di destabilizzare la città di New York ha destabilizzato le borse mondiali, se penso alla corrosività dell’usura e alla invadenza tecnologica delle organizzazioni malavitose sulle uniche vere attività di e.commerce come la prostituzione, la pornografia, il traffico internazionale di droga e di molti altri business imprendibili ma estremamente lucrosi; e poi vedo la depressione implosiva di tanti uomini e di tanti territori soffocati da una realtà tossica che sorregge la finanza purificata dalla tecnologia; ho una percezione fisica di cosa significa modernizzazione, tecnologia e crescita senza sicurezza delle imprese delocalizzate; so quanto residuale è la nostra libertà di agire e so quale è il loro inscindibile rapporto.

In real space: la politica della paura
Pitirim Sorokin affermava che la crisi della sicurezza nel nostro tempo, sta nella presenza di uomini senza Dio e valori morali assoluti, anarchici, privi di obbligazioni contrattuali, uomini senza vincoli e responsabilità che possono dare sfogo ai loro desideri e alle loro voglie smodate.
La storia degli ultimi anni, e la cronaca di questi giorni, hanno totalmente smentito anche questa opposta e per certi versi complementare interpretazione.
La destabilizzazione terroristica è un atto derivato da una troppo forte presenza di Dio, della fede, della fedeltà a valori morali assoluti, che piegano le vite di molti esseri umani. I terroristi non hanno desideri e voglie smodate. Vivono in luoghi appartati e si sacrificano, il loro è un martirio sull’altare di una fede e di una ideologia. In ogni caso quella è una forma religiosa di partecipazione alla vita sociale e politica caratteristica delle comunità sacromagiche piuttosto che delle società industriali.

Il passaggio della modernizzazione e dello sviluppo è proprio questo: la transizione dalla comunità alla società, dai sistemi ai network. Finché nel mondo continueranno ad esistere ampie comunità sacromagiche in cui la miseria è l’alveo di un fondamentalismo che taglia mani e teste, che schiavizza categorie di uomini e donne, che toglie la vita a discrezione personale in nome di una fede universale, la sicurezza non sarà garantita a nessuno. E non ci può essere alcuna azione repressiva in grado di arginare un fenomeno così ampio e pervasivo. Se nelle zone interne dell’Afghanistan, dove non conoscono le televisioni, sentono sfrecciare aerei senza sapere che cosa sono, o in Africa dove i bambini muoiono bruciati da un virus influenzale, o perché non hanno acqua, o perché non hanno cibo. Se si portasse sviluppo economico e sicurezza sociale, lavoro, ricchezza e medicine, sarebbe la forza felina delle madri ad evitare che i figli divengano bombe viventi.


La questione è sfuggente.
L’equilibrio è indefinibile.
Ma la paura è rimasta, sempre più fisica e palpabile, veicolata dai mass media e prodotta da moltiplicatori comunicativi, in veste di criminali o di terroristi. Perché quella paura è la forza del potere, non quella energia che costruisce il futuro, ma quella forza che ci sciaccia nel buio dell’assenza di volontà, per espropriarci di ogni possibilità.
Forse il compito che dobbiamo assegnare, fin dall’inizio, alle nuove Istituzioni politiche consiste proprio nell’individuare il punto di equilibrio auto-demo, dettato dall’intersezione tra sicurezza, libertà e sviluppo, tra tendenze travolgenti che, senza la politica, rischiano di andarsene ciascuna per proprio conto.
La politica è un fatto sociale totale, che attraversa trasversalmente tutti i sistemi economici, sociali e culturali della nostra vita moderna, per ridurne la complessità con scelte e consecutive decisioni. Il primo oggetto dell’azione politica, da sempre, fin dalla costituzione delle comunità, delle società, dei sistemi e dei network,  è quello relativo alla produzione e alla gestione della speranza dei suoi cittadini. Al contrario, quando la politica riduce la speranza, quando produce insicurezza e paura, è un’aberrazione, una degenerazione, una regressione, in qualche modo, una corruzione della socialità e della civiltà. L’obiettivo ultimo della politica consiste nell’individuare, ovunque, nei flussi migratori, nella geopolitica nazionale ed internazionale, nella organizzazione delle metropoli, nei sistemi produttivi, nelle strutture militari e militanti, il problema complessivo della speranza complessiva. E dovrebbe far questo con progetti specializzati che si inseriscano coerentemente nella dialettica tra sicurezza, sviluppo e libertà individuale e collettiva. Una dialettica che va tutelata ed estesa.


Il diritto della possibilità
Secondo Jurgen Habermas le possibilità hanno una loro condizione giuridica concreta: si chiamano diritti. I diritti, nella filosofia politica, sono “condizioni di possibilità per l’effettiva autonomia del singolo individuo[10]. Habermas distingue 5 tipologie di diritti: libertà individuale, status sociale, giuridici, politici, economici[11].
Se le possibilità sono il dominio dinamico prodotto dalla interazione tra sicurezza, libertà e sviluppo, allora è necessario che vi sia un diritto ad avere possibilità. Almeno ad avere pari possibilità. Nelle democrazie della comunicazione contemporanee questo diritto deve essere politicamente tutelato e garantito, un diritto alla felicità, come previsto nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, fin dal 4 luglio 1776 [12].  
A causa di questa grande mutazione rischiamo di cadere nel vuoto della delegittimazione. Rischiamo un habitat sociale pieno di azioni e senza interazioni, in cui la disobbedienza si trasformi in distruttività aggressiva o regressiva. In tutti e due i casi si spezzano i legami della legittimazione politica del potere. L’azione sociale rischia di perdere gradi di libertà perché condizionata, indotta dai principi di omologazione culturale. In questa situazione la complessità diventa complicazione, cioè non si riesce più a clusterizzare, a tenere insieme i poli di un network che diventano autoreferenziali perché troppo differenziati. Non ci sono più idee, tantomeno gli ideali che svolgevano la funzione di accreditare una imprecisa modalità di interazione. La democrazia, così come l’abbiamo conosciuta, viene disarticolata con la percezione di insicurezza, proprio al fondamento della sua attrattiva identità: tutelare più di tutti la sicurezza complessiva dei suoi cittadini.  Nel cyber space si propaga la percezione di insicurezza sociale, mentre nel real space si sente l’insicurezza economica di un  modello di sviluppo che non regge. E la libertà politica è occultamente minacciata [13].


Libertà: etica della sicurezza
Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”. Questo è il manifesto del liberalismo, redatto come iscrizione sepolcrale di Immanuel Kant. Tra il cielo stellato e l’imperativo morale, tra la infinita possibilità di agire e la mia volontà c’è l’etica politica delle istituzioni e dei cittadini comuni. L’equilibrio tra le parti, il generale equilibrio del sistema, esiste soltanto se resiste un’etica della politica in grado di arginare la discrezionalità di chi vuole eccedere. Si deve arginare chi, in nome della sicurezza vuole imporci ogni controllo; bisogna frenare la dismisura, la spinta e la pressione di coloro che credono di avere la libertà di fare quello che vogliono; bisogna limitare chi vuole crescere a dispregio di ogni altra forma di integrazione con l’habitat. La nostra filosofia deve sfuggire l’estremo[14].
Se c’è nella comunicazione civile una radicata etica politica, il rischio della scomposizione degli elementi sociali, il pericolo di imboccare la strada del dispregio  non c’è. Con un’etica della politica profondamente connaturata alle radici della società noi possiamo procedere senza debordare dal punto di intersezione tra sicurezza, sviluppo e libertà; noi possiamo evolvere senza perdere l’equilibrio. Naturalmente l’etica politica non può essere normata, cioè regolamentata per legge. Se lo fosse non sarebbe più etica e rischierebbe di istaurare un regime fideistico di nuovo tipo. Gli Stati etici sono una impressionante minaccia alla libertà e alla democrazia, come la storia ha abbondantemente dimostrato.
Oggi questo, radicare l’etica, è il compito della educazione. Con i mezzi di comunicazione di massa in azione permanente, l’etica politica può assumere una funzione di regolazione dei comportamenti, dell’azione, delle relazioni e delle interazioni, che porti l’intersezione sicurezza, libertà e sviluppo sempre più vicina al punto di equilibrio della maggiore civiltà.
Il sentiment, le emozioni collettive della società multimediale travolgono poteri e potentati, come diceva Margaret Mead: “vi sono canzoni che hanno distrutto re e reami”. Spesso le minacce alla libertà, troppo cantate, non vengono più percepite. Tuttavia c’è un’etica evidente e crescente nel cyber space. Ogni reato diffuso, divulgato in modo virale, alla fine distrugge nel real space il suo artefice. È un dato che viene troppo poco analizzato. L’orrore che spesso si propaga nel web determina restrizioni molto forti alla vita reale dei colpevoli. Se si controllano gli effetti prodotti dal bullismo mediatico o dalla reazione al crimine, anche soltanto in termini di dtigma comunicativo, ci si accorge che le preoccupazioni per le volgarità del cyber space sono eccessive. Di fatto c’è sempre una durissima e radicale reazione, anche solo per mantenere una reputazione,  contro i bulli o i criminali nel real space.
Anche nel web, la maggior parte del comportamento umano è etico e tende alla convivialità. Ci aiuta decisamente l’educazione, anche sempre meno è quella scolastica. Se l’educazione all’etica si estende, si approfondisce e seleziona la comunicazione, allora le lacerazioni sociali, le privazioni economiche e la libertà dei cittadini, verranno ricompose in una nuova dimensione della democrazia.

Certo, il futuro è sempre più impenetrabile. Speriamo sempre che sia frequentato da “gente più amabile”. E lo è. Anche se ci sembra, invece, che ogni giorno che passa non siamo più gli stessi; che non siamo mai gli stessi. L’uomo nella società della comunicazione può vivere contemporaneamente  in mondi diversi, in universi paralleli. Il potere vuole schiacciarci, con l’insicurezza e la paura in un eterno presente monodimensionale. Chi è ossessionato dai soldi e dalla crisi non può certo pensare al domani. Se nessuno pensa al domani qualcuno lo programma per tutti, con qualche vantaggio per sé. Le crisi di panico ci schiacciano nel buio della nostra stanza e il futuro si riempie di incubi. Ma possiamo sottrarci alla tirannia dell’inerzia, la nostra vera nemica, la nostra oppressiva dominatrice. Se ci soffoca il buio di una stanza chiusa possiamo uscire di casa. Se il modello di sviluppo che abbiamo non ci offre soluzioni credibili, cambiamo il modello di sviluppo. Non si esce da una crisi, diceva il compianto prof. Farnetti, senza una innovazione. La crisi riverbera se stessa e la migliore normale amministrazione non fa che rafforzarne le cause. Bisogna rompere il meccanismo autoreferenziale dell’autodistruzione, come fece il moltiplicatore Keynesiano e il welfare state. Bisogna interrompere la macchina schiacciasassi di questo potere che sta frantumando anche noi con la insicurezza di tanti micro pezzetti abbandonati e soli tra il cyber e il real space. Forse la dispersione delle nostre frammentate cognizioni ci sta emarginando, ci sta alienando cognitivamente, ma noi possiamo spalancare le nostre “piccole mani”. La speranza è un atto liberatorio. Dobbiamo riformulare il progetto didascalico della educazione, ci dobbiamo ri-educare alla lebenswelt, alla scienza della vita, per cambiare il modello di sviluppo e costruire una democrazia della comunicazione di nuovo tipo. È questa la politica. È questo un impegno all’altezza dei tempi. L’unico che può sconfiggere l’insicurezza e la paura, rivitalizzare le nostre consapevolezze e le nostre coscienze “per colmarle di paradiso”. 




[1]Io abito la possibilità, una casa più bella della prosa / Con tante finestre in più e porte migliori / Ha stanze come cedri dove lo sguardo non può penetrare / E per tetto sterminato / La volta del cielo / La frequenta la gente più amabile  / Così vi passo il tempo / Spalanco le mie piccole mani /Per colmarle di paradiso.“
[2] Tommasello Michel, STORIA NATURALE DELLA MORALE UMANA, Raffaello Cortina Editore, Minano 2016
[3] Riesman David, LA FOLLA SOLITARIA, Il Mulino, Bologna 2009
[4][4] Ceci Alessandro, COSMOGONIE DEL POTERE, Ibiskos, Empoli 2011
[5] Vedi: Croce Mariano e Salvatore Andrea, FILOSOFIA POLITICA. LE NUOVE FRONTIERE, Laterza, Bari 2012
[6] Luhmann Niklas, SOZIOLOGIE DES RISIKOS, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1991
[7] Sorice Michele, DEMOCRAZIA, RAPPRESENTANZA, INNOVAZIONE DEMOCRATICA, in Mannari Enrico (a cura di), LEZIONI SULLA DEMOCRAZIA, Bruno Mondadori Editore, Milano 2016
[8] Vedi: Lomi Alessandro, RETI ORGANIZZATIVE, Il Mulino, Bologna 1991
[9] Rimando per questo ad una prossima pubblicazione dal titolo emblematico: IL PUNTO AUTO-DEMO
[10] Croce M. e Salvatore A., cit. 2012
[11] Habermas Jurgen, FTTI E NORME. CONTRIBUTI A UNA TEORIA DISCORSIVA DEL DIRITTO E DELLA DEMOCRAZIA, Guerini e Associati, Milano 1992
[12] “Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità; allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo, tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo, che ponga le sue fondamenta su tali principi e organizzi i suoi poteri nella forma che al popolo sembri più probabile possa apportare Sicurezza e Felicità.”
[13] Il fondamento del nostro vecchio modello stava nella libertà e nella democrazia come sua istituzione politica. La rivoluzione industriale e la innovazione produttiva era il suo istituto economico. Il consumo di massa dettava le regole del sistema di riproduzione. La solidarietà sociale serviva alla distribuzione della ricchezza. La tranquillità capitalistica ha determinato l’accumulazione, non dei mezzi di produzione – come previsto da Marx – ma del potere con la competenza comunicativa nella gestione delle aspettative e la minaccia alla sicurezza individuale e collettiva dei cittadini. La soluzione potrebbe essere nella estensione della sicurezza in territori e fasce sociali nuove e altre; nella assenza di discrezionalità e nella possibilità di partecipare ai benefici dello sviluppo economico e sociale. In parte è anche così; ma è una estensione che interiorizza, in tutti i protagonisti, la insicurezza degli altri mondi e degli altri soggetti sociali. È proprio la insicurezza interiorizzata tramite il cyber space ad escludere fasce di popolazione dalla partecipazione ai benefici dello sviluppo economico e sociale nel real space. 

[14] Forti Simona (a cura di), LA FILOSOFIA DI FRONTE ALL’ESTREMO, Einaudi, Torino 2012

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